I
salari sono bassi, vergognosamente bassi. Anche quei pochi “fortunati”
(i giornali padronali ancora scrivono “privilegiati”) che hanno un
lavoro da molti anni, e dunque salari fissati da contratti nazionali
stipulati in altre condizioni, negli ultimi anni hanno visto bloccarsi
la dinamica verso l’alto. Per precari e discontinui, invece, la dinamica
è addirittura discendente, quando si passa da un lavoro all’altro. In
molti comparti, specie nella grande distribuzione, i 600 euro al mese
per orari settimanali decisi arbitrariamente dalle aziende, sono
diventati quasi la normalità.
Per
le aziende è ovviamente una pacchia, a un primo sguardo (che è poi
quello delle aziende stesse, notoriamente molto miopi). Ma basta
guardare il problema da un po’ più in alto – un paese, per esempio – e
subito si vede che questa compressione salariale è anche un problema
negativo per l’economia capitalistica. Se la gente lavora e viene pagata
poco – o addirittura nulla, come in molti stage o all’Expo – non ha
molto da consumare. Insomma, compra poche merci, riduce i servizi,
taglia le spese superflue e anche gran parte di quelle necessarie (le
cure mediche, per prima cosa). Ma se la domanda di consumi cala, anche
per le aziende le cose si mettono male, sono costrette a ridurre la
produzione, ecc.
Si
chiama spirale deflazionistica, un mostro alimentato da dieci anni di
crisi economica e politiche di austerità (soprattutto in Europa), da cui
neanche l’immenso quantitative easing praticato dalla Bce da due anni e
mezzo è riuscito a farci uscire.
Bene.
Da diversi mesi la stessa Bce va dicendo che se non si rimettono a
crescere i salari reali (che, con inflazione quasi a zero,
corrispondono ai salari monetari) il tentativo di rimettere in moto un
circuito virtuoso (leggermente inflazionistico, ma intorno al 2% annuo)
non avrà successo. E dunque la “crescita” rimarrà soffocata nella culla.
La cosa sorprendente, fino ad un certo punto, è che anche il giornale di Confindustria – IlSole24Ore
– ha finalmente colto l’invito di Mario Draghi, approfittandone per
fare una dura ramanzina... ai sindacati complici (CgilCislUil)!
L’editoriale di Alberto Orioli (L’assist Bce che il sindacato non coglie) non fa sconti, ma soprattutto dice cose addirittura sacrosante:
“Mario
Draghi anche nell’ultimo discorso che tanto ha spiazzato i mercati ha
citato il tema della sottoccupazione che induce a vedere come priorità
il consolidamento del proprio posto di lavoro (magari lavorando più ore)
piuttosto che non l’aumento delle retribuzioni per via contrattuale”.
“la
tesi del numero uno della Bce è che la sottoccupazione crea una
dinamica distorsiva nell’inflazione, soprattutto perché – ed è questa la
novità su cui il sindacato deve riflettere – lo sviluppo dei contratti
di secondo livello ha creato una flessibilità che non sempre si è
tradotta al rialzo”.
“Accentuare
ancora – nel dibattito pubblico del Paese europeo con la più alta
presenza sindacale – argomenti minori come sono, ad esempio, i voucher,
per farli diventare il simbolo di una nuova battaglia per i diritti
stile anni '70 (come sta facendo la Cgil) rischia di rendere sfuocato il
vero tema strategico dei salari”.
“Le
parti sociali sono ancora in tempo per correggere un altro errore
prospettico: quello di trasformare la discussione su come rivitalizzare i
salari nel dibattito tutto politico-ideologico del salario minimo o di
cittadinanza. Il che sposta l’asse dal tema del lavoro a quello
dell’assistenza. E sposta anche il “gioco di potere” dal campo dei corpi
intermedi a quello proprio della politica”.
