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23/08/2021

[Contributo al dibattito] - A che punto è la notte? Appunti per un compendio dell’emergenza pandemica in Italia (agosto 2021)

di Roberto Salerno *

Dopo diciassette mesi in cui si sono rincorsi provvedimenti surreali e terrori a singhiozzo è diventato complicato capire di cosa si stia discutendo quando ci si imbarca in dibattiti e considerazioni sulla pandemia provocata dal SARS-CoV-2. Del resto, in questo periodo non esiste un solo aspetto della nostra vita che non sia stato messo sotto stress dalla pandemia, e dipanare il groviglio sempre più spesso appare impresa improba.

Quello che segue è un tentativo – sintetico ma ci si augura non superficiale – di rendere più chiari gli argomenti di discussione, che ovviamente restano inesorabilmente intrecciati. L’elenco non vuole essere esaustivo ma piuttosto offrire un punto di partenza dal quale provare ad affrontare i vari temi inerenti alla pandemia. Laddove possibile si sono richiamate le evidenze a favore delle affermazioni, ma naturalmente l’elenco sconta il punto di vista altamente critico nei confronti degli interventi messi in atto dalle classi dirigenti.

1. Il virus

Il motivo per cui il virus ha fatto – e rischia di continuare a fare – tanti danni non è nella sua pericolosità intrinseca ma va ricercato nella risposta dei sistemi politici e sanitari. Se prescindesse da questi ultimi, il rapporto tra il numero dei morti e il numero dei contagiati sarebbe simile in qualsiasi contesto e per qualsiasi classe d’età, cosa che sappiamo essere lontana dal vero.

Secondo l’ultimo rapporto dell’ISS, datato 21 luglio, dei 127.044 morti attribuiti al COVID solo l’1,2% aveva meno di 50 anni. Dei 355 deceduti sotto i 40 anni – 0,3% del totale – solo 44 non avevano patologie di rilievo. Senza patologie pregresse e sotto ai 40 anni, insomma, nemmeno in Italia si muore di COVID.

Anche dal punto di vista dei contesti territoriali le differenze sono ampie. In Italia il tasso di letalità, al 19 agosto, è del 2,9%; in Inghilterra è il 2%; negli USA e in Francia l’1,7; in Svezia l’1,3. (Elaborazione su dati Worldmeters).

Vale la pena sottolineare che l’analisi su scala nazionale non è rivelatrice, perché all’interno degli stati le differenze sono ampie. In Italia si va dal 4% della Lombardia all’1,8% della Campania. Negli USA dal 2,5% del New Jersey all’1,4% del Montana. Questa variabilità del dato è presente ovunque.

2. La profilassi

Mantenimento della distanza e frequente lavaggio delle mani, unito con l’uso di mascherine al chiuso. Può essere utile ricordare che le evidenze scientifiche sui singoli punti non sono definitive perché il metodo principe, lo studio randomizzato, è impossibile da realizzare, ma che seppure non definitiva, esiste una robusta letteratura che evidenzia i vantaggi delle mascherine al chiuso.

Sul «distanziamento sociale»** le evidenze sono più incerte. Gli studi sono concentrati sui provvedimenti che lo favoriscono – isolamento domiciliare, quarantena, divieto di assembramenti, chiusura di scuole e luoghi di lavoro – e osservano che in genere questi provvedimenti si presentano in contemporanea.

3. Contagiati, malati e morti

È difficile pensare che la confusione tra queste tre categorie sia casuale. Nella fase del governo Conte bis il numero dei contagi era determinante per stabilire cosa si potesse fare in determinati territori e il colore delle zone era strettamente correlato all’andamento dei contagi. Il “cambio di passo” del governo Draghi è consistito nel variare i parametri che consentivano alle regioni di modificare il proprio colore, introducendo surrettiziamente la categoria “malati”, pur senza esplicitarla. Infatti i cambi di colore adesso vengono decisi dal numero dei posti occupati in ospedale e da quelli occupati in terapia intensiva.

