Tra pochi giorni un esercito di ragazze e ragazzi affronterà la dura prova dell’esame di maturità (in bocca al lupo a tutte e tutti). Dopo, meno della metà di loro si immatricolerà all’università. Furono 275 mila l’anno scorso, ma dopo aver toccato punte molto più basse negli anni precedenti, secondo i dati ufficiali forniti dal Miur. E gli altri? Una parte sceglierà volontariamente di non proseguire gli studi all’università, ma una parte consistente sarà costretta a rinunciarvi per ragioni di sostenibilità economica. Per una famiglia di lavoratori dipendenti, soprattutto nelle aree depresse del paese, e non solo nel Mezzogiorno, che non abbiano la fortuna di vivere in una città dove è presente l’Ateneo universitario, sostenere i costi di uno o più figli – studenti fuori sede – è diventato proibitivo. E negli anni della crisi economica feroce, con le mille incertezze legate al futuro del posto di lavoro, gli effetti si sono fatti sentire ancora di più e hanno pesato notevolmente sulle famiglie della classe media e operaia.
Così, l’impossibilità di accedere all’esperienza formativa dell’università solo per motivazioni economiche ha generato forme di accentuato disagio, frustrazione e disperazione in centinaia di migliaia di giovani, in particolare nell’ultimo decennio. E l’università, paradossalmente, ha finito per trasformarsi in uno degli elementi della struttura delle disuguaglianze del paese.
Infatti mentre i teorici sostenitori dell’ideologia dell’eccellenza sono stati soddisfatti, sullo sfondo resta del tutto inevaso il grande interrogativo sull’università italiana: come farla uscire dalla gabbia del privilegio nella quale si è trasformata? Dovrebbe essere la ricerca di risposte a questo interrogativo la priorità nel dibattito pubblico. Lo stesso Ben Sowter, capo dei ricercatori della QS, la società che ogni anno si occupa di stilare le classifiche mondiali per le università, è costretto ad ammettere, come riporta il Messaggero, che “l’Italia è un paese straordinario e spero che la classe dirigente decida di incrementare l’investimento per le università e la ricerca. Favorire un cambio generazionale tra i ricercatori”, prosegue, “e fermare la preoccupante migrazione di giovani menti brillanti è fondamentale per aumentare la competitività del Paese”. Al netto di quest’ultima opinione, anche nella considerazione di Sowter pare centralissima la necessità di aumentare gli investimenti per l’università e la ricerca. Ma la preoccupazione non può essere solo quella dell’astratta “competitività”, concetto che rientra nello stile neoliberista di chi considera uno studente, un ricercatore, un docente, il “capitale umano”, ma di garanzie costituzionali e democratiche.
Come ha osservato, tra gli altri, Ivano Dionigi, l’ex rettore di Bologna, più volte intervenuto in questi giorni su diversi quotidiani, è accaduto che mentre gli altri paesi europei rispondevano alle sfide della crisi economica aumentando gli investimenti in conoscenza, saperi, formazione, in Italia si è deciso di tagliare i fondi nel sistema universitario e della ricerca. E purtroppo, la decisione sui tagli orizzontali e scriteriati è comune ai governi di centrodestra, tecnici e di centrosinistra, nessuno dei quali ha mai voluto affrontare la questione universitaria come questione costituzionale e democratica, ma solo in modo ragionieristico, inserendola come una voce di bilancio come altre, e dunque non strategica, neppure per “aumentare la competitività” del sistema, come recita la vulgata neoliberista.
Perché è questione costituzionale? Perché il diritto allo studio è un diritto universale che la Costituzione tutela all’articolo 3: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E l’Università non è proprio quella sfera pubblica nella quale dovrebbe dispiegarsi lo sviluppo della persona umana? Cos’è la conoscenza, se non la possibilità di dare a tutti le armi intellettuali per crescere, e magari superare le disuguaglianze di partenza? In Germania lo hanno capito da un pezzo, e infatti le loro università pubbliche sono gratuite, e leggendo la stampa tedesca non sembra che si siano stupiti, favorevolmente, del fatto che la prima bandierina tedesca che compare nel ranking organizzato da QS sia il Politecnico di Monaco al 64esimo posto seguito dall’Università statale della stessa capitale bavarese due posti dopo, e quella di Heidelberg al 68esimo.
In Germania sanno bene che nessuna università gareggia in un concorso competitivo con le altre, sulla base di tabelle di merito stabilite da un gruppo di ricercatori. No, in Germania sono consapevoli, grazie forse alla loro tradizione luterana e calvinista, che ciò che conta è mettere tutti nelle stesse condizioni di accesso alla formazione, di qualunque ordine. Per questa ragione, la spesa pubblica per la formazione di ogni singolo cittadino in Germania cresce ogni anno, come ampiamente dimostrano i dati di Education at a glance e nessuno si sognerebbe mai di operare tagli privi di senso.
Nel nostro continente si è consolidata una geografia ben precisa degli investimenti in istruzione e ricerca che corrisponde anche alle migliori performance economiche dell’Eurozona e del mondo, con riflessi rilevanti nella dimensione sociale. Come ci ricorda da anni Pietro Greco, esiste un’importante differenza tra aree europee caratterizzate dallo stesso peso demografico in ragione proprio di ciò. L’area “teutonica”, che ha al centro la Germania ed è composta da Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Austria, Svizzera; l’area “anglo-francese” composta da Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo e Irlanda; l’area mediterranea, con Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Malta e Cipro e quella orientale che raccoglie i paesi ex comunisti (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovenia, Croazia). Al netto delle condizioni di partenza, ad esempio, in termini di reddito nell’area teutonica ci sono maggiori investimenti nell’educazione terziaria (universitaria e post-universitaria): 635 dollari per abitante rispetto ai 489 dell’area anglo-francese, ai 340 dell’area mediterranea e ai 202 dell’area orientale. Per l’istruzione universitaria si spende il doppio rispetto all’area mediterranea e il 30% in più che nell’area anglo-francese. Si investono in R&S 162 miliardi di dollari l’anno. Una cifra pari quasi al 3% del PIL, seconda sola a quella degli Stati Uniti (447 miliardi) e della Cina (232 miliardi), del 53% superiore a quella dell’area anglo-francese (106 miliardi) e del 245% superiore a quella dell’area mediterranea.
