L’UE sulla scena globale
Come reagisce l’oligarchia UE a questi avvenimenti? Non supinamente. L’epoca della supremazia protettiva statunitense sull’Europa occidentale è trascorsa. Da alcuni decenni i paesi europei, prima attraverso la Comunità e poi l’UE, apertamente contrastano l’egemonia economica USA, di sicuro da quando Nixon nell’agosto del 1971 dichiarò la fine della convertibilità del dollaro in oro che li spinse a costruire meccanismi monetari per sottrarsi alla volatilità dei cambi con il Serpente monetario nel 1972, con lo SME nel 1979, e infine con l’euro. Di questi ultimi tempi, anche sotto la richiesta USA di un più consistente contributo alle spese militari della NATO (il 2% del PIL per paese), l’UE sta rafforzando il suo dispositivo militare comune, pur sempre nell’ambito dell’Alleanza, per acquisire autonomia in campo militare. Certo la Brexit indebolisce il progetto militare perché la Gran Bretagna è potenza nucleare e siede tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ciò tuttavia non ha scoraggiato i piani del Comando unico, della collaborazione nella ricerca militare e negli armamenti. L’UE non può sottrarsi a questi compiti militari se vuole competere nell’arena globale. Queste vicende andranno ben monitorate, perché se negli anni ’50 del Novecento la politica di difesa comune bloccò il ‘progetto europeo di integrazione’, oggi essa può essere la fucina di nuovi equilibri nell’Unione e nel mondo. Questo scenario è ben presente alla Commissione che nel suo Libro Bianco sul Futuro dell’Europa del primo marzo 2017 ribadisce il ruolo chiave della NATO e sprona le classi dirigenti europee a non essere ‘ingenue’ perché l’UE ha la necessità di “provvedere alla propria sicurezza”. Essa non può più contare sul ‘soft power’ dato che oggi, è scritto ancora nel Libro Bianco, esso “non basta più quando la forza può prevaricare le regole”. La Commissione è consapevole che la competizione su scala globale richiede una UE sempre più grande poiché “a mano a mano che le altre parti del mondo si espandono, il peso mondiale dell’Europa diminuisce”. E si portano cifre a sostegno di questa tesi: “nel 1900 l’Europa rappresentava il 25% circa della popolazione mondiale, cifra che scenderà a meno del 5% entro il 2060, anno in cui nessuno degli Stati membri conterà da solo più dell’1% della popolazione mondiale circa. Il rapido aumento dell’influenza delle economie emergenti accentua la necessità per l’Europa di parlare con una sola voce e di agire sfruttando il peso collettivo delle sue singole componenti”. Si noti sia l’accento posto sulle limitatissime dimensioni dei singoli paesi europei per influire sulle vicende mondiali, sia la considerazione che sarà una sfida sempre più ardua “battersi per un commercio libero e sempre più aperto e orientare la globalizzazione in modo che sia vantaggiosa per tutti”.
Ecco chiarita la direzione di marcia che le élite vogliono imboccare: rafforzare l’UE in quanto grande spazio economico, coincidente con il suo mercato unico, aperto alla competizione commerciale, per guidare e non subire la globalizzazione. Il disegno di rafforzare l’UE sulla scena globale non poggia sulla sabbia, infatti la Commissione ricorda che già oggi il mercato UE è il più ricco del mondo e l’euro rappresenta il 30% a fronte del 43% del dollaro e dell’11% dello yuan, del paniere di monete utilizzato come riferimento dall’FMI per i ‘diritti speciali di prelievo’. Inoltre, se si consulta il 2017 KOF Index of Globalization, elaborato con dati relativi a commercio investimenti e redditi prodotti all’estero oltre all’indice sulle restrizioni dei movimenti di capitali, si constata che tra i primi venti paesi ben 18 sono membri dell’UE, sono cioè tra i primi al mondo per integrazione nei mercati globali. Già questo, insieme agli orientamenti della leadership cinese, rende ingiustificato il giudizio sulla fine imminente della globalizzazione, dato che due attori di primo piano sono determinati a proseguire su quella via, agendo di conseguenza con progetti e alleanze di ad ampio spettro.
