Il caos in Afghanistan di oggi ha una data di inizio ben precisa: 29 febbraio 2020, giorno della firma degli accordi di Doha che definivano la pace tra i talebani e gli Stati Uniti di Donald Trump.
Lungi da noi esprimere empatia o quantomeno compassione per “Sleepy” Joe Biden, ma nella narrazione – o quantomeno in una delle narrazioni – che sta emergendo in questi giorni sulle responsabilità americane rispetto il caos esploso in Afghanistan, c’è una parte solo accennata e che invece dovrebbe essere centrale. Parliamo del ruolo degli accordi di Doha, stipulati il 29 febbraio del 2020 nella capitale del Qatar tra Mike Pompeo, segretario di Stato dell’amministrazione Trump, ed il mullah Abdul Ghani Baradar, considerato almeno allora il “numero due” dei Talebani. Qui in Europa si parlava solo di Covid–19, di li a pochi giorni l’Italia sarebbe entrata in lockdown, seguita con un mese o due di ritardo dalla quasi totalità del Vecchio Continente. L’importanza politica e sopratutto le conseguenze di quel trattato sfuggirono un po' dall’attenzione generale: e parlando di Afghanistan poi ci siamo ritrovati al momento in cui Biden annunciava il ritiro delle truppe, con tutti i vassalli NATO a fare la stessa cosa. Poi l’avanzata dei talebani e la scoperta che il governo afghano non aveva gli strumenti – e forse la volontà – per opporvisi.
Perchè? Alcune risposte arrivano proprio dagli accordi di Doha, che sostanzialmente sancivano la fine delle ostilità tra Stati Uniti i talebani. Un trattato bilaterale: sul tavolo di quella discussione non c’è mai stato posto per il governo afghano. Si trattò di una forzatura che impose Trump, che – come di sua abitudine – scelse la strada più sbrigativa per ottenere un risultato da gettare in pasto all'opinione pubblica e sopratutto al suo elettorato. D’altronde, questo più o meno il ragionamento dell’ex inquilino della Casa Bianca, le truppe Usa e le milizie talebane sono i due contendenti principali di quella lunghissima guerra: giusto che la trattativa sia tra loro. E il governo afghano? La risposta che viene spontaneo attribuirgli è qualcosa di simile ad un “Chi se ne frega!”. E potrebbe averlo detto davvero, conoscendo il tipo. In realtà con il governo afghano fu aperto un secondo tavolo di trattativa, che si risolse in rassicurazioni vaghe di sostegno generico.
Gli accordi di Doha contenevano un elemento fondamentale, che ha cambiato totalmente la storia della guerra in Afghanistan: Trump riconobbe politicamente i talebani, che divennero un interlocutore istituzionale con cui trattare. Noi ritiriamo le truppe, voi in cambio cessate le ostilità, rompete ogni rapporto con il jihadismo internazionale, cacciate e mai più accogliete Al Quaeda e combattete sul campo lo Stato Islamico. Questo il contenuto della trattativa, e poi dell’accordo. E non è un caso che la leadership talebana, nelle sue prime esternazioni “ufficiali” dopo la presa di Kabul, insista nel dichiarare che “il nostro territorio non verrà usato per minacciare nessun Paese”, e che “l’Emirato islamico dell’Afghanistan promette a tutti i paesi del mondo che l’Afghanistan non sarà una minaccia per nessun paese”. Affermazioni che colpiscono per la forma quasi infantile, “promettiamo che saremo buoni”: ma che sono perfettamente calzanti con l’idea semplicistica e rozza che Trump aveva dei rapporti internazionali. Per giocarsi la carta del ritiro delle truppe dall’Afghanistan in campagna elettorale l’ex presidente americano ha scelto di bruciare i tempi, e per farlo ha, nell’ordine: legittimato i talebani, delegittimato il governo afghano, infilato in un cul-de-sac l’amministrazione Biden (ai tempi ancora pensava di vincere, Trump, ma non si sa mai: sempre meglio avvelenare i pozzi).
A quel punto Ashraf Ghani si è trovato a dover gestire una accelerazione indesiderata: fu costretto ad impostare una ulteriore trattativa “inter afghana” con i talebani che a quel punto, forti della legittimazione statunitense e consapevoli del ritiro del loro avversario militare più temibile, si trovavano con carte decisamente migliori in mano. Le convulse elezioni americane, la pandemia tornata ad evidenziare le contraddizioni del mondo a capitalismo avanzato, il protagonismo della Cina, la Russia, il protocollo atomico dell’Iran hanno messo in secondo piano la questione afghana, che comunque ha perso di interesse strategico ormai da anni. E quindi Biden si è ritrovato con la scadenza imposta dagli accordi di Doha sempre più impellente, e con tre opzioni a disposizione: rispettare gli accordi stipulati da Trump, non rispettarli, posticiparne la scadenza in attesa di una composizione politica interna all’Afghanistan. E qui ha giocato l’abilità dei mullah talebani, che fregandosene abbastanza del “cessare le violenze” previsto negli accordi hanno proseguito ad assestare spallate alle truppe governative afghane, creando la situazione perfetta: scadenza degli accordi ormai prossimi, governo afghano delegittimato e debole, paese spaccato e sempre più controllato da loro. Anche perchè, cosa importante che dispiace ammettere alla politica e a parte della stampa occidentale, i talebani hanno il sostegno di almeno una parte della popolazione afghana, per la quale lo Stato sono loro.
A fronte di questa situazione, “Sleepy Joe” Biden ha preso tutto sommato la decisione più semplice: rispettare il trattato stipulato da Trump, e al grido di “non voglio far fare ai bravi giovani americani quello che (gli svogliati, ndr) afghani non fanno” ritirare le truppe, già peraltro abbondantemente ridotte rispetto agli anni precedenti; sapendo perfettamente che a ruota lo avrebbero seguito tutti gli altri contingenti internazionali. Questa la storia: e dunque gli attacchi di Trump e le argomentazioni di Biden sono solo la solita fuffa. La verità è che gli Usa non ne potevano più di Afghanistan, di Ghani, dei Talebani e sopratutto dei soldi che tutto questo costava. L’omicidio di Bin Laden nel 2011 ma sopratutto il radicale cambiamento degli scenari geopolitici globali hanno spostato l’Afghanistan nel cassetto delle cose inutili. E, come è loro abitudine, gli americani quando una cosa non serve la gettano da una parte, fregandosene delle conseguenze. È successo in Iraq (ed è arrivato lo Stato Islamico), in Libia (che non esiste più come stato), in Siria e ora avverrà anche in Afghanistan: fino a quando, ovviamente, non servirà di nuovo a qualcosa. Ed allora giù bombe e roboanti discorsi sulla necessità di regalare democrazia a chi non ce l’ha.
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