di Marco Santopadre
Mentre il ritorno al potere dei talebani a Kabul egemonizza l’attenzione di media e governi, in Etiopia la guerra civile si estende e lo scenario si complica rischiando di diventare incontrollabile.
Da giugno la controffensiva del Fronte Popolare di Liberazione del Tigré (Tplf) ha permesso al movimento politico-militare ribelle di riprendersi non solo le principali città dello stato settentrionale – tra cui la capitale Mekelle, Adigrat, Wukro, Shire, Axum, Korem e Alamata – ma anche di conquistare ampie fette di altre regioni orientali, in particolare nei territori degli Afar e degli Amhara, infliggendo numerose sconfitte sia alle truppe federali sia alle milizie regionali.
Per tentare di recuperare posizioni, il governo regionale dello Stato degli Amhara ha deciso di consentire ai propri cittadini di utilizzare le armi sequestrate nel corso del conflitto alle milizie tigrine. La misura è stata giustificata dal premier regionale, Agenhehu Teshager, con la necessità di contrastare la “minaccia esistenziale” rappresentata dal Tplf, accusato di aver ucciso civili, violentato donne, saccheggiato proprietà private e governative nelle aree passate sotto il suo controllo.
La misura è stata adottata sull’onda dell’appello a tutti i civili, lanciato la scorsa settimana dal primo ministro etiope Abiy Ahmed, affinché si uniscano alle forze armate per combattere i miliziani tigrini. «È tempo che ogni cittadino etiope idoneo si unisca alle Forze di difesa, alle forze speciali e alle milizie per mostrare il suo valore» ha dichiarato Ahmed, secondo cui l’obiettivo delle forze federali sarebbe «liberare gli abitanti del Tigrè, che sono usati dai terroristi», in riferimento al movimento ribelle dato per definitivamente sconfitto alla fine del novembre scorso e che nel maggio seguente è stato inserito dalle autorità centrali nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Ma il duello tra governo centrale e forze tigrine si sovrappone ai conflitti etnici e rischia di causare una generalizzazione del conflitto, che nelle scorse settimane ha già coinvolto anche Gibuti, piccolo paese confinante (e strategico, in quanto garantisce all’Etiopia lo sbocco al mare) causando almeno tre vittime negli scontri tra gruppi di etnia somala ed issa.
Nei giorni scorsi le forze dell’Esercito di Liberazione Oromo (Ola) hanno annunciato il varo di un’alleanza militare con il Tplf dopo che un accordo simile era già stato raggiunto tra i tigrini e alcune milizie ribelli Araf. «L’unica soluzione ora è rovesciare questo governo militarmente, parlando la lingua con cui vogliono che si parli», ha affermato il leader dell’Ola, Kumsa Diriba. Il rischio è che i combattimenti si estendano anche nella regione dei Somali e in quella del Benishangul-Gumuz, alimentati da tensioni etniche che il messaggio nazionalista pan-etiopico che caratterizza la retorica del premio Nobel per la Pace Ahmed non è affatto riuscito a sopire.
La chiamata alle armi del premier, che rischia di gettare ulteriore benzina sul fuoco dello scontro interetnico, ha seguito di poche ore la scoperta di nuove atrocità. Circa 200 persone, di cui la metà bambini, sono state uccise il 5 agosto durante un attacco condotto contro una scuola ed una struttura sanitaria nello Stato di Afar. I combattenti tigrini, indicati da Addis Abeba come gli autori dell’eccidio, hanno condannato il massacro respingendo ogni responsabilità e anzi hanno accusato le forze militari eritree alleate di Ahmed.
Lo stesso scambio di accuse si è ripetuto dopo il ritrovamento di oltre 50 cadaveri con le mani legate e ferite di arma da fuoco, galleggianti sul fiume Tezeke in territorio sudanese in un punto situato al triplo confine tra Sudan, Etiopia ed Eritrea. Secondo un funzionario governativo, inoltre, circa 70 mila persone sono state costrette a fuggire dalle loro case in questo territorio a causa dei violenti scontri tra le Forze di Difesa Nazionali Etiopi (Endf) e le Forze di Difesa del Tigré (Tdf). Per lo stesso motivo, anche nella regione di Amhara, altre 200 mila persone sono state costrette a sfollare.
