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19/07/2012

Borsellino e Sciascia: storia di un paradosso siciliano

"La verità è uno strumento indispensabile perché permanga tra gli umani una passione di giustizia".

A vent'anni dalla simbolica e tragica morte di Paolo Borsellino e della sua scorta in via d'Amelio a Palermo mi sembra giusto riproporre e rileggere una polemica che vide contrapposti lo scrittore Leonardo Sciascia ed il magistrato ucciso dalla mafia con la complicità di pezzi dello Stato. Questa è la storia di un paradosso siciliano che nasce nella redazione del principale quotidiano italiano e che apre una contesa che dura ancora oggi, anche se molti confondono fatti e personaggi. Paolo Borsellino si oppose a qualunque trattativa con Cosa Nostra.
Leonardo Sciascia ben prima degli altri fece comprendere come la mafia non fosse solo un fenomeno siciliano.

Tutto nasce grazie un redattore culturale che oggi gode di ottima fama, Riccardo Chiaberge. Nel gennaio del 1987 deve impaginare un articolo di uno degli intellettuali di punta del Corriere della Sera. Leonardo Sciascia ha trattato il suo ragionamento a partire delle lettura di un saggio pubblicato da una piccola casa editrice calabrese, la Rubettino di Soveria Mannelli, che proprio grazie a questa celebre polemica assurgerà da allora a notorietà nazionale. "La mafia durante il Fascismo" è un volume scritto da Christopher Duggan, un allievo dell'autorevole storico Denis Mack Smith, autore della prefazione in cui offre la chiave di lettura sulla paradigmatica vicenda del prefetto Mori, passato alla storia come "Prefetto di ferro". Il saggio non spiega la "mafia in sé" ma si sofferma su quel che "si pensava la mafia fosse e perché".
Sciascia nel suo articolo sa di scrivere questioni eretiche. Infatti nell'attacco del pezzo pone due autocitazioni tratte da suoi due celebri romanzi sulla mafia siciliana: "Il giorno della civetta" e "A ciascuno il suo". Mossa preventiva per ammonire le critiche che arriveranno da "quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denomineranno eroi della Sesta". Deve argomentare di mafia e antimafia Sciascia. Con lessico e documentazione da par suo. Raccontando per esempio di un capitolo scomparso di una piece sulla mafia di Don Sturzo e poi riadattata con finale positivo da Diego Fabbri.
La morale di fondo dell'articolo è che anche l'antimafia è uno strumento di potere. Per rafforzare la sua tesi Sciascia conclude il suo articolo traendo spunto dalla cronaca. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando ("sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso"). Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se sul sindaco l'esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura Sciascia si poggia su un dato che considera "attuale ed effettuale". La parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto comunica l'esito dell'assegnazione del posto di procuratore capo di Marsala a Paolo Borsellino alla luce "della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare". L'illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale giudiziaria dell'intero passo e non si accorge di essere finito tra i conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina al Csm fino a quel momento imperante a Palazzo dei Marescialli. Scrive Sciascia: "I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale piu', in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". E' periodo caldo in Italia su quel fronte. Si attende la sentenza del maxiprocesso a Palermo istruito dal pool di Caponnetto.

Chiaberge legge il contenuto e conia un titolo che resterà a futura memoria per usare una frase sciasciana: "I professionisti dell'Antimafia". Oggi, con il senno del poi, il celebre giornalista Chiaberge si pente di quella titolazione, come ha dichiarato in un'intervista del 2004 alla rivista "Scriptamanent" e in seguito ripresa dal sito "Bottegaeditoriale.it". Perché quel titolo come ben sappiamo è diventato uno slogan adoperato da uomini, ominicchi e quaquaraquà per screditare la magistratura antimafia che fa il suo dovere.
Esplode una furibonda polemica con parole di fuoco da parte di Nando Della Chiesa, figlio del generale ucciso dalla mafia a Palermo, ma non è da meno neanche Giampaolo Pansa su Repubblica. La polemica consegna comunque notorietà negativa ad un serio magistrato come Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di questo tipo. Per giunta firmata dall'intellettuale che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva dato quella morale che la politica non aveva saputo mai far diventare senso comune.

