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26/06/2017

L’Unione Europea nella globalizzazione (prima parte)

USA: lo stato profondo

Quest’articolo ha uno scopo delimitato: esaminare gli orientamenti e le iniziative degli organi dell’Unione Europea (UE), o di suoi influenti rappresentanti, relativamente all’attuale fase della globalizzazione, dopo che dagli USA il presidente Trump ha fatto risuonare il grido America first! Una prima reazione di commentatori, di esperti e anche di militanti della sinistra anticapitalista ha frettolosamente affermato che il ciclo della globalizzazione si era ormai chiuso e ha profetizzato il ritorno al protezionismo a difesa degli interessi nazionali. Dunque, fine imminente della globalizzazione e rinascita dei conflitti tra Stati nazionali, chiamati a sostenere i rispettivi capitalismi. Paradossalmente queste posizioni tradiscono una visione tipica dell’ideologia liberale che da Montesquieu in poi ha esaltato il dolce commercio come base per costruire relazioni armoniche e pacifiche tra nazioni ad economia capitalistica, dimenticando che nel mercato mondiale da sempre si sono svolti e, nella sua attuale fase di globalizzazione, si svolgono azioni sia di cooperazione sia di conflitto, anche militare, tra grandi spazi economico-politici. Il secondo paradosso di chi prevede il risorgere dei capitalismi nazionali è che si confonde la globalizzazione dell’età contemporanea con quella di fine Ottocento. Non volendo ergermi a esperto della materia, né ridurmi a utilizzare facili slogan mi rifaccio alle parole usate, in una conferenza alla Bocconi il 13 marzo 2017, da Richard Baldwin che, da indefesso sostenitore del capitalismo globalizzato, ne ha saputo mettere in luce le nuove caratteristiche: “La vecchia globalizzazione riguardava prodotti finiti che varcavano i confini, era una competizione tra settori industriali di paesi diversi. Nella nuova globalizzazione non è semplicemente un settore ad essere sfidato dalla concorrenza straniera, ma è una singola fase della produzione, che infatti viene spostata all’estero. A varcare i confini è il know how non il prodotto”. Ciò sta a significare che a varcare i confini, oltre alle merci finite, sono i prodotti semilavorati, infatti per prime le aziende USA non producono più in patria le merci, e anche molti servizi legati alle TLC, realizzandovi solo alcune fasi quali la progettazione, la logistica, a volte l’assemblaggio finale, il marketing. Per questo, conclude Baldwin, se Trump eleva barriere tariffarie rende più costose le merci di cui le imprese USA hanno delocalizzato la produzione. Se Trump innalzerà barriere tariffarie l’effetto sarà che le imprese statunitensi produrranno le merci per il mercato interno in patria e “sposteranno all’estero le produzioni per i mercati asiatici ed europei”. La delocalizzazione, con la creazione di catene produttive lunghe, è stata resa possibile dalla mobilità dei capitali, i cui vincoli vennero meno con la fine del sistema di Bretton Woods tra il 1971 e il 1973.

L’uso di misure per danneggiare i concorrenti sono una costante della storia del capitalismo, e anche in questa epoca di globalizzazione rappresentano un’arma, nei limiti delle regole del WTO e degli accordi commerciali bilaterali, per fiaccare la concorrenza delle merci ‘straniere’ nei mercati nazionali. Come risulta dagli studi dell’OCSE, è difficile però distinguere le merci di produzione completamente autoctona da quelle che risultano da produzioni in cui le imprese locali hanno dato il loro contributo. Un computer o uno smartphone, o un auto non sono il prodotto di una singola impresa in un singolo paese: è il risultato di una filiera produttiva transnazionale. Quale parte del prodotto nazionale si protegge elevando tariffe ai confini?