Secondo il Sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi di emergenza, Martin Griffiths, nel Tigrè almeno 400mila persone affrontano una grave carestia ed oltre il 90% degli abitanti ha bisogno di aiuti alimentari. Secondo l’Unicef, invece, oltre 100mila bambini potrebbero essere in pericolo di vita e malnutrizione nei prossimi 12 mesi nella regione.
L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha fatto sapere di essere finalmente riuscito a rientrare nei campi profughi del Tigrè – inaccessibili dal 13 luglio – che ospitano i rifugiati eritrei presi di mira dalle truppe di Asmara. Ma desta preoccupazione la sorte di decine di migliaia di profughi eritrei intrappolati nei due campi di May Ayni e Adi Harush dove l’Unhcr ha denunciato intimidazioni e violenze nei loro confronti da parte dei militari alleati dell’esercito federale etiope, dopo la distruzione dei due campi di Shemelba e Hitsats dove erano precedentemente ospitati prima che una parte fossero rimpatriati a forza nel paese d’origine.
L’organizzazione internazionale Human Rights Watch ha intanto accusato le autorità etiopi di aver arbitrariamente arrestato, fatto sparire e commesso vari abusi nei confronti di cittadini di etnia tigrina nella capitale Addis Abeba. «Il governo dovrebbe interrompere immediatamente la sua profilazione etnica, che ha gettato sospetti ingiustificati sui tigrini, produrre informazioni su tutti coloro che sono detenuti e fornire riparazioni alle vittime», ha affermato Laetitia Bader, direttrice per il Corno d’Africa di Hrw.
In un rapporto l’ong riporta numerose testimonianze secondo le quali le forze di sicurezza hanno fermato e arrestato i tigrini per le strade, nei caffè e in altri luoghi pubblici, nelle loro case e nei luoghi di lavoro, spesso durante perquisizioni senza mandato. Tra gli arrestati figurano almeno una decina di giornalisti e operatori dei media.
Inoltre, prosegue il rapporto, molti dei detenuti sono stati trasferiti segretamente in luoghi non identificati e avvocati e famiglie hanno scoperto – spesso settimane dopo e senza comunicazioni di tipo ufficiale – che alcuni di essi sono detenuti nella regione di Afar, a oltre 200 km da Addis Abeba.
Nonostante la catastrofe umanitaria, però, il governo federale etiope ha sospeso alcune attività di due organizzazioni umanitarie internazionali che lavorano nel Tigrè – Medici senza frontiere (Msf) e il Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) – accusandole di contribuire a diffondere informazioni false sul conflitto in corso e di assumere personale straniero senza regolare autorizzazione. Il governo federale ha più volte puntato il dito contro gli operatori umanitari attivi nel Tigrè sostenendo che stiano supportando le milizie tigrine con il pretesto di condurre attività di assistenza alla popolazione.
Recentemente è stato lo stesso premier Ahmed a invitare i propri concittadini a restare uniti di fronte alla propaganda del Fronte Popolare di Liberazione del Tigré, a suo dire alimentata dalla diplomazia, dai media occidentali e da alcuni agenzie umanitarie internazionali, equiparando la condizione attuale dell’Etiopia a quella di paesi come il Vietnam, la Siria, la Jugoslavia, la Somalia e la Libia, oggetto di piani di criminalizzazione e destabilizzazione internazionali.
«I nemici dell’Etiopia hanno fatto la guerra su due fronti: quello bellico e quello diplomatico. Quindi, tutti voi che siete preoccupati per la sopravvivenza dell’Etiopia dovete unirvi per affrontare i due fronti astenendosi dall’analisi della cospirazione e dalla paura non necessaria», ha affermato il primo ministro, esortando i cittadini a “resistere” e a “contrastare le notizie” che danneggiano il Paese sui social e sui media internazionali.
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