Tutto ciò non toglie che l’UE viva una crisi profonda: sociale, politica e istituzionale. Oltre alla questione epocale delle migrazioni, agli attacchi del terrorismo ISIS, essa deve rispondere alla Brexit, alla sfiducia di larghi settori popolari verso le istituzioni comunitarie, al perdurare di una crisi sociale, e non soltanto economica, che difficilmente conoscerà una ‘svolta’ perché l’asprezza della competizione non dà margini a un nuovo ‘compromesso tra le classi’ volto ad attenuare disoccupazione, precarietà e vera e propria povertà. Come risponde l’oligarchia UE? Il Libro Bianco della Commissione è solo una prima base di discussione che coinvolge il Consiglio Europeo, la BCE, le organizzazioni degli imprenditori e la Confederazione Europea dei Sindacati (CES).
Per proseguire l’elaborazione del futuro dell’UE, la Commissione ha pubblicato il 10 maggio 2017, un Reflection Paper on Harnessing Globalisation, con una premessa di Frans Timmermans e Jyrki Katainen. Si parte da una considerazione avanzata nella Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017 per cui dinnanzi alle sfide dei conflitti armati, delle migrazioni e del terrorismo, “l’unità è sia una necessità sia una nostra libera scelta” perché – qui ritorna implicito il tema dei grandi spazi – “presi individualmente, noi saremo messi da un canto dalle dinamiche globali. Stare insieme è la nostra migliore chance di influenzarle, e di difendere i nostri comuni interessi e valori”.
Quale esempio paradigmatico dei processi di globalizzazione la Commissione prende a riferimento proprio le piccole e medie imprese italiane riferendosi specificamente, pur senza nominarla, a un’impresa che vende macchine per la pulizia di precisione alle industrie aerospaziali, sanitarie e del lusso in Europa, Israele, Cina e India, procurandosi input produttivi a basso costo e tecnologie all’estero: un chiaro esempio di ‘catena transnazionale del valore’. Nel complesso l’80% delle importazioni UE sono materie prime, beni capitali e componenti semilavorate necessarie per le produzioni; mentre la quota UE delle esportazioni globali è del 15%, mantenendosi negli ultimi anni a questo livello nonostante l’ascesa della Cina.
L’UE non si presenta disarmata in quest’arena globale, e come prima ho ricordato, anch’essa usa l’arma delle tariffe per contrastare in primo luogo l’avanzata cinese nei settori della cantieristica e dell’acciaio a difesa delle proprie imprese. Un segno di questa volontà di protezione è la questione del Market Economy Status della Cina – se essa sia un libero mercato o meno. Intorno ad essa sta avvenendo un duro confronto tra Commissione e lobbies industriali che temono, quale conseguenza dell’attribuzione dello Status, un generalizzato abbassamento delle barriere tariffarie per le merci cinesi. Il settore dell’acciaio, tra quelli più impegnati nel premere per interventi di salvaguardia contro la Cina (la cui produzione è superiore al consumo interno), al tempo stesso chiede all’UE politiche per favorire la sua espansione in Africa e nella stessa Asia dove la Federacciai prevede avverrà la massima espansione della domanda. Ciò a ulteriore prova che la globalizzazione è terreno irto di conflitti dove tutti i mezzi vengono usati per far prevalere le proprie imprese, che nell’UE non sono più ‘nazionali’, bensì transnazionali o comunque inserite nelle ‘catene transnazionali di valore’. Che questo provochi ulteriore fratture territoriali e sociali con l’emarginazione di intere aree geografiche e settori di popolazione, è cinicamente dato per scontato dalle élite europee.
Per guidare la globalizzazione sono necessarie, a parere della Commissione, più regole globali e una maggiore governance, mentre a livello dei singoli paesi occorre far crescere la competitività attraverso una maggiore flessibilità di imprese e lavoratori.
Flessibilità necessarie per seguire l’evolversi della divisione internazionale delle produzioni, che richiede continua capacità di adattamento. Torna ossessivamente nelle proposte della Commissione il tema della necessità per i lavoratori di acquisire nuove specializzazioni se vogliono mantenere o trovare un’occupazione. Per questo si ripete che sì la globalizzazione genera ineguaglianza, che le istituzioni pubbliche devono farsi carico della protezione sociale dei disoccupati e dei poveri, ma al centro del discorso è sempre il pregiudizio che siano i lavoratori la causa della propria disoccupazione perché poco flessibili e poco disposti ad acquisire nuove qualifiche, new skills. Si esalta il ‘modello europeo’ con i suoi livelli di protezione sociale, però se lo si vuole preservare nell’epoca della globalizzazione occorre camminare lungo la strada della flexisecurity. Questa è fondamentale per il buon funzionamento del mercato interno, “il più largo nel mondo... il trampolino delle imprese europee per espandere il loro business a livello globale”.
