di Domenico Moro
Unicredit ha recentemente manifestato l’intenzione di acquisire il Monte dei Paschi di Siena (MPS) dallo Stato, che ne detiene la quota di maggioranza. L’acquisizione-privatizzazione dovrebbe essere finalizzata a settembre, se tutto andrà secondo i desiderata di Unicredit. Si tratta di una notizia importante per molte ragioni, se non altro perché riguarda l’assetto complessivo del sistema bancario. L’operazione è di grande rilievo, dal momento che coinvolge Unicredit e MPS, rispettivamente la seconda banca e la quarta banca italiane. Da tempo, infatti, si è manifestata da parte dei centri economici dominanti in Italia e della Banca d’Italia l’intenzione di procedere ad una nuova tornata di centralizzazioni nel settore bancario attraverso l’incentivo statale nei confronti di fusioni e acquisizioni. La nomina di Draghi a Presidente del Consiglio ha, fra le sue motivazioni, oltre a quelle relative alla conferma dell’adesione italiana alla Ue e alla Nato, anche quella di portare a compimento tale processo di centralizzazione. Il segnale che è stato dato è eloquente: da parte del governo c’è la volontà di accelerare un processo di aggregazione che è fondamentale per la ripresa dell’accumulazione capitalistica, dal momento che il sistema bancario è uno dei principali centri di potere in Italia e svolge un ruolo fondamentale nel finanziamento delle imprese e dei processi di fusione e acquisizione che si svolgeranno a seguito della riorganizzazione generale del sistema economico italiano a fronte della crisi del Covid-19 e del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Il generale “Reset” teso a restituire maggiore competitività e produttività all’economia italiana e a superare la sovraccumulazione di capitale e la caduta tendenziale del saggio di profitto, in cui da tempo si dibatte il sistema produttivo italiano, non poteva non coinvolgere il sistema bancario. Gli stessi processi di digitalizzazione e innovazione e di sviluppo di nuovi settori e produzioni “verdi”, contemplati nelle prime due e maggiormente finanziate “missioni” del PNRR, presuppongono per la loro implementazione il ruolo centrale delle banche.
La risistemazione degli assetti proprietari coinvolge tutto il sistema bancario. Unicredit, dopo l’acquisizione di MPS, potrebbe rivolgersi ad altri obiettivi: BancoBpm, se vorrà puntare sul ruolo di banca retail (rivolta ad una clientela vasta ed eterogenea), o Mediobanca, se vorrà privilegiare il ruolo di banca d’investimento (rivolta alle imprese). L’acquisizione di Mediobanca avrebbe un valore tutto particolare, perché questa banca ha rappresentato per decenni il “salotto” buono del capitalismo privato italiano, al centro di importanti operazioni di fusione e acquisizione. Anche se Mediobanca non è più quella di un tempo, ricopre pur sempre un ruolo notevole. L’acquisizione di MPS da parte di Unicredit, non lascerebbe indifferente la prima banca italiana, Intesa Sanpaolo, che potrebbe rivolgersi verso nuove acquisizioni anche fuori dall’Italia. Inoltre, dovrebbe essere rispolverata l’idea di costruire un terzo polo bancario italiano, dopo quelli attorno a Intesa e a Unicredit, che potrebbe ruotare attorno a Bper, che prossimamente dovrebbe acquisire la banca popolare di Sondrio. C’è anche l’idea di un polo del Sud attorno a Mediocredito centrale, che, dopo aver rilevato lo scorso anno la Banca popolare di Bari, potrebbe inglobare le filiali nel Mezzogiorno di MPS a cui Unicredit non è interessata.
L’acquisizione di MPS da parte di Unicredit si presenta come un classico spezzatino. Infatti, Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit, è stato chiaro: la sua banca non è interessata a tutte le attività di MPS ma solo alle parti che si adattano meglio e sono complementari. Sicuramente non rientrerebbero nell’acquisizione i contenziosi e i crediti problematici, di cui MPS è piena. Non a caso MPS è stata l’unica delle quattro banche italiane che, inserite nel campione delle principali 50 banche europee, non ha superato lo stress test della Bce, che si poneva il compito di verificare le capacità di resistenza delle singole banche in caso di crisi acuta. Quello che rimarrebbe fuori dalla acquisizione sarebbe pari a 6,2 miliardi di contenzioso legale, 2-2,5 miliardi di crediti deteriorati (inesigibili) e 1,5 miliardi di crediti ad alto rischio, cioè che si apprestano a diventare deteriorati. Tutte le attività rifiutate da Unicredit andrebbero in una “bad company” che rimarrebbe in capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), cioè al privato andranno le parti profittevoli, mentre allo Stato rimangono le parti in perdita. Privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Ma non basta. Come abbiamo accennato sopra, resterebbero esclusi dalla acquisizione circa 150 sportelli bancari soprattutto nelle regioni del Sud (in maggioranza in Sicilia e Puglia). Inoltre, ed è uno degli aspetti più importanti della privatizzazione, la profonda ristrutturazione delle attività di MPS porterà a prepensionamenti e pensionamenti di circa 5-7 mila addetti, che rappresentano un quarto dell’organico della banca. Gli esuberi verranno finanziati attraverso il fondo esuberi e saranno anche questi a carico del pubblico per una cifra che dovrebbe aggirarsi intorno a 1-1,2 miliardi.