L’utilizzo strumentale ora di una ora dell’altra categoria è stata la strategia principale dell’informazione mainstream, giornali e televisione. Nel presentare al pubblico l’andamento dell’epidemia si è spinto – e si continua a spingere – ora sull’una ora sull’altra categoria con la secca preferenza per la lettura peggiore: «diminuiscono i contagi MA più X% in terapia intensiva»; «pochi morti MA contagi ancora vicini all’X% per milione».

Anche la comunicazione dei dati in valore assoluto o in percentuale ha sostanzialmente avuto la stessa finalità. L’aumento di poche unità di malati in terapia intensiva viene espresso in termini percentuali – il passaggio da 15 a 18 diventa «aumento del 20% di ricoverati in terapia intensiva» – la diminuzione viene comunicata guardando i valori assoluti – «è vero che i ricoverati in terapia intensiva sono diminuiti ma di appena 3 unità, passando da 18 a 15».

4. La policy

Non è affatto vero che l’unico modo per affrontare un’epidemia sia sperare nei vaccini. Nessuna epidemia della storia è stata risolta da un vaccino, che per sua natura – tempi di realizzazione, osservazione degli effetti di lungo periodo – deve attraversare diverse fasi prima di poter essere in condizioni di debellare una specifica patologia.

Per diminuire i contagi – e per bloccare l’epidemia – servono interventi in grado di mettere nelle condizioni migliori chi lavora ma anche chi viaggia e chi fa la spesa, e naturalmente chi pensa di andare al cinema o a teatro o ad un concerto.

Il primo punto di sofferenza è stato abbastanza presto individuato nel non avere un posto dove permettere ai positivi asintomatici o paucisintomatici di passare la loro quarantena senza rimanere in casa, dove potevano trasmettere il virus ai familiari, o andare in ospedale con il rischio di ingolfarli. Erano (sono) necessarie nuove strutture e il riadattamento di immobili inutilizzati con caratteristiche adeguate. Il tutto accompagnato da un piano di assistenza per gente che appunto non poteva andare a fare la spesa o smaltire i propri rifiuti senza rischiare di contagiare altri.

Gli ospedali e i reparti di terapia intensiva, sempre in sofferenza negli anni precedenti, sono collassati sotto la spinta del Covid. Di nuovo erano necessarie nuove strutture con conseguente aumento di posti letto e di reparti Covid. Si è spesso obiettato che l’andamento esponenziale dell’epidemia rendesse inutile l’ampliamento di queste strutture perché si tratterebbe solo di spostare più in là il momento del collasso. L’obiezione è assurda, perché non siamo in presenza di un problema teorico ma di uno pratico, persino l’andamento della curva epidemica poteva essere previsto con buona approssimazione e già il semplice aumento del 50% di posti letto e terapie intensive avrebbe migliorato il disastroso bilancio italiano.

Ma naturalmente gli interventi non si limitano al solo aspetto sanitario. Per evitare gli affollamenti sarebbe stato necessario un potenziamento dei sistemi di trasporto – metropolitana, autobus, treni – in grado di far mantenere la distanza ai passeggeri. Nei luoghi di lavoro si sarebbero dovuti tutelare i più fragili consentendo loro di interrompere il lavoro senza che questo significasse perdita del reddito. In ultima istanza chiudere completamente i luoghi in cui non era possibile stare distanziati.

In ogni caso la chiusura non può essere giustificata con la rappresentazione di una società «irresponsabile» che «non rispetta le regole» e quindi va chiusa in casa.

5. La scuola

Allo stato non esiste un solo studio di una qualche rilevanza che abbia dimostrato la particolare pericolosità della scuola. Le chiusure sono state decise in base a principii di precauzione e convinzioni “ragionevoli” ma che non hanno mai avuto il supporto di uno studio capace di mostrare che a scuola ci si infetterebbe più che altrove. Viceversa gli studi che hanno provato a mostrare la sostanziale bassa pericolosità della scuola sono stati criticati in quanto i dati a disposizione dei ricercatori non erano attendibili.

