Il populismo dall’alto nel nostro Paese non funziona. Questa la lucida presa d’atto di due editorialisti di rango del Corriere della Sera,
Aldo Cazzullo e Massimo Franco, sulle pagine del quotidiano in edicola
lo scorso 28 giugno.
Prima di entrare nel merito dei loro articoli,
tuttavia, credo occorra premettere alcune riflessioni sul quadro
politico globale che è venuto delineandosi nella prima metà dell’anno in
corso. Dopo le batoste incassate con la
Brexit, l’elezione di Trump e il disastroso (per Renzi) esito del
referendum italiano sulle riforme costituzionali, e a fronte delle
apprensioni generate dall’ascesa di movimenti antiglobalisti di sinistra
e di destra (da Sanders a Mélenchon, passando per Podemos e Marine Le
Pen), abbiamo assistito al progressivo rinsaldarsi di un fronte
“antipopulista” mondiale costituito dai maggiori partiti tradizionali
(conservatori, socialdemocratici, centristi), non di rado uniti in
grandi coalizioni trasversali, e sostenuto a spada tratta da tutti i
media mainstream.
Il dato interessante è che questa Santa Alleanza, mentre in alcuni
casi ha ottenuto risultati mediocri (vedi il mancato trionfo
conservatore ai danni di Corbyn), ha funzionato alla grande laddove, a
guidare la controffensiva, non sono stati i vecchi partiti, bensì, come è
avvenuto in Francia, formazioni inedite camuffate da movimenti
anticasta e guidate da giovani leader (Macron) abili nel giocare a loro
volta la carta del leader carismatico (populismi dall’alto, li ho
definiti in apertura di articolo, a significare che, mentre adottano lo
“stile” populista, hanno orientamenti politici opposti ai movimenti che
tentano di mobilitare il popolo contro le élite).
L’eccezionalità del caso Macron, argomenta giustamente Cazzullo,
consiste nel fatto che il personaggio è sì figlio della domanda di
rinnovamento dei francesi, ma anche dell’establishment. È, per usare le
sue parole, “l’uomo su cui l’establishment ha puntato per
intercettare la volontà di cambiamento e nello stesso tempo salvare se
stesso” (cambiare tutto per non cambiare nulla o, per usare una
categoria gramsciana, scongiurare le velleità rivoluzionarie innescando
una rivoluzione passiva). Non è che in Francia manchi lo spirito
antisistema, aggiunge ancora Cazzullo, è che il sistema – in primis le
istituzioni dello Stato – sono (ancora?) abbastanza solidi per reggere
alla sfida dei Mélenchon e delle Le Pen e della protesta sociale che si
profila dietro i loro movimenti. In Italia questa solidità non esiste né
si vede all’orizzonte nessun Macron in grado di svolgere il ruolo di
salvatore della Patria (leggi dell’establishment).
È difficile non vedere, dietro quest’ultima annotazione, un segno
della crescente sfiducia della grande borghesia nostrana nei confronti
dell’uomo, Matteo Renzi, che avevano sperato potesse dare a sua volta
vita a un populismo dall’alto in grado di arginare il conflitto sociale.
Una sfiducia che traspare anche dall’articolo che Massimo Franco
dedica, nella pagina a fianco, alla crescente irritazione generata,
dentro e fuori il suo partito, dall’ostinazione con cui Renzi persegue
contro tutto e tutti l’obiettivo di tornare al potere contando solo
sulle forze dei suoi fedelissimi. Ma per riuscirci occorrerebbe (ma non è
detto basterebbe): 1) disfarsi del Pd per costruire quel partito della
Nazione di cui lo stesso Renzi va vociferando da tempo; 2) godere dello
stesso consenso e della stessa popolarità (nel Paese e non solo nel suo
partito) di cui gode Macron. Per la prima operazione il tempo è
scaduto (nel senso che non è pensabile realizzarla prima delle
elezioni), quanto al secondo requisito è evidente che Renzi non sembra
all’altezza di Macron.
Ciò detto, né Cazzullo né Franco sembrano avere le idee chiare sul
“che fare” il che, mentre è preoccupante per l’establishment Liblab
nostrano, potrebbe essere una buona notizia per chi si propone di
abbatterlo. Purtroppo, nemmeno in questo campo si vedono forze politiche
e leader all’altezza del compito.
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