Lo Stato è entrato in MPS dopo una lunga agonia della banca, che è cominciata nel 2008 con l’acquisizione di Antonveneta per circa 10 miliardi, più 7 miliardi di indebitamento infragruppo con la banca spagnola Santander, la precedente proprietaria. Una cifra esagerata rispetto al reale valore di Antonveneta, anche alla luce di ispezioni della Banca d’Italia che ne mettevano in luce le debolezze. Da quell’acquisizione la banca senese, incappata nel 2008 anche nella crisi dei subprime e nel 2012 nella crisi dei debiti sovrani, non si è più ripresa, “bruciando” in tutto questo periodo ben 23,5 miliardi di euro. Negli ultimi dieci anni ci sono state ben quattro ricapitalizzazioni per un totale di 18,5 miliardi, in gran parte pagate dallo Stato. Nel 2017 lo Stato, viste le difficoltà della banca, ne ha rilevato il controllo, attraverso il MEF, erogando 5,4 miliardi, di cui 3,9 miliardi per assumere la quota del 64,2% di Mps che ai prezzi di Borsa valeva appena 700 milioni.
All’epoca a capo del MEF era Pier Carlo Padoan, che più tardi fu eletto in Parlamento nelle liste del Pd a Siena, e che ora siede come presidente nel consiglio d’amministrazione di Unicredit. Per Unicredit il guadagno è assicurato: la Borsa ha visto segnare un aumento del 2,8% delle azioni Unicredit il giorno dell’annunzio dell’avvio della acquisizione. Ad ogni modo, il MEF metterà in sicurezza l’architettura dell’intera operazione. Lo Stato devolverà a MPS oltre 2 miliardi in crediti d’imposta, a cui si aggiungono 2 miliardi di ricapitalizzazione (1,5 miliardi a carico del MEF), resisi necessari dopo lo stress test dei giorni scorsi, gli oneri per le uscite volontarie dei lavoratori, e infine le cause legali e i crediti inesigibili, che, come abbiamo detto, resteranno in capo al MEF. La somma degli oneri per lo Stato non si può ancora calcolare, ma dovrebbe oscillare tra i 5 e i 10 miliardi, che rappresentano un cospicuo regalo al futuro proprietario di quanto rimane di profittevole di MPS. In cambio è probabile che il MEF entrerà nell’azionariato di Unicredit con una quota del 4-5%, che è un pacchetto ininfluente sugli equilibri dell’azionariato e sulla governance dell’istituto di credito.
Il MPS è una realtà molto importante per Siena, il cui Pd locale è sempre stato legato alla banca. Oggi questo legame è più tenue, ma fino al 2012 il Pd, attraverso la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, controllava MPS. Padoan, eletto a Siena, ha dovuto abbandonare il suo seggio parlamentare quando è diventato presidente di Unicredit e a ottobre ci saranno le elezioni suppletive a cui per il Pd sarà candidato lo stesso segretario, Enrico Letta. L’acquisizione di MPS dovrà essere finalizzata a settembre e Letta rischia molto, per i contraccolpi che l’acquisizione avrà sulla città in termini di ruolo economico e di occupazione. Unicredit ha già detto di non essere interessata a mantenere la direzione della Banca a Siena perché sarebbe un inutile e costoso duplicato di funzioni. Quindi, le vicende di MPS potrebbero essere un rischio per l’elezione di Letta, anche perché Siena è già terreno di conquista del centro-destra che esprime il sindaco attuale.
Non bisogna dimenticare, infine, il ruolo che la Ue svolge nella vicenda di MPS. Nel 2014 MPS entra nel novero delle banche che sono sotto la vigilanza della Bce, cosa che implica la partecipazione agli stress test, che MPS non supera mai e che comportano le ricapitalizzazioni a catena che abbiamo visto. Inoltre, la privatizzazione di MPS è richiesta dalla Commissione europea che ha fissato come limite per l’uscita dello Stato dal capitale della banca il 31 dicembre di quest’anno. Obiettivo di Draghi è, quindi, chiudere l’operazione di vendita nel più breve tempo possibile, rispettando i dettami della Ue e superando le resistenze dei partiti. La filosofia dell’operazione è molto chiara. Le banche italiane, se vogliono essere competitive, devono ingrandirsi e internazionalizzarsi. Non a caso il recente stress test ha dimostrato che ad avere una maggiore resistenza e capacità di reazione sono le banche più internazionalizzate e grandi. Per andare all’estero, bisogna però, avere le dimensioni giuste e il processo di concentrazione in atto va in questa direzione. Lo Stato in questo processo ha un suo ruolo importante, tramite gli incentivi alle fusioni e, come nel caso del MPS, tramite l’accollamento delle perdite e degli oneri per i futuri disoccupati. Insomma, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.
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