Può essere vero naturalmente, ma quello che colpisce è l’inversione dell’onere della prova. In linea di principio non si dovrebbe dimostrare che qualcosa non è pericoloso, ma appunto il contrario. Per chiudere la scuola servirebbe mostrarne la pericolosità. Ad ogni modo gli studi a nostra disposizione mostrano una certa concordanza nel ritenere le scuola non particolarmente a rischio per i ragazzi. Il che, ripetiamolo ancora, non significa che sia un luogo sicuro, ovviamente. Ma i dati sulla pericolosità del virus sulle fasce d’età sotto i 20 anni dovrebbero rasserenare un minimo. Anche sulla trasmissione del virus da parte dei ragazzi ci sono forti dubbi. Tutto questo porta a concludere che i ragazzi dovrebbero andare a scuola e si dovrebbe limitare la DAD a casi particolari (insorgere di focolai) le cui conseguenze catastrofiche sono state varie volte sottolineate.

Rimane però sconcertante che 17 mesi dopo ci siano ancora aule con più di 15 studenti per classe. Nemmeno una pandemia di queste proporzioni è bastata per attuare un piano “emergenziale” di edilizia scolastica, in grado di aumentare il numero degli edifici e delle aule disponibili. Come nel caso degli ospedali, recuperando immobili non utilizzati – sia di proprietà pubblica che privata – e costruendo nuovi edifici. Come nel caso di altri posti di lavoro anche nelle scuole si sarebbe dovuto prevedere un piano di pensione/sospensione con stipendio per soggetti fragili (anziani e fragili fino ai 50 anni).

6. Un massiccio piano di assunzioni pubbliche

Tutti gli interventi sensati – su ospedali, scuola, trasporti, altri luoghi di lavoro – prevederebbero naturalmente la formazione e l’assunzione di svariate migliaia di persone, a carico della fiscalità generale. In tempi di emergenza è impossibile appellarsi ad argomenti ordinari – primo fra tutti l’aumento dell’inflazione, mentre merita proprio poca considerazione l’argomento «tenuta dei conti pubblici» in un contesto del genere – e una classe dirigente davvero interessata a contrastare una «emergenza» si sarebbe mossa in questo senso. Invece il “policy style” ha subito piccole variazioni, e solo nel senso di proseguire nel rafforzamento del potere esecutivo rispetto a quello legislativo a tutti i livelli di governo, tendenza anche questa già in atto dai primi anni ’90 ma che ha trovato un ulteriore aiuto nel SARS-CoV-2.

7. I vaccini

Sono naturalmente di grande utilità ma non risolutivi. Come già accennato nessuna epidemia è stata mai stroncata con i vaccini, i dieci vaccini obbligatori vigenti in Italia sono dedicati a debellare e impedire l’insorgere di malattie, ma non ad arginare epidemie in atto. È fra l’altro abbastanza dibattuto tra gli specialisti se le varianti siano aiutate dal vaccino, che contrastando il SARS-CoV-2 lo spingerebbe appunto a mutare.

Ma a parte queste considerazioni, la capacità produttiva dei vaccini è largamente insufficiente, e allo stato è impossibile vaccinare tutti. Nel contesto internazionale, perché la competizione tra i paesi ha prodotto allocazione diseguale di vaccini; in quello nazionale, per via dei dubbi che li accompagnano e per l’oggettiva impossibilità di vaccinarsi di intere categorie.

Questo a prescindere dei dubbi sulla validità intrinseca dei singoli vaccini e sulla loro pericolosità in periodi più o meno lunghi. Le evidenze ad agosto 2021 ci dicono che sono molto efficaci per la protezione personale (meno pericoli di sviluppare la malattia, drastico abbassamento del pericolo di morte), un po’ meno per quella collettiva, in quanto riducono la possibilità di contagio ma sono lontani dall’eliminarla.

