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12/08/2021

L’Afghanistan è perso

A fine agosto verrà completato il ritiro delle truppe USA dal Paese Asiatico, che era previsto simbolicamente per l’11 settembre mentre la precedente amministrazione statunitense l’aveva previsto per il 1 maggio. Una dipartita che, viste le modalità, sembra più una fuga che altro.

L’accordo raggiunto a Doha in Qatar circa un anno e mezzo fa da Trump con i talebani, infatti, prevedeva quella data e aveva tra l’altro escluso da qualsiasi ruolo negoziale sostanziale l’attuale “legittimo” governo che da maggio – cioè da quando è iniziato il ritiro statunitense – ha perso la maggior parte del territorio del Paese.

Le sue forze armate, equipaggiate ed addestrate dagli USA in particolare (¾ è l’ordine di grandezza) e teoricamente più dotate dei Talebani in uomini e mezzi, sono state incapaci di contenere la loro avanzata, e come ha mostrato il New York Times, le forze d’élite non hanno la possibilità materiale di intervenire in tutti i contesti dove dovrebbero essere presenti.

Gli “ex” mujaheddin controllano ormai i punti strategici ai confini di quasi tutto il perimetro del Paese, una parte cospicua del “retroterra” e stanno conquistando quasi ogni giorno una città capitale di provincia (9 città in cinque giorni), assediandone sempre in contemporanea più d’una.

L’ultima città caduta, Pul-e-Khumi, dista 140 km da Kabul, che in questo modo vede tagliati i propri collegamenti con il Nord e con l’Ovest. Non c’è alcuna controtendenza sul campo a questo processo di “accerchiamento delle città dalle campagne”, e forse Kabul sarà solo l’ultima a cadere quando – a fine agosto – il residuo personale militare statunitense che protegge l’ambasciata USA se ne andrà. È l’effetto domino di una offensiva di appena quattro mesi.

Gli USA hanno lasciato soli coloro che avevano contribuito a mettere su. Le parole di Biden – “ora dovete difendervi da soli” – sono state chiare, ma ancora di più lo è l’inerzia militare statunitense, limitatasi a incursioni con droni e aerei dalle loro basi in Qatar e EAU, non diversamente da quello che avevano già fatto coi talebani.

Questi, che anche nell’immaginario statunitense ed in generale occidentale venivano presentati un tempo come freedom fighters (qualcuno si ricorda “Rambo 3”?), erano stati sostenuti con l’appoggio di Pakistan ed Arabia Saudita anche dopo il ritiro sovietico, sabotando quel progetto di risoluzione politica del conflitto proposta dal lungimirante leader comunista Mohammed Najibullah, che voleva trasformare l’Afghanistan – con il crollo dell’URSS – in un Paese neutrale in pace con i propri vicini.

Questi “combattenti per la libertà”, in parte volontari islamici giunti da mezzo mondo, saranno poi utilizzati per destabilizzare altri Paesi dal Nord-Africa ai Balcani, dal “Medio-Oriente” al Caucaso. La prima a farne le spese è stata l’Algeria per tutti gli Anni Novanta, l’ultima la Siria.

Anche se i Telabani vinceranno, come sembra, le lancette dell’orologio non correranno indietro di vent’anni, quando il Paese Asiatico aveva rapporti diplomatici ufficiali solo con tre Stati: Pakistan, Arabia Saudita e EAU.

Certo il Pakistan avrà ancora un ruolo geo-politico rilevante, ma ora è un Paese nell’orbita politico-economica della Cina.

L’India che era forse il Paese più legato all’Afghanistan anche dopo la caduta dell’URSS, e che appoggiava l’ipotesi di road map proposta da Najibullah per scongiurare la guerra civile, ora è tra le principali pedine degli USA nel contenimento della Cina in Asia.

Modi, sotto alcuni aspetti, non è certo meno “retrogrado” di un capo Telabano, ma anche ai liberal nostrani manca il fiato per dirle certe cose.

La Turchia di Erdogan che ha avuto un ruolo rivelante come Paese NATO per ciò che concerne la presenza militare nel Paese, ha una politica sempre più “indipendente” dagli USA e mira ad essere in generale un punto di riferimento per il mondo mussulmano dal Corno d’Africa al Caucaso, passando per il Medio Oriente, ma non può entrare in rotta di collisione con Russia e Cina.

Senza dilungarci sull’evoluzione della politica dei singoli Stati, è cambiato il ruolo di Russia e Cina, e dell’Iran. Questi Paesi stanno consolidando sempre di più i loro rapporti reciproci e l’Afghanistan potrebbe essere il centro fisico di un asse euro-asiatico che sarebbe un incubo per Washington ed un esempio da manuale di eterogenesi dei fini per la politica di potenza statunitense, dalla Seconda Guerra ad oggi.

Vent’anni fa la Cina entrava nel WTO come Paese della periferia integrata, proprio quando l’Afghanistan veniva invaso, nel 2001; mentre la Russia sembrava destinata a svolgere un ruolo di attore subordinato all’Occidente, e l’Asse della Resistenza poi articolato dall’Iran dava fastidio solo in Libano, dove Hezbollah aveva ricacciato gli israeliani.

Certamente nulla è scontato, ed il tempo ci dirà se il “Grande Gioco” verrà vinto da Pechino, Mosca e Teheran. Per ora è stato perso da Washington. Gli USA cercano in questa fase soprattutto di “avvelenare i pozzi” per contrastare questa eventualità – anche perché non hanno un “Piano B” – scommettendo probabilmente su una nuova espansione dello jihadismo come punta di lancia per mettere in difficoltà la Feferazione Russa in Caucaso, e la Cina in Xinjiang.

