"La verità è uno strumento indispensabile perché permanga tra gli umani una passione di giustizia".
A vent'anni dalla simbolica e tragica morte di Paolo Borsellino
e della sua scorta in via d'Amelio a Palermo mi sembra giusto
riproporre e rileggere una polemica che vide contrapposti lo scrittore Leonardo Sciascia ed il magistrato ucciso dalla mafia con la complicità di pezzi dello Stato. Questa è la storia di un paradosso siciliano che nasce nella redazione del principale quotidiano italiano
e che apre una contesa che dura ancora oggi, anche se molti confondono
fatti e personaggi. Paolo Borsellino si oppose a qualunque trattativa
con Cosa Nostra.
Leonardo Sciascia ben prima degli altri fece comprendere come la mafia non fosse solo un fenomeno siciliano.
Tutto nasce grazie un redattore culturale che oggi gode di ottima fama, Riccardo Chiaberge.
Nel gennaio del 1987 deve impaginare un articolo di uno degli
intellettuali di punta del Corriere della Sera. Leonardo Sciascia ha
trattato il suo ragionamento a partire delle lettura di un saggio
pubblicato da una piccola casa editrice calabrese, la Rubettino di
Soveria Mannelli, che proprio grazie a questa celebre polemica assurgerà
da allora a notorietà nazionale. "La mafia durante il Fascismo"
è un volume scritto da Christopher Duggan, un allievo dell'autorevole
storico Denis Mack Smith, autore della prefazione in cui offre la chiave
di lettura sulla paradigmatica vicenda del prefetto Mori, passato alla
storia come "Prefetto di ferro". Il saggio non spiega la "mafia in sé"
ma si sofferma su quel che "si pensava la mafia fosse e perché".
Sciascia nel suo articolo sa di scrivere questioni eretiche.
Infatti nell'attacco del pezzo pone due autocitazioni tratte da suoi
due celebri romanzi sulla mafia siciliana: "Il giorno della civetta" e
"A ciascuno il suo". Mossa preventiva per ammonire le critiche che
arriveranno da "quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla
e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denomineranno eroi della
Sesta". Deve argomentare di mafia e antimafia Sciascia. Con lessico e
documentazione da par suo. Raccontando per esempio di un capitolo
scomparso di una piece sulla mafia di Don Sturzo e poi riadattata con
finale positivo da Diego Fabbri.
La morale di fondo dell'articolo è che anche l'antimafia è uno strumento di potere.
Per rafforzare la sua tesi Sciascia conclude il suo articolo traendo
spunto dalla cronaca. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando
("sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi - in
interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei -
come antimafioso"). Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a
lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se
sul sindaco l'esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura
Sciascia si poggia su un dato che considera "attuale ed effettuale". La
parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno
stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto
comunica l'esito dell'assegnazione del posto di procuratore capo di Marsala a Paolo Borsellino
alla luce "della particolarissima competenza professionale nel settore
della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso
in particolare". L'illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale
giudiziaria dell'intero passo e non si accorge di essere finito tra i
conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina al Csm
fino a quel momento imperante a Palazzo dei Marescialli. Scrive
Sciascia: "I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale piu', in
Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a
processi di stampo mafioso". E' periodo caldo in Italia su quel fronte.
Si attende la sentenza del maxiprocesso a Palermo istruito dal pool di Caponnetto.
Chiaberge legge il contenuto e conia un titolo che resterà a futura memoria per usare una frase sciasciana: "I professionisti dell'Antimafia".
Oggi, con il senno del poi, il celebre giornalista Chiaberge si pente
di quella titolazione, come ha dichiarato in un'intervista del 2004 alla
rivista "Scriptamanent" e in seguito ripresa dal sito
"Bottegaeditoriale.it". Perché quel titolo come ben sappiamo è diventato
uno slogan adoperato da uomini, ominicchi e quaquaraquà per screditare la magistratura antimafia che fa il suo dovere.
Esplode una furibonda polemica con parole di fuoco da parte di Nando
Della Chiesa, figlio del generale ucciso dalla mafia a Palermo, ma non è
da meno neanche Giampaolo Pansa su Repubblica. La polemica consegna
comunque notorietà negativa ad un serio magistrato come
Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di
questo tipo. Per giunta firmata dall'intellettuale che con i suoi
romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura
psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva
dato quella morale che la politica non aveva saputo mai far diventare
senso comune.
Borsellino si sentì molto ferito da quell'articolo.
Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre
intellettuale. Sciascia con quella riflessione aveva procurato un
vestito nobile a tutti i politici collusi con la mafia e ai
professionisti della disinformazione che da allora potranno farsi scudo
con l'ormai celebre definizione sintetizzata dal titolo di Chiaberge.