Fra l’altro il particolare tipo di malattia rende il vaccino una scelta razionale solo per le categorie più a rischio, anziani e persone con gravi patologie. Perché se è vero che anche per quanto riguarda le altre classi di età è possibile osservare una protezione più ampia, il dato andrebbe confrontato con le reali probabilità di contagiarsi e di sviluppare la malattia nelle forme più gravi delle singole classi di età. Se per gli ultrasessantenni il saldo tra il rischio di contagiarsi e ammalarsi e l’eventuale effetto collaterale del vaccino è ampiamente favorevole, per il vaccino per le fasce d’età inferiori – e sane – è già più in dubbio. E sotto i 12 anni è altamente verosimile che non lo sia, in questo senso non è chiarissima l’evidenza a cui fanno riferimento le organizzazioni che la consigliano.

Sull’obbligatorietà. Questi vaccini non sono resi obbligatori sia per questioni riguardanti la reale efficacia, che è nel campo delle «ampie probabilità» più che delle certezze, sia per le ragioni individuate da Wolf Bukowski: il “policy style” governativo e la necessità di crearsi una riserva di nemici pubblici.

8. Il «green Pass»

Dal punto di vista sanitario il lasciapassare è del tutto ininfluente, come sarebbe dimostrato dall’incoerenza intrinseca: è necessario per accedere alle mostre e non lo è per accedere alle messe; è necessario per le mense ma non per lavorare; se prendo un caffè al bancone non mi serve, ma se mi siedo un metro più in là devo mostrarlo, però se rimango in piedi accanto alla sedia no; se sono vaccinato posso accedere ovunque e magari sono positivo ecc.

A parte queste incongruenze le modalità per ottenere il pass sono irragionevoli: i vaccinati possono averlo ma hanno maggiori probabilità di contagio di uno che non è vaccinato ma che ha appena avuto e smaltito il Covid. E il tampone a pagamento consente diverse strategie a seconda della disponibilità economica.

Ancora: il provvedimento è un ulteriore strumento di colpevolizzazione dei cittadini, ai quali viene delegata la responsabilità di affrontare per intero l’epidemia. Inoltre aumenta la discrezionalità delle forze repressive, allenta i legami di solidarietà tra i cittadini e rafforza una tendenza poliziesca potenzialmente devastante, come dimostra l’ulteriore imbarbarimento delle discussioni non solo sui social.

9. Le manifestazioni di piazza

La lettura delle piazze come egemonizzate dalla destra e piene di complottisti è funzionale alla difesa delle posizioni governative.

Le piazze sono affollate di persone che hanno dubbi legittimi sul green pass, sull’efficacia dei vaccini e comunque sulle modalità di contrasto della pandemia. Dove le manifestazioni tendono ad essere coperte dalla destra fascista, questa emerge solo per il ritiro delle organizzazioni di sinistra e delle realtà di movimento (più indefinite). Ma basta semplicemente frequentarle e non farsele raccontare dai giornali mainstream – o, quasi peggio, scoprirle sui social – per scoprire che i simpatizzanti di Lega e Fratelli d’Italia presenti in queste piazze sono una frangia che già definire minoritaria è generoso.

Ciò non significa che siano frequentate da rivoluzionari, e la composizione sociale è decisamente interclassista, ma la demonizzazione delle piazze è la stessa demonizzazione dei runner, e in generale di chi ha provato ad aggirare l’assurdo «lockdown» all’italiana della prima lontanissima fase della pandemia. Il problema delle piazze rimane sempre lo stesso: se le lasci vuote qualcuno le riempie.

10. Funzionalità dell’emergenza e «tradimento dei chierici»

La pandemia è stata utile ad accelerare i processi di ristrutturazione capitalista, oltre che un ulteriore spostamento di ricchezza verso le società high tech e farmaceutiche, che ha come primo terreno di scontro pezzi diversi di capitalismo. I colossi del Big Tech – Google, Microsoft, Apple, Amazon, Facebook – sono la punta di un iceberg che coinvolge la possibilità di penetrare con tracciamenti, diagnosi, analisi, chirurgia, l’intero settore sanitario.

Naturalmente altro terreno di penetrazione è il sistema formativo, dalla scuola all’Università, con le lezioni che verranno ripensate per essere trasferite sul supporto informatico, con moduli e piattaforme specifiche. Lo smart working non è certo arrivato per favorire i lavoratori.