Serve un investimento immediato in tutta la rete universitaria a partire dagli atenei che hanno subito maggiormente le scelte demenziali degli ultimi anni finalizzate a drenare le poche risorse disponibili dopo i tagli draconiani del 2008 nelle presunte aree forti del sistema. Ciò ha avuto come effetto quello di rendere l’università un amplificatore delle disuguaglianze piuttosto che uno strumento di inclusione e mobilità sociale. Al contrario, le poche risorse “fresche”, dopo anni di redistribuzione dei tagli, piuttosto che per finanziare il sistema vengono anch’esse distribuite in modo selettivo. Si tratta di 1,35 miliardi di euro (271 milioni annui per cinque anni) a 180 dipartimenti “di eccellenza”. Attraverso una premialità che per avere un senso dovrebbe aggiungersi ad un fondo ordinario tale da consentire il funzionamento normale di tutte le università piuttosto che diventare l’unica ancora di salvezza per i pochi che ne beneficeranno. Inoltre l’ideologia delle eccellenze che punta a selezionare chi “merita” si correda oggi contro ogni logica ed evidenza col ritorno del numero chiuso in corsi di laurea dove non c’era mai stato. Difficile trovare parole equilibrate per definire scelte demenziali di questa portata.
Difficile non ripensare alle parole di Papa Francesco che ha stupito ancora una volta nel suo discorso agli operai dell’Ilva, tra le altre cose si è concentrato proprio su questo tema:
“Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata meritocrazia. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il merito; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente”.Da anni è in corso una spinta per far si che il nostro sistema di istruzione diventi funzionale a questa ideologia, vale per l’università così come per la scuola come già si è detto riflettendo sulla deriva della valutazione. Si tratta di politiche regressive socialmente ed economicamente contro le quali bisogna lottare avendo come stella polare i valori che la nostra Costituzione affida alla scuola, all’università e alla cultura.
In realtà, è urgente elaborare e rilanciare una politica dello sviluppo (e non semplicemente della crescita) che abbia come presupposto l’estensione dei diritti di cittadinanza a partire da quello all’istruzione per tutto l’arco della vita. Per un paese dove l’indice di Gini, che misura le disuguaglianze, peggiora da dieci anni ininterrottamente, questa scelta è un dovere civile. La diffusione effettiva della conoscenza e la promozione di un uso critico della propria ragione sono un obiettivo oggi ancora più importante. La selezione dei saperi costruita attraverso i meccanismi di taglio delle risorse, accreditamento dei corsi, valutazione selettiva, riduzione delle opportunità di reclutamento sta già portando all’estinzione di intere discipline e alla marginalizzazione di scuole individuate come disfunzionali a ciò che il mainstream ritiene utile. L’attacco furioso nei confronti della cultura umanistica e in subordine delle scienze sociali è parte di questa operazione puramente ideologica mascherata da efficientamento del sistema di istruzione. L’idea che l’istruzione universitaria sia il presupposto della costruzione di una cittadinanza nel mondo, per dirla con Martha Nussbaum, deve oggi essere riproposta con forza nel dibattito pubblico. La realizzazione della persona umana attraverso l’accesso ai più alti gradi di istruzione significa questo. Del resto non basta produrre beni ad alta tecnologia e immateriali per migliorare la qualità della vita delle persone.
Tutto ciò ci induce a suggerire qualche soluzione alla gigantesca questione universitaria: occorre investire massicciamente nel diritto allo studio; metter fine alla strategia dei numeri chiusi, come ancora recentemente è accaduto all’Università Statale di Milano che, chiudendo anche i quattro dipartimenti umanistici, ha fatto l’en plein, con 79 su 79 a numero chiuso; ma soprattutto occorre tentare la strada dell’accesso gratuito almeno alle lauree triennali. Ecco, queste proposte, se realizzate, magari potrebbero rendere concreti i sogni e le speranze di tanti tra quei 580mila maturandi del 2017 che potrebbero aver già deciso di mollare.
Fonte
Noto con sempre maggiore piacere che determinate voci critiche si stanno espandendo anche nell'universo "mainstream".
Con dispiacere direttamente proporzionale, tuttavia, devo registrare che continua a essere messa da parte, oppure sfugge completamente, l'analisi circa le cause della situazione descritta.
Una carenza macroscopica che vanifica qualsivoglia soluzione al pessimo stato di cose presenti, eppure i dati sono tutti sotto mano e dibattuti.
Sarebbe sufficiente domandarsi come mai, a livello comunitario, gli investimenti in formazione e cultura siano perfettamente speculari alla divisione produttiva che vede in testa il blocco tedesco, a seguire quello francofono e fanalino di coda l'area mediterranea...
Penso sarebbe sufficiente un po' di onestà intellettuale per riconoscere che la regressione sociale e culturale è l'orizzonte che l'UE ha assegnato al nostro Paese e che le classi dirigenti nazionali hanno scientemente accettato per tutelare la propria rendita di posizione locale e per ignavia.
Quindi senza rottura di questo schema politico (che passa anche per l'affermazione di una mentalità generale agli antipodi di quella attuale stomachevolmente ben rappresentata da molti commenti in calce all'articolo presentato), non sarà mai possibile alcuna inversione di tendenza
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