Sciascia molto malato in quel periodo, aveva raccolto una soffiata
da ambienti socialisti e radicali, impegnati in quella fase sul caso
Tortora e sulla campagna sulla giustizia giusta. Sciascia, garantista
autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da
suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un'intervista
alla rivista "Segno" correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I
due s'incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a
Borsellino, (che non conosceva quando scrive l'articolo), nel corso di
un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla
sua nomina e chiede scusa dell'accaduto. Borsellino nei giorni della
polemica aveva detto alla sorella Rita: "Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. E' stato malconsigliato e manovrato". Giuseppe Ayala
in un libro di memorie sostiene che quell'articolo era giusto nei
contenuti ma l'esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi
su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille:
"Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come
Orlando e Borsellino". Un conto era la retorica della politica, un altro
l'impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo.
Tra l'altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare
in un difficile posto di provincia come Marsala. Aumentava le sue spese
personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo
appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo
dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine
comportava per lui anche sacrifici economici e personali. Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni.
Borsellino assunse un tono nobile ma fermo. In un'intervista rilasciata a Felice Cavallaro
del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista
all'epoca in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: "Nutro
preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E'
pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da
qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia".
In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo
il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi
funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del
maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l'aborto ammazza
piu' innocenti della mafia. Nella stessa intervista Borsellino
approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di
magistrato: "Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono
entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente
mi moriva attorno".
In quei giorni la polemica dimentica
infatti i molti magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta
senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera,
il liberale Piero Ostellino, prima di lasciare il
giornale nel suo ultimo editoriale difese lo scrittore e sostenne:
"L'antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di
segno contrario". Oggi sappiamo qualcosa in più sulla vicenda grazie ad
una testimonianza affidata da Ostellino al volume curato da Antonio
Motta, "Leonardo Sciascia vent'anni dopo". L'ex direttore del Corsera
ricorda che quell'articolo metteva in evidenza i pericoli del "pensiero
unico" sulla mafia considerato che chi non la pensava come i
"professionisti" veniva giudicato come alleato "oggettivo" della mafia.
Gli attacchi che hanno ricevuto Ostellino e Sciascia sono giudicati dal
giornalista come "una porcata tipica di bigotti e farisei". Oggi Piero
Ostellino ci fa sapere che dopo il suo abbandono Sciascia fu spinto a lasciare via Solferino
approdando a La Stampa. Scrive Ostellino nella sua nota: "Il
responsabile non fu il nuovo direttore, Ugo Stille, che di fatto manco
si occupava della fattura del giornale, ma chi, dietro le quinte, ne
dettava la linea, il classico radical-chic. Del quale non faccio il nome
per carità cristiana e perché non mi piace criticare chi non può
replicare perché è morto". Confesso che non riesco a capire chi è stato
l'autore dello scempio.
Mi resta da ricordare che Borsellino tornerà con la memoria a quell'episodio durante i drammatici 57 giorni
che separano il botto di Capaci da quello di via D'Amelio, tornati oggi
drammaticamente attuali per le vicende della trattativa tra Stato e
mafia. Nel suo ultimo intervento pubblico a Palermo, Borsellino sosterrà
che Falcone aveva cominciato a morire quando "Sciascia bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'Antimafia".
Recentemente la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga
di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: "Leonardo
Sciascia vent'anni fa aveva capito tutto prima di altri". La figlia di
Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: "Il suo
era solo un richiamo alle regole, ce l'aveva con quella direttiva del
Csm e con una certa retorica dell'antimafia [...] Fu isolato solo perché
aveva lanciato una riflessione sull'arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull'intoccabilità dell'antimafia."
Mi piacerebbe tanto conoscere oggi il parere di don Leonardo sulla
trattativa, sulla strage di via D'Amelio e i condannati ingiustamente
per quel mattatoio ordito da mafiosi e malacarne in divisa. Ma di
Sciascia in giro se ne vedono pochi, e di pari talento e coraggio di
Borsellino non c'è notizia. A vent'anni dalla strage la cronaca è piena
ancora di professionisti dell'antimafia.
Fonte
Nel mare di parole con cui viene ricordato il ventennale dell'assassinio di Borsellino e la sua scorta, l'articolo che ho riportato mi sembra l'unico degno d'essere ripreso.
Non capisco se è questione di percezione personale o meno, ma mai come quest'anno il ricordo di quella strage (ma il discorso vale anche per Capaci) mi è sembrato sbiadito e inconsistente, quanto meno al di fuori dei confini siciliani.
Trovo così schizofrenico che nessuno si fermi anche solo a considerare l'eventualità che questo ventennio di sfascio, sia figlio in buona percentuale anche di quella partita clamorosamente persa dalla società civile contro la criminalità organizzata e i "poteri forti" che hanno sempre intrecciato i propri interessi con quelli delle varie cupole sparse per la penisola.
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