I dispositivi di controllo/colpevolizzazione accentuati in questi 17 mesi consentono alle classi dominanti di allargare/ampliare la possibilità di punire comportamenti non in linea/potenzialmente dannosi di interi gruppi sociali/politici. In questo senso la pandemia ha aiutato l’accelerazione di tendenze già in atto da tempo, come le varie schedature e la discrezionalità dei bracci repressivi degli stati. La pandemia non è il punto zero di questa azione/strategia ma ha costituito/costituisce un’opportunità da non perdere.

Un effetto non previsto è stato l’appoggio a questa strategia di gruppi/intellettuali molto critici con altre forme di dispiegamento del potere ma presto ridottisi a fiancheggiatori, sulla scorta della paura della morte quando non del semplice contagio.

Principii che sembravano acquisiti da una sinistra molto più ampia di quella che trova rappresentanza in parlamento sono stati rimessi pesantemente in discussione, dalla “semplice” privacy alla ben più significativa disponibilità del corpo. Tutte le discussioni di questi anni a proposito dell’aborto, dell’identità di genere, della possibilità di decidere sul fine vita, travolte con un’argomentazione orribile: la maggioranza ha deciso cosa fare del tuo corpo ed essendo nel giusto o ti adegui o ti rendo la vita un inferno. Come espresso da Wu Ming 4,
«Decenni di discorso politico sulla libertà di scelta mandati in fumo così, appiccicandoci sopra un’etichetta e tirandoci sopra una riga […] E che dire della libertà di movimento per cui ricordiamo tutti manifestazioni, smontaggi di CPT, proteste alle frontiere al grido di “Nessun essere umano è illegale”, “Siamo tutti sans papier”, ecc, criticando Schengen e i destini umani appesi al possesso di un documento? Adesso è roba da intellettuali francesi, perché loro sono un po’ così, un po’ eccentrici.»
11. La questione della Scienza

La pandemia e le strategie di contrasto investono ambiti scientifici diversi e la riduzione ad unicum di questi ambiti è stata funzionale ad un racconto del potere, che ha saputo adattarla alle proprie esigenze. Le evidenze possono concordare in alcune questioni “semplici”, come la capacità dei vaccini di ridurre la malattia, ma divergere in questioni complesse spesso più affini alle scienze sociali, come la capacità del provvedimento X di intervenire sul fenomeno Y. Ma anche all’interno delle stessa scienza medica si è fatto abuso del termine «evidenza», omettendo a piacimento – o, il che è lo stesso, dandone una versione sempre diversa – il grado di probabilità di efficacia di un farmaco o di un decorso clinico.

Solo per rimanere al caso più recente, uno studio uscito sul New England Journal of Medicine, tra le riviste del settore più prestigiose al mondo, nelle sue conclusioni sembra perentorio sull’inefficacia delle terapia basate sul plasma: «The administration of Covid-19 convalescent plasma to high-risk outpatients within 1 week after the onset of symptoms of Covid-19 did not prevent disease progression». La precisazione «within 1 week after onset of symptoms» si perde nel resoconto al grande pubblico, al quale non arriveranno mai i dubbi esplicitati nello stesso articolo: «the lack of efficacy of convalescent plasma in our trial could have resulted from insufficient doses of plasma or titers of neutralizing antibodies, the timing of administration, the selection of patients, or the presence of potentially harmful components in the convalescent plasma that was administered». Men che meno sapranno che lo studio fa addirittura una certa apertura alla terapia: «Convalescent plasma may still play a role if it is administered before the development of native antibodies. The treatment may also be efficacious in preventing symptomatic Covid-19 after exposure».

Attorno al termine «scienza», spesso accompagnato dall’aggettivo «ufficiale», si svolge una lotta per escludere non solo interi gruppi di studiosi e ricercatori che non fanno parte di organizzazioni accreditate, ma anche semplici «non allineati» che pure lavorano all’interno di università e centri di ricerca.

