Una dopo l’altra stanno cadendo i capoluoghi di provincia dell’Afghanistan.
Con un effetto domino, ad un ritmo impressionante, l’offensiva dei talebani negli ultimi dieci giorni ha fatto sì che 18 di questi siano caduti nelle loro mani, con un bilancio che si modifica quasi di ora in ora a loro vantaggio, e senza il pur minimo segnale di inversione di tendenza sul campo.
La diplomazia occidentale è in affanno e cerca di coprire con una “foglia di fico” questo clamoroso fallimento: la NATO ha convocato d’urgenza un summit per le 15 di venerdì pomeriggio, mentre l’ONU dichiara che: “siamo sull’orlo di disastro umanitario”.
I media non sanno che pesci pigliare, considerando che i Talebani – da freedom fighters quando si battevano contro l’Unione Sovietica anche per gli interessi dell’Occidente – sono divenuti il “Male Assoluto” ed ora diventeranno probabilmente ospiti scomodi, come già lo sono le dinastie delle monarchie del Golfo.
Non sembra essere in grado di rallentarne l’avanzata l’élite militare afghana del 215esimo Corpo d’Armata (finanziata e addestrata prevalentemente dagli USA), composta da 20 mila uomini, ora comandati dal 36enne Sami Sadat, che comunque non può essere impiegata su più fronti.
5 capitali di provincia sono state conquistate solo qualche ora dopo la caduta di Herat e Kandahar, due delle più importanti città afghane. Il Nord, tradizionale roccaforte anti-telabana dai tempi della guerra civile negli anni '90, e base dell’attuale evanescente leadership politica, è saldamente nelle loro mani.
L’impalcatura statale costruita dal 2001 in poi si è di fatto “liquefatta”, i talebani hanno promesso l’amnistia a chi ha “collaborato” con l’occupante ed invitato i profughi a tornare per ricostruire il Paese.
Kabul è di fatto circondata, tagliata fuori dalle principali vie di comunicazione, gli “studenti di teologia” sono ormai a molto meno di 100 km da quello che è ormai l’ultimo vacillante bastione del governo fantoccio, con a capo Ashraf Ghani, in cui stanno giungendo sempre più disperati da altre zone del Paese.
Con la conquista di Ghazni, sono state infatti tagliate le vie di comunicazione stradali a sud della capitale, mentre con la cattura di Pul-e Khumi erano state interrotte quelle verso nord e ovest.
Sembra a questo punto eccessivamente ottimistica la previsione della sua caduta di Kabul entro tre mesi – ipotizzata dagli esperti nord-americani – tenendo conto del fatto che le residuali truppe USA completeranno il loro ritiro (iniziato questa primavera, insieme alle forze NATO impegnate nel teatro afghano) a fine mese.
I rinforzi statunitensi che verranno inviati, circa 3mila uomini, serviranno esclusivamente per coadiuvare la partenza del personale nord-americano ancora presente, e non per contrastare l’offensiva in atto, dopo l’aiuto (assai scarso) dato esclusivamente con l’aviazione e i droni.
È la nuova Saigon di quello che sembrava essere il Secolo Americano, e lo smacco più grande della nuova amministrazione in politica estera, dopo il fallimentare tentativo di destabilizzare Cuba, ed il ritiro dall’Iraq.
I Talebani vogliono la partenza di tutte le forze straniere – compresi i turchi, che controllano l’aeroporto della capitale, che incontreranno probabilmente a breve – e del governo, che nelle ultime ore ha dichiarato che è disposto ad una condivisione di potere con gli insorti, come disperato tentativo di trovare un “cessate il fuoco” e salvaguardare una rendita di posizione definitivamente compromessa.
In questi anni le capacità militari talebane sono migliorate, professionalizzando i propri combattenti che hanno potuto contare su un corpo d’élite usato come forza d'attacco denominato “sara khitta“, fiore all’occhiello della propaganda bellica dei Talebani.
Allo stesso tempo si è affinata la loro diplomazia politica, legittimata o meglio ri-legittimata in primis dagli USA con le trattative a Doha, poi da Cina e Russia.
Dopo la conquista della capitale nel 1996 da parte dei Talebani, usciti vincitori dalla guerra civile grazie al supporto di USA, Pakistan ed Arabia Saudita, e l’occupazione a guida statunitense del 2001, il Grande Gioco geopolitico nel Paese asiatico subisce nuovamente una svolta dagli esiti ancora incerti.