Borsellino si sentì molto ferito da quell'articolo. Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre intellettuale. Sciascia con quella riflessione aveva procurato un vestito nobile a tutti i politici collusi con la mafia e ai professionisti della disinformazione che da allora potranno farsi scudo con l'ormai celebre definizione sintetizzata dal titolo di Chiaberge. Sciascia molto malato in quel periodo, aveva raccolto una soffiata da ambienti socialisti e radicali, impegnati in quella fase sul caso Tortora e sulla campagna sulla giustizia giusta. Sciascia, garantista autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un'intervista alla rivista "Segno" correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I due s'incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a Borsellino, (che non conosceva quando scrive l'articolo), nel corso di un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla sua nomina e chiede scusa dell'accaduto. Borsellino nei giorni della polemica aveva detto alla sorella Rita: "Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. E' stato malconsigliato e manovrato". Giuseppe Ayala in un libro di memorie sostiene che quell'articolo era giusto nei contenuti ma l'esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille: "Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come Orlando e Borsellino". Un conto era la retorica della politica, un altro l'impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo. Tra l'altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare in un difficile posto di provincia come Marsala. Aumentava le sue spese personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine comportava per lui anche sacrifici economici e personali. Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni.

Borsellino assunse un tono nobile ma fermo. In un'intervista rilasciata a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista all'epoca in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: "Nutro preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E' pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia". In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l'aborto ammazza piu' innocenti della mafia. Nella stessa intervista Borsellino approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di magistrato: "Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno".

In quei giorni la polemica dimentica infatti i molti magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera, il liberale Piero Ostellino, prima di lasciare il giornale nel suo ultimo editoriale difese lo scrittore e sostenne: "L'antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario". Oggi sappiamo qualcosa in più sulla vicenda grazie ad una testimonianza affidata da Ostellino al volume curato da Antonio Motta, "Leonardo Sciascia vent'anni dopo". L'ex direttore del Corsera ricorda che quell'articolo metteva in evidenza i pericoli del "pensiero unico" sulla mafia considerato che chi non la pensava come i "professionisti" veniva giudicato come alleato "oggettivo" della mafia. Gli attacchi che hanno ricevuto Ostellino e Sciascia sono giudicati dal giornalista come "una porcata tipica di bigotti e farisei". Oggi Piero Ostellino ci fa sapere che dopo il suo abbandono Sciascia fu spinto a lasciare via Solferino approdando a La Stampa. Scrive Ostellino nella sua nota: "Il responsabile non fu il nuovo direttore, Ugo Stille, che di fatto manco si occupava della fattura del giornale, ma chi, dietro le quinte, ne dettava la linea, il classico radical-chic. Del quale non faccio il nome per carità cristiana e perché non mi piace criticare chi non può replicare perché è morto". Confesso che non riesco a capire chi è stato l'autore dello scempio.

Mi resta da ricordare che Borsellino tornerà con la memoria a quell'episodio durante i drammatici 57 giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D'Amelio, tornati oggi drammaticamente attuali per le vicende della trattativa tra Stato e mafia. Nel suo ultimo intervento pubblico a Palermo, Borsellino sosterrà che Falcone aveva cominciato a morire quando "Sciascia bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'Antimafia". Recentemente la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: "Leonardo Sciascia vent'anni fa aveva capito tutto prima di altri". La figlia di Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: "Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l'aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell'antimafia [...] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull'arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull'intoccabilità dell'antimafia."
Mi piacerebbe tanto conoscere oggi il parere di don Leonardo sulla trattativa, sulla strage di via D'Amelio e i condannati ingiustamente per quel mattatoio ordito da mafiosi e malacarne in divisa. Ma di Sciascia in giro se ne vedono pochi, e di pari talento e coraggio di Borsellino non c'è notizia. A vent'anni dalla strage la cronaca è piena ancora di professionisti dell'antimafia.

Fonte

Nel mare di parole con cui viene ricordato il ventennale dell'assassinio di Borsellino e la sua scorta, l'articolo che ho riportato mi sembra l'unico degno d'essere ripreso.
Non capisco se è questione di percezione personale o meno, ma mai come quest'anno il ricordo di quella strage (ma il discorso vale anche per Capaci) mi è sembrato sbiadito e inconsistente, quanto meno al di fuori dei confini siciliani.
Trovo così schizofrenico che nessuno si fermi anche solo a considerare l'eventualità che questo ventennio di sfascio, sia figlio in buona percentuale anche di quella partita clamorosamente persa dalla società civile contro la criminalità organizzata e i "poteri forti" che hanno sempre intrecciato i propri interessi con quelli delle varie cupole sparse per la penisola.

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