“Per assicurare un ambiente favorevole al business e rafforzare le economie degli Stati membri”, l’altro strumento è il Semestre Europeo necessario per coordinare le politiche economiche e fiscali dell’UE: “Gli Stati membri devono – si afferma nel Reflection Paper on Harnessing Globalization – sviluppare politiche che innalzino la produttività, favoriscano l’inclusione, e dirigano più risorse agli investimenti per l’innovazione, l’educazione e per gli elementi di traino della competitività nel lungo termine”.
Si vuole una ulteriore prova del cinismo delle élite europee? Si legga il Reflection Paper on the Social Dimensiono of Europe, reso noto il 26 aprile 2017, dove si parla dell’inevitabile ‘reskilling’ dei lavoratori che devono impadronirsi di nuove professionalità, se vogliono reintegrarsi nel mercato del lavoro. Pur tornando utili gli schemi per il salario minimo, la via maestra sono le riforme del mercato del lavoro, che mancherebbe tuttora di flessibilità, nonostante le ‘riforme’ in Spagna, Grecia, Italia e Francia dove sono stati liberalizzati assunzioni e licenziamenti e moltiplicate le forme contrattuali. Queste riforme hanno avuto come guida la Germania del cancelliere Schröder, che tagliò i sussidi di disoccupazione e le misure di welfare, e introdusse i mini-job e le clausole di opting-out di singole imprese dai contratti collettivi.
Il Paper a più riprese parla delle trasformazioni del mondo del lavoro sotto la spinta della globalizzazione, dell’innovazione tecnologica e dell’esplosione del settore dei servizi. E son sempre i lavoratori i primi colpevoli della loro disoccupazione o di occupazione a basso contenuto professionale perché restii a tenere il passo con i cambiamenti, ad adattarsi ai nuovi modelli di business. Invece “ai lavoratori di ogni età sarà richiesto di adattare le proprie professionalità ai cambiamenti tecnologici e ad aggiornarle continuamente”.
La Commissione, sempre il 26 aprile, ha pubblicato una Proposta per una Proclamazione Interistituzionale sul Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. Qui si declina in forma di diritti l’ideologia della flessibilità, perché i diritti vengono spostati dal lavoro all’interno dell’impresa al mercato, dove solo grazie alla continua riqualificazione e adattamento alle esigenze produttive – la famosa occupabilità – si potrà sopravvivere. Bastano i titoli per capire di che si tratta: supporto attivo per l’impiego; impiego sicuro e adattabile; salari equi ma rispondenti alle condizioni economiche dei singoli paesi, e sussidi di livello tali da non scoraggiare comunque la ricerca del lavoro. Insomma tutto l’armamentario del workfare.
Al lavoratore impaurito e indebitato della Grande Recessione segue il lavoratore colpevolizzato in quanto unico responsabile della sua disoccupazione, precarietà, povertà.
La maggioranza silenziosa
La strategia della Commissione di proseguimento delle politiche di globalizzazione è pienamente condivisa dai ‘partner sociali’, cioè dalla CES e da BusinessEurope. Anzi, per quanto riguarda le imprese, non solo quelle europee bensì l’insieme delle Organizzazioni Imprenditoriali del G7, in una Dichiarazione del 31 marzo, si sono apertamente schierate per continuare le politiche volte a globalizzare i mercati e a salvaguardare il libero commercio, fattori cruciali a loro avviso della crescita economica.
La CES ha ripetutamente manifestato il suo sostegno ai processi di integrazione UE perché necessari a reggere “la competizione nel mondo” (Risoluzione del Comitato esecutivo del 27 ottobre 2016); inoltre, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, ha firmato con BusinessEurope una Dichiarazione, il 24 marzo 2017, dove si invitano i leader dell’UE a essere uniti perché “solo uniti si è forti a livello globale”.