Probabilmente, dal punto di vista culturale almeno, l’eredità peggiore che questa vicenda sta lasciando è in due aspetti contraddittori:

– da un parte l’idea che la scienza sia qualcosa in cui credere, che vive prescindendo dagli scienziati e dai loro sistemi di valore e che sia unica e infallibile;

– dall’altro, avendo trasmesso messaggi contraddittori, l’idea che tutto quanto possa essere scienza, dal dubbio infondato alla più inverosimile fantasia di complotto.

In entrambi i casi il discorso scientifico è stato condotto con un dilettantismo che va oltre le semplici semplificazioni divulgatorie, gestito da esperti di rami specifici – in massima misura virologi ed epidemiologi certamente, ma anche statistici o esperti di comunicazione – del tutto a digiuno di questioni epistemologiche.

12. Il rapporto tra politica e scienza

Il risultato è stato un’apertura a interessi politici e economici della portata più ampia. Nascosti dietro il paravento della «scienza» è stato possibile prendere decisioni prive di legami con la pandemia, dal «lockdown» all’italiana, con l’assurdo elenco di codici Ateco necessari per chiudere o aprire, fino al Green Pass, il cui legame con un qualche contenimento della pandemia è lasciato all’immaginazione dei destinatari.

Se per «dittatura sanitaria» si intende il predominio di medici, soprattutto infettivologi, nella formulazione delle decisioni o il sacrificio a esigenze sanitarie di tutti i provvedimenti di un governo, ebbene si può tranquillamente affermare che raramente le decisioni dei governi occidentali in genere, e italiani in particolare, sono state di questo tipo.

I gruppi dirigenti si sono scontrati sui provvedimenti provando a sfruttare, per far prevalere una decisione o un’altra, anche i dati sanitari. La cooptazione di medici e ricercatori in comitati come il Cts è stata funzionale a giustificare/rafforzare provvedimenti che hanno obiettivi differenti. La capacità di presentare le decisioni come «scientifiche» ha permesso di depotenziare le possibili contestazioni alle modalità di gestione delle attività di governo degli ultimi 17 mesi.

13. Che fare?

Naturalmente è possibile che lo stato di avanzamento scientifico e tecnologico possa far sì che per la prima volta nella storia un’epidemia venga sconfitta dai vaccini, ad ogni modo esistono altri modi per uscirne, soprattutto da una di questo tipo che per fortuna non sembra attaccare quasi mai gli organismi forti, raramente è devastante sotto i 50 anni (forse anche sotto i 60) e per fortuna sta raggiungendo tassi di letalità largamente controllabili, se è vero che negli ultimi due mesi si è viaggiato alla media dello 0,5%.

Ciò non toglie che la richiesta di vaccini vada certamente appoggiata, seppure con qualche distinguo, perché è indecente che una risorsa scarsa sia assegnata per prima a persone che non corrono particolari rischi solo per il fatto di vivere in paesi ricchi. Così come all’interno dello stesso paese le priorità andrebbero del tutto riviste, lasciando davvero per ultime – e magari con dati più solidi – le generazioni più giovani.

Se poi quello descritto nei punti 4, 5 e 6 sembra un programma troppo vasto, le forze di sinistra più che prendersela con i dubbiosi dovrebbero attaccare il governo e le classi dominanti per richiedere almeno (almeno) il potenziamento del sistema sanitario, a cominciare dalla famosa medicina territoriale.

Forse sarebbe più produttivo che insultare chi pensa di poter disporre del proprio corpo e che mai si sarebbe aspettato di doverlo cedere perché una canea urlante pensa che sia giusto così.

Note


* Roberto Salerno è dottore di ricerca in Scienze Politiche e relazioni internazionali. Si è occupato di analisi dei processi decisionali e collabora con Giap, Palermograd e con la rivista di storia delle idee inTrasformazione.
** Per una critica di questo pseudoconcetto, esito di una frettolosa (o forse capziosa) traduzione dall’inglese, si veda il punto 6 del nostro glossario del giugno 2020 [N.d.WM].
Fonte

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