Niente di nuovo, insomma, ma sembra più wishfull thinking che una ipotesi praticabile, vista l’assertività di Cina e Russia che possono “tagliare le gambe” ai Talebani.

Gli USA giocano comunque la possibile “bomba umanitaria” contro Pakistan ed Iran dove già sono presenti rispettivamente 3 milioni e mezzo e 3 milioni di profughi afghani. Il Paese asiatico, dopo la Siria, ha il più alto numero di “displaced people” all’interno e di profughi all’esterno, con altro mezzo milione che potrebbe premere ai confini dei paesi confinanti con la vittoria Talebana.

Alla ipocrita diplomazia europea, non per nobili fini umanitari, è l’unica cosa che in fondo importa perché vede come fumo negli occhi la possibilità che aumenti il flusso di persone verso il Vecchio Continente, ed in qualche modo dovrà ingraziarsi chi già ora accoglie sei milioni e mezzo di profughi.

Pace, verrebbe da dire, se l’Unione Europea ed i suoi Stati membri – che sono stati i maggiori finanziatori al netto dei progetti di “ricostruzione” – vedrà andare quei 17 miliardi di euro finora spesi ai futuri padroni del Paese, invece che agli attuali protegés, ma l’importante è che non se ne parli troppo.

Certo, l’ipotesi di una “invasione” di profughi afghani è forse l’unica arma di pressione che l’attuale dirigenza politica del Paese asiatico ha nei confronti della UE, visto che gli USA sono oramai sordi ad ogni loro esigenza.

Come è purtroppo “naturale” in una escalation militare, da maggio il numero di morti e feriti civili si è impennato raggiungendo i livelli di oltre 10 anni fà: 2.400 solo a maggio.

È chiaro che a Bruxelles stanno pensando che il nuovo amico Biden li ha resi “cornuti e mazziati”, peggio di quel cattivone di Trump, cosa di cui naturalmente i nostri media non parlano.

Il messaggio di Luigi Di Maio, alcune settimane fa, sulla partenza del nostro contingente da Herat, esprime tutto il vuoto politico di una classe dirigente indecente, furbetta e asservita, proprio quello che serve alle oligarchie franco-tedesche per governarci.

I Talebani non sembrano incontrare ostacoli significativi, da nessun punto di vista e, dopo aver dato rassicurazioni a Mosca e Pechino – che comunque seguono preoccupate le evoluzioni sul campo – sanno che maggiori conquiste militari faranno sul terreno, più grande sarà il loro peso nella vita futura del Paese.

E non è azzardato sostenere che l’attuale presidente e gli ex signori della guerra (dalle mutevoli alleanze) che gli hanno dato rinforzo fino all’ultimo saranno marginalizzati, per usare un eufemismo, nella cristalizzazione politico-diplomatica dei rapporti di forza reali.

In genere i Talebani hanno metodi ruvidi e sbrigativi per regolare i conti con i loro nemici. Tra l’altro, l’idiozia diplomatica dell’attuale leadership politica afghana è tale che si è ostinata a non voler liberare i prigionieri talebani – lì dove non l’hanno fatto i talebani stessi manu militari – rinunciando così a una precondizione minima per aprire una trattativa vera.

Nel crepuscolo dell’egemonia nord-americana, guardando al caso afghano, alcune cose appaiono evidenti:

1) i “figli di puttana” su cui hanno fatto affidamento gli USA possono essere scaricati sic et sempliciter quando cambiano le priorità strategiche statunitensi; non importa quanto siano servi, chi, come;

2) l’UE ed i suoi Stati membri hanno svolto un ruolo subordinato e complementare rispetto agli USA e ora rischiano non solo di non godere i frutti del “bottino di guerra”, ma di subirne le conseguenze;

3) l’asse Cina-Russia-Iran potrebbe trovare – se in grado di gestire questa delicata partita geo-politica – un volano per dare forza al progetto multipolare.

Come conseguenza, la politica dell’apprendista stregone che aveva vinto la Guerra Fredda affossando qualsiasi risoluzione pacifica di un Afghanistan sottratto alle influenze socialiste, nei primi Anni Novanta, sta ricadendo su una parte della popolazione.

Va ricordato infatti che l’intervento sovietico di fine Anni Settanta andava a sostegno di un governo laico, con un progetto in termini di diritti sociali e civili avanzatissimo per quel Paese.

Nel nostro ridotto nazionale si dovrebbe cominciare a fare un bilancio serio, partendo dal caso afghano, sulle conseguenze della fine del mondo bipolare e su quanto sia folle il “neo-atlantismo” cui sembra votato il nostro Paese anche con Draghi.

Per gli USA, comunque, questo conflitto rimane la più lunga e costosa guerra persa – più di mille miliardi di dollari spesi, con la presenza di 100mila soldati nel momento di picco – da cui si sono sfilati semplicemente perché non avevano un’alternativa valida: una sconfitta strategica, insomma, foriera di ulteriori arretramenti, se le mine che stanno piazzando faranno cilecca.

“Il mondo cambia”. Ditelo, anzi gridatelo, alle redazioni di TG e quotidiani. Alla fin fine, qualcuno vi ha mai detto che il 90% dell’eroina che circola a livello mondiale arrivava da un provincia – Helmand – che da vent’anni era il bastione delle truppe d’occupazione anglo-americane?

Tra tante notizie, gli sarà sfuggito?

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