di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Washington mette sul
tavolo un nuovo attacco al governo siriano. Lo fa, come in passato,
brandendo il presunto uso di armi chimiche, anzi, l’intenzione (anche
questa presunta, atto del tutto nuovo anche per gli Usa) a usarle: ieri
il Pentagono ha detto di aver «identificato potenziali attività
preparatorie per un altro attacco a base di gas da parte del regime di
Assad». La Casa bianca ha completato la minaccia: Assad «pagherà un
prezzo alto».
Nessun dettaglio, solo indiscrezioni sulla Cbs:
fonti anonime Usa parlano di «attività sospette» in un bunker della base
di Shayrat (colpita il 6 aprile a sorpresa dal presidente Trump) e di
conversazioni interne siriane che però potrebbero riferirsi a
«ispezioni» della base ormai semi distrutta, e non a ricette per
sfornare gas.
Due mesi e mezzo fa i 59 missili Tomahawk furono giustificati come
reazione ad un presunto attacco chimico governativo nel villaggio di
Khan Sheikhoun. Di quell’attacco prove non ne furono portate e mai si aprì un’inchiesta indipendente:
inizialmente bloccata dal veto della Russia in Consiglio di Sicurezza,
fu poi richiesta da Mosca su basi diverse. Ovvero l’ispezione sia della
base da cui sarebbe partito l’attacco sia del luogo del raid.
Vista l’oggettiva difficoltà a comprendere quale logica
muoverebbe Damasco verso l’uso di armi chimiche, dopo l’accordo del 2013
con l’Onu e la consapevolezza delle reazioni internazionali, chiaro è
solo l’obiettivo di Trump: far salire la tensione bellica per indebolire l’asse avversario, guidato da russi e iraniani.
Non basta liberare Raqqa, il raggio va allargato alla capitale. Così a
maggio scaramucce dal forte significato simbolico hanno investito la
frontiera sud tra Siria e Iraq (raid Usa hanno colpito le milizie sciite
pro-Assad) e la stessa provincia di Raqqa (l’aviazione Usa ha abbattuto
un jet governativo).
La minaccia di ieri è tanto politica da aver sorpreso anche
funzionari del Dipartimento della Difesa e il comando centrale Usa in
Medio Oriente (dipendente dal Pentagono) che ieri si diceva all’oscuro
della questione, non avendo ricevuto informazioni simili.
Mosca e Damasco hanno subito rigettato le accuse, definendo la
minaccia «inaccettabile» e respingendo l’espressione «altro attacco
chimico», utilizzata – dice la Russia – per far passare l’idea che ce ne
sia stato uno in precedenza.
Sarà invece un’inchiesta interna statunitense ad indagare sulla
strage compiuta ieri dalla coalizione a Mayadeen, città 45 km a sud di
Deir Ezzor (roccaforte Isis), lungo le sponde dell’Eufrate: circa
60 persone sono morte nel bombardamento di una prigione dell’Isis.
All’interno, dunque, non stavano miliziani islamisti – se non alcuni
secondini – ma detenuti di Daesh, civili. Secondo fonti locali, almeno 42 prigionieri sono stati uccisi, insieme a 15 jihadisti.
Il Pentagono smentisce a metà: credevamo – ha detto
il portavoce della coalizione, Joe Scrocca – che si trattasse di centri
di comando dell’Isis. E, ha aggiunto, l’operazione è stata
«meticolosamente preparata per ridurre il rischio di danni collaterali e
potenziali danni a civili».
Eppure la prigione era nota ai locali e alle forze sul campo come
carcere per non combattenti, per civili arrestati dallo Stato Islamico. Morti che si aggiungono al drammatico bilancio dell’ong Airwars,
in drastico aumento tra Siria e Iraq da quando Trump è alla Casa
bianca: 1.223 a giugno, 1.326 a maggio, 1.205 ad aprile, ben 1.805 a
marzo e 465 a gennaio.
Quattro, cinque volte i morti prodotti da Obama, numeri che svelano la fretta
di archiviare vittorie contro lo Stato Islamico, a scapito di Mosca e
Teheran.
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