Per quanto si possano utilizzare le tariffe per proteggere produzioni locali, sarà difficile ergere dei muri scavalcati dalle imprese capitalistiche globalizzate. È naturale che queste cerchino tutte le vie per rafforzarsi e se in alcuni settori è possibile ergere barriere per impedire a imprese concorrenti di mettere piede nei propri mercati, le si costruiscono. In quest’ottica, a mio parere, si devono leggere i dati sulle misure protezionistiche che, soprattutto, durante la Grande Recessione sono state adottate. Da Info Data, sul sito de Il Sole 24 Ore, risulta che dal 2008 al 2016 nei paesi del G20 siano state elevate ben 3550 misure protezionistiche, ma si badi bene, esse per circa un quarto esonerano quei prodotti o servizi realizzati per almeno una certa percentuale all’interno del paese. Queste esenzioni riguardano soprattutto i mezzi di trasporti e l’elettronica. In altri casi, laddove si cerca di proteggere le produzioni locali, si è fatto ricorso a strumenti non strettamente tariffari ma di natura regolamentare quali l’etichettatura o le moltiplicazione delle prescrizioni doganali. A essere attivi  sono proprio i paesi che più sono immersi nel processi di globalizzazione come gli USA e la Cina, che dunque provano a meglio posizionarsi nella competizione economica.

Trump, se mai riuscirà a durare nel suo mandato presidenziale superando le trappole che tende a sé stesso, ha condotto la campagna elettorale sulla base di un programma di acceso protezionismo – opzione ribadita anche nel suo discorso di insediamento. Tuttavia le imprese statunitensi sono tra quelle più internazionalizzate, da Apple a Walmart passando per le grandi banche, per questo in successive dichiarazioni si avverte un cambiamento di tono sotto l’influenza del deep state, lo stato profondo, come lo si chiama per indicare l’establishment parlamentare, le Corti, le grandi Agenzie pubbliche, il Dipartimento di Stato, il Pentagono e le lobby economico-finanziarie dalla cui interazione scaturisce la politica USA nel lungo termine.

In ogni caso la politica di Trump è l’espressione della volontà di accentuare la competizione tra il capitalismo transnazionale statunitense e quello degli altri grandi spazi, al fine di perpetuare con la minaccia del potenziale economico e militare la supremazia degli USA. Difficile sarà per gli USA sottrarsi alle regole internazionali a cominciare da quelle del WTO. A queste tutti devono sottostare, anche se Trump preferirebbe siglare accordi con singoli paesi senza la clausola di ‘nazione preferita’ per evitare, come prescrive la normativa del WTO, l’estensione a tutti i paesi di livelli tariffari concordati bilateralmente. Gli sarà possibile realizzare la distruzione degli accordi commerciali multilaterali? Molto difficile. La difficoltà traspare già in una delle tante, quanto fluttuanti, dichiarazioni come nell’intervista rilasciata l’11 maggio all’Economist, sul cui sito se ne può leggere la trascrizione integrale. Trump, assistito da Steve Mnuchin, segretario di Stato al Tesoro, e da Gary Cohn, presidente del National Economic Council, ha usato quest’occasione per innestare la retromarcia sulla cancellazione del Trattato NAFTA annunciando di aver dato sei mesi al Messico e al Canada per ricontrattarne le clausole, a suo avviso squilibrate a svantaggio degli USA. Trump si professa sostenitore del libero commercio, le cui regole però vorrebbe a dettarle lui a nome degli USA. Nell’intervista all’Economist Trump non rivolge più alla Cina le accuse di manipolare la sua valuta per favorire le esportazioni; anzi, con l’assenso di Mnuchin, Trump la elogia per aver abbandonato la politica manipolatoria del cambio da quando lui è presidente. E alle parole sono seguiti i fatti: il 12 maggio è stato annunciato un accordo commerciale USA-Cina in dieci punti. L’accordo tocca settori sensibili, perché oltre allo scambio delle carni (manzi statunitensi contro polli cinesi), si aprono i confini alle esportazioni USA di gas naturale e a quelle dei servizi finanziari finora chiusi a doppia mandata dalla Cina. A loro volta gli USA aprono le frontiere agli investimenti diretti della Cina, indispensabili a questa per venire in possesso delle tecnologie produttive di cui gli USA sono all’avanguardia. Nonostante il deficit commerciale di ben 347 miliardi, gli USA hanno siglato un accordo commerciale proprio con quella potenza economica in grado di mettere in discussione la secolare supremazia economica statunitense.