Certamente i Talebani non sembrano avere rivali sul terreno, e nessun signore della guerra – almeno che non venga pesantemente sostenuto dall’esterno – può impensierirli. È difficile anche intravedere oggi qualche segnale di divisione al loro interno, con una dirigenza di lungo corso che annovera tra le sue fila i fondatori provenienti dalle scuole coraniche e che vanta una longevità che ha attraversato la tempesta della fine del mondo bipolare.
Con la caduta, avvenuta domenica, di Sheberghan, è venuto meno il bastione del feroce signore della guerra Abdul Rachid Dostum, alleato di Massoud e ora filo-governativo; ed è stato perso l’ultimo punto strategico ai confini del Paese non controllato dai Talebani, in questo caso l’Uzbekistan, dopo quelli di Iran, dei tre stati caucasici ex sovietici, Cina, e Pakistan.
Non è peregrino pensare che la quadratura del cerchio diplomatico, che assicuri di fatto il potere ai vincitori sul campo e salvaguardi quel vuoto simulacro che è il diritto internazionale, sia una estromissione dell’attuale leadership politica “collaborazionista” – che di fatto amministra solo Kabul e non controlla più i confini – con l’intercessione di Turchia e Pakistan presso i Talebani.
Questo per far loro accettare un processo di transizione con un “ampio governo” di facciata, con il placet di tutta la comunità internazionale, ma con il potere in mano ai “Talib”.
Alla fine, l’unica “linea rossa” posta dalla diplomazia internazionale è che i Talebani non entrino manu militari a Kabul, ma i capi degli insorti sanno che nessuno è disposto a “morire per Danzica”.
Questo anche per scongiurare quella “bomba umanitaria” di profughi che preme ai confini, e costruire un possibile percorso di ritorno in patria di una popolazione che è la seconda al mondo per profughi (interni ed esterni) dopo la Siria, alleggerendo così il fardello di Pakistan ed Iran (entrambi Stati ora nell’orbita geo-politica di Pechino) che da sole ospitano sei milioni e mezzo di Afghani; oltre a scongiurare l’incubo di una nuova crisi migratoria, dopo quella siriana, che coinvolga la fortezza Europa.
La mente non può che andare a quel 1996 in cui i Talebani entrando a Kabul catturarono, all’interno di un edificio dell’ONU, Mohammed Najibullah, leader comunista afghano sopravvissuto alla fine del mondo bipolare, che aveva cercato con ogni mezzo una exit strategy politica alla guerra civile anche dopo la partenza delle truppe sovietiche che stazionarono per nove anni – dal 1979 – nel Paese.
Una strategia d’uscita, quella di Najibullah, per un Paese che, svestendo gli orpelli socialisti all’esterno, avrebbe potuto mantenere le acquisizioni più importanti della “Rivoluzione Saur” del 1977 (difese manu militari dall’URSS contro le forze più retrive e i loro alleati esteri), ed interloquendo con tutte le componenti afghane – dai mujaheddin al re in esilio – avrebbe reso il Paese neutrale ed in pace con i suoi vicini in una cornice internazionale di regole condivise.
Ma quell’ultimo tentativo fu annichilito principalmente dalla potenza uscita vincitrice dalla Guerra Fredda, non paga del collasso dell’URSS e desiderosa di disfarsi di ogni uomo ed esperienza politica che non fosse pronta a piegarsi, come hanno dimostrato poi l’aggressione alla Serbia – dopo lo smembramento indotto della Jugoslavia – l’invasione dell’Iraq, dopo lo strangolamento attraverso l’embargo, la distruzione della Jamahiriya in Libia.
Non è forse un caso che non sia mai stata aperta una inchiesta internazionale per accertare i mandanti di quel truce duplice omicidio che colpi Najibullah ed il fratello, nonostante la pressione della famiglia e le testimonianze riportate da vari giornalisti.
Quando – presto, comunque – e come cadrà Kabul non è dato saperlo, ma è chiaro che si apre una partita geopolitica in uno dei tradizionali punti di frizione delle potenze mondiali: Russia zarista e Impero britannico nell’Ottocento, URSS e impero britannico dopo, URSS e Stati Uniti (ed alleati) poi.
Come è altresì chiaro che USA, NATO ed Unione Europea hanno fallito miseramente portando solo ulteriore sofferenza al martoriato popolo afghano.
Qualcuno ha il coraggio di chiedere cosa si sarebbe potuto fare, in termini di sviluppo reale per gli afghani, con quei più di mille miliardi di dollari che gli USA hanno speso per la folle impresa di guerra?
E contro questa “banda di stronzi” dovremmo solo dare concretezza alle parole di Gino Strada: “io non sono pacifista, io sono contro la guerra”.
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