Potrebbe sembrare che questo profluvio di parole esprima solo intenzioni. Le parole così come le intenzioni di proseguire nella difesa e nel rafforzamento del capitalismo transnazionale europeo, si basano su fatti: l’UE ha salvato le banche, immettendo migliaia di miliardi per il loro bail-out, attivato risorse per le grandi reti e le infrastrutture, e per il settore industriale, il più esposto alla concorrenza, ha messo a disposizione risorse con l’obiettivo di incentivare i processi innovativi per innalzare la sua quota di PIL dal 16% al 20%. L’industria è il macrosettore dove più diffuse sono le produzioni transnazionali e dove più veloci e continui sono le innovazioni tecnologiche. Proprio da questi settori dell’imprenditoria viene il più forte sostegno all’UE perché persegua il completamento del mercato interno – unione bancaria e mercato dei capitali – e si batta per far avanzare la globalizzazione.
Un ruolo di vera guida politico-ideologica l’ha assunta la BCE sotto la presidenza di Mario Draghi. Parlando a Losanna, il 4 maggio, Draghi enuncia concetti analoghi a quelli della Commissione sullo scarso peso negli affari globali dei paesi europei singolarmente presi, peso che possono invece acquisire agendo integrati attraverso l’UE. In più ribadisce una visione politica che fa perno su un concetto di sovranità legittimata non dai cittadini, ma dalla capacità ed efficacia di esercitare potere reale. È un invito a non farsi distogliere dal perseguimento degli obiettivi dell’UE – completamento del mercato unico, competitività delle economie – a causa del deficit di democrazia, partecipazione e trasparenza. L’invito è a concentrarsi su azioni che rafforzino invece l’efficacia nell’esercizio del potere: in un mondo globalizzato “diviene perfino più importante che i paesi europei siano in grado di mettere insieme le loro risorse e sfruttare le economie di scala”. La dissociazione del potere dalla democrazia trova la sua espressione nell’ideologia dell’output democracy che, si badi bene, cancella completamente il costituzionalismo democratico del Secondo dopoguerra, fondato sui diritti della persona e sulla democrazia rappresentativa.
Di recente, davvero pugnaci, e alquanto insoliti, sono divenuti gli accenti politici di Draghi. Si legga il suo discorso, tenuto a Tel Aviv il 18 maggio, e si coglieranno toni ‘gramsciani’: l’economia capitalistica europea, a suo parere, potrà reggere la competizione solo conquistando di nuovo l’egemonia politica. La crisi è alle nostre spalle, sostiene Draghi (anche se milioni di persone ne sono ancora dentro), tuttavia l’UE ha dinnanzi a sé altre sfide quali la sicurezza, le migrazioni, la difesa che richiedono di mettere in comune altre e più ampie sfere di sovranità, progetto attuabile se si acquisisce finalmente la consapevolezza del consenso della maggioranza dei cittadini verso l’UE, che non si avverte perché coperto da un’opposizione vociante. Il riferimento alla vittoria di Macron, pur non citata, trapela dalle righe. Quale strategia politica seguire per battere i nemici dell’UE? Puntare a mobilitare la maggioranza silenziosa, che ha “guadagnato di nuovo la sua voce, il suo orgoglio, la fiducia in sé stessa”. Le classi dirigenti UE non stanno con le mani in mano, non assistono passivamente al corso degli avvenimenti, sono in grado di intervenirvi e di indirizzarli, come dimostrano le elezioni politiche in Olanda e in Francia e quelle presidenziali in Austria. Nei consessi internazionali l’UE non subisce più i ricatti degli USA, difende le sue posizioni di potere e le sue strategie, prendendo atto al massimo del dissenso di Trump, come accaduto sulla questione del clima al G7 di Taormina. Angela Merkel, nel suo discorso a Monaco di Baviera il 28 maggio, confermando la sua centralità sulla scena europea, ha chiamato a raccolta i paesi membri perché “noi europei dobbiamo prendere realmente il nostro destino nelle nostre proprie mani”, accettando così la sfida di Trump sul clima e ancor di più sia sulle scelte complessive della politica commerciale sia sulle strategie geopolitiche. A prescindere dai piani segreti della Merkel per andare avanti nella strada dell’integrazione politica economica e militare, di cui ha parlato Ralph Bollmann sulla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung (28 maggio 2017), l’UE non è più solo uno spazio economico con il mercato più ricco nel mondo, ha acquisito la statura di attrice politica in grado di contrastare i suoi avversari interni, e quelli esterni sulla scena mondiale. Nel corso della crisi, per governarla, le classi dirigenti europee hanno trasformato le istituzioni per tenere in vita e rafforzare il disegno di integrazione.
Sperare che l’UE evolverà per spinta interna verso forme democratiche e dimensioni sociali, o credere che crollerà perché incapace di superare le sue crisi sono pure illusioni.
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