Ancora fatti, a indicazione che gli USA non si isolano dal mondo: il viaggio in Arabia Saudita. Al centro delle discussioni con la monarchia reazionaria è il progetto di una NATO araba sotto la guida di Riad che potrebbe vedere l’adesione di 32 paesi, con il risultato di alleggerire il peso economico e militare USA nella regione, e con l’effetto collaterale di promuovere la vendita di armamenti ai paesi della nuova alleanza. Attraverso il discorso di Trump del 21 maggio di fronte a 55 leader arabi, il deep state ha enunciato la sua nuova dottrina: il principled Realism, il ‘realismo di principio’, a significare che gli USA non vogliono esportare i valori occidentali e la ‘democrazia’ (linea Clinton-Obama), garantendo però la sicurezza nel Medio Oriente da perseguire con la sconfitta dell’ISIS e la messa all’angolo dell’Iran.

A Riad, con la geopolitica si sono intrecciati gli affari, con contratti per 110 miliardi per la fornitura all’Arabia Saudita di sistemi missilistici, aerei e navi militari. Affari non solo per l’industria degli armamenti, perché Trump era accompagnato dai rappresentanti di colossi statunitensi come General Electric, Dow Chemical, Honeywell per nominare i più famosi. Gli Usa non si isolano e vogliono continuare a tessere affari in tutto il mondo. Come ha spiegato Gary Cohn, lo stesso che assisteva Trump durante l’intervista con l’Economist: “l’idea è di avere i sauditi che investono molto negli Stati Uniti e aziende americane che investono qui, in particolare in progetti infrastrutturali. Big dollars” (Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2017). E i big dollars  per le imprese USA ammontano a 290 miliardi, stando alle cifre fornite da Trump nel discorso del 21 maggio. Gli USA vogliono promuovere la presenza delle proprie imprese in ogni parte del mondo, dettando anche le regole degli scambi: più che isolazionismo, parlerei di un rilancio dell’egemonismo.

La Cina ha difeso la globalizzazione non solo nei fori internazionali di Davos e del G20 con le parole (che pure contano), ma volendo imprimerle il proprio segno con il ‘progetto del secolo’: la nuova Via della Seta – One Belt One Road – con investimenti giganteschi per costruire infrastrutture per il  trasporto di merci e persone per mare e per terra, per la produzione e distribuzione di energia (dal petrolio al gas). Il progetto abbraccia quasi l’intero globo e coinvolge 4,5 miliardi di persone, che vivono in paesi che rappresentano il 30 % del PIL mondiale, con investimenti di un valore complessivo stimato in 1400 miliardi di dollari. L’Italia è tra i primi paesi ad avere aderito al progetto e conta di inserirvi il proprio sistema portuale che potrebbe riservarsi il ruolo di hub logistico per l’intera Europa.

Nel G7 di Taormina la strategia del deep state è emersa ancor più chiaramente: globalizzazione sì ma commercio ‘equo’, a dire che gli USA si propongono di riequilibrare a favore delle proprie imprese il commercio mondiale e per questo contrasteranno quelle politiche che a loro avviso ne minano la competitività. Per questo Trump ha usato toni duri verso la Germania, rea di esportare troppo, e ha accettato i giudizi positivi del Communiqué  sulla globalizzazione, mentre ha imposto quelli sul riequilibrio commerciale e fatto sancire una politica fortemente restrittiva e repressiva verso i migranti; soprattutto, ha messo nero su bianco che sulla questione clima e i relativi Accordi di Parigi c’è un dissenso netto perché questi determinano costi eccessivi per le imprese USA, a vantaggio di quelle dei paesi emergenti quali la Cina e l’India.

Insomma la globalizzazione lungi dall’approssimarsi alla sua fine, diviene sempre di più il terreno di un’aspra competizione innanzitutto economica, che può tuttavia giungere al confronto militare come nei mari asiatici, e in guerra come nel caso del Medio Oriente. La globalizzazione non ha istituito spazi aperti per il libero e pacifico commercio, sono spazi in cui si svolgono competizioni economiche e conflitti politici, e quando necessari militari.  Per essere attori sulla scena globale occorrono sistemi capitalistici che dominino grandi spazi – USA, Cina, UE – o siano in possesso di potenti apparati militari come la Russia. (segue)

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