Naturalmente
Confindustria non sta correndo sulle tracce di Corbyn o Melenchon. La
sua soluzione è molto prosaica e pro-imprese: “abbattimento del cuneo
fiscale per i giovani, per favorirne l’ingresso sul mercato e nel
contempo alzarne le retribuzioni e nuova articolazione delle relazioni
industriali”. Ossia una risposta sistemica che non sposta i
rapporti di forza tra i “fattori del lavoro”, anzi, ma chiede ancora una
volta allo Stato di farsi carico del differenziale contributivo,
consentendo così alle aziende di destinare quel margine monetario in più
all’aumento dei salari.
E
qui casca l’asino dei sindacati complici. Le aziende, infatti, non
concederanno mai spontaneamente un salario più alto. Serve che qualcuno
glielo chieda, magari anche con la faccia incazzata; insomma, con
qualche mobilitazione che abbia al centro questo tema. Altrimenti si
limitano a mettere quei soldi in banca o nella speculazione finanziaria
(il vero sogno segreto di molti padroncini italiani), lasciando stagnare
produzione e consumi come negli ultimi anni.
Ma
CgilCislUil si sono ormai adattati da quasi un quarto di secolo alle
politiche di “moderazione salariale”, alla “contrattazione aziendale”
(dove i lavoratori sono in genere più deboli) prevalente su quella
nazionale, alla difesa di un “ruolo politico” anziché impegnato nella
salvaguardia degli interessi almeno economici dei lavoratori. Un esempio
clamoroso è venuto dall’ultimo rinnovo contrattuale dei metalmeccanici,
categoria un tempo gloriosa e combattiva, che coincideva quasi per
intero con la rappresentanza Fiom, in cui l’aumento salariale concordato
è di... 1,70 euro al mese!
I
sindacati complici stanno ormai svolgendo da anni un ruolo così di
supporto alle richieste aziendali – in un panorama imprenditoriale
segnato da un padronato miserabile e micragnoso – da essere diventati un fattore di freno all’uscita dalla spirale deflazionistica.
Grosso
modo, con parole diverse, è la stessa critica rivolta dal Papa ai
presunti cattolici della Cisl. Anche in quel caso il richiamo a “fare il
proprio mestiere” di sindacato è stato perentorio:
“Nelle
nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire
la sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e
ai poteri che invece dovrebbe criticare, alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile”.
«Le “pensioni d’oro” – e tutti hanno pensato subito all’ex segretario Raffaele Bonanni, oltre a tanti boiardi di Stato – sono
un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché
fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni».
“Non
c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato
buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le
pietre scartate dell’economia in pietre angolari, che, come i profeti
biblici, non dà voce a chi non ce l’ha. E che non comprenda una sana
cultura dell’ozio, per esempio del tempo che si può dedicare ai figli e
alla famiglia”.
“Il
capitalismo di oggi non comprende il valore del sindacato, perché ha
dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa, della vita,
dei legami e dei patti. Ma forse anche la nostra società non lo vede
lottare abbastanza nei luoghi dei diritti del non ancora, nelle
periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro, tra gli immigrati, i
poveri”.
Fino al lapidario a volte la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti”, che è sembrato a tutti una fotografia impietosa del sindacato italiano, più che un rimbrotto morale.
Ecco,
se Papa e Confindustria sono dovuti arrivare a questo punto, è segno
che i sindacati complici non sono percepiti più – da decenni – come un
“nemico”, ma neanche come qualcosa di economicamente utile. Erano
diventati così per imbrigliare una combattività di massa che faceva
salire troppo velocemente i salari, erodendo i profitti. Dopo un quarto
di secolo di eroina iniettata nelle vene del conflitto di lavoro, il
risultato raggiunto è l’eccesso opposto.
Ma
la constatazione – o la domanda – è altrettanto semplice: quei gruppi
di venduti seduti ai vertici del sindacato complice non sono in grado di
cambiare natura, abito mentale, postura personale. Inutili sia ai
lavoratori che alle imprese.
E’ il destino dei “moderati”, quello di arrivare sempre dopo.
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