USA: lo stato profondo
Quest’articolo ha uno scopo delimitato: esaminare gli orientamenti e
le iniziative degli organi dell’Unione Europea (UE), o di suoi influenti
rappresentanti, relativamente all’attuale fase della globalizzazione,
dopo che dagli USA il presidente Trump ha fatto risuonare il grido America first!
Una prima reazione di commentatori, di esperti e anche di militanti
della sinistra anticapitalista ha frettolosamente affermato
che il ciclo della globalizzazione si era ormai chiuso e ha
profetizzato il ritorno al protezionismo a difesa degli interessi
nazionali. Dunque, fine imminente della globalizzazione e rinascita dei
conflitti tra Stati nazionali, chiamati a sostenere i rispettivi
capitalismi. Paradossalmente queste posizioni tradiscono una visione
tipica dell’ideologia liberale che da Montesquieu in poi ha esaltato il dolce commercio
come base per costruire relazioni armoniche e pacifiche tra nazioni ad
economia capitalistica, dimenticando che nel mercato mondiale da sempre
si sono svolti e, nella sua attuale fase di globalizzazione, si svolgono
azioni sia di cooperazione sia di conflitto, anche militare, tra grandi spazi
economico-politici. Il secondo paradosso di chi prevede il risorgere
dei capitalismi nazionali è che si confonde la globalizzazione dell’età
contemporanea con quella di fine Ottocento. Non volendo ergermi a
esperto della materia, né ridurmi a utilizzare facili slogan mi rifaccio
alle parole usate, in una conferenza alla Bocconi il 13 marzo
2017, da Richard Baldwin che, da indefesso sostenitore del capitalismo
globalizzato, ne ha saputo mettere in luce le nuove caratteristiche: “La
vecchia globalizzazione riguardava prodotti finiti che varcavano i
confini, era una competizione tra settori industriali di paesi diversi.
Nella nuova globalizzazione non è semplicemente un settore ad essere
sfidato dalla concorrenza straniera, ma è una singola fase della
produzione, che infatti viene spostata all’estero. A varcare i confini è
il know how non il prodotto”. Ciò sta a significare che a
varcare i confini, oltre alle merci finite, sono i prodotti
semilavorati, infatti per prime le aziende USA non producono più in
patria le merci, e anche molti servizi legati alle TLC, realizzandovi
solo alcune fasi quali la progettazione, la logistica, a volte
l’assemblaggio finale, il marketing. Per questo, conclude Baldwin, se
Trump eleva barriere tariffarie rende più costose le merci di cui le
imprese USA hanno delocalizzato la produzione. Se Trump innalzerà
barriere tariffarie l’effetto sarà che le imprese statunitensi
produrranno le merci per il mercato interno in patria e “sposteranno
all’estero le produzioni per i mercati asiatici ed europei”. La
delocalizzazione, con la creazione di catene produttive lunghe, è stata
resa possibile dalla mobilità dei capitali, i cui vincoli vennero meno
con la fine del sistema di Bretton Woods tra il 1971 e il 1973.
L’uso di misure per danneggiare i concorrenti sono una costante della
storia del capitalismo, e anche in questa epoca di globalizzazione
rappresentano un’arma, nei limiti delle regole del WTO e degli accordi
commerciali bilaterali, per fiaccare la concorrenza delle merci
‘straniere’ nei mercati nazionali. Come risulta dagli studi dell’OCSE, è
difficile però distinguere le merci di produzione completamente
autoctona da quelle che risultano da produzioni in cui le imprese locali
hanno dato il loro contributo. Un computer o uno smartphone, o un auto
non sono il prodotto di una singola impresa in un singolo paese: è il
risultato di una filiera produttiva transnazionale. Quale parte del
prodotto nazionale si protegge elevando tariffe ai confini?
Per quanto si possano utilizzare le tariffe per proteggere produzioni
locali, sarà difficile ergere dei muri scavalcati dalle imprese
capitalistiche globalizzate. È naturale che queste cerchino tutte le vie
per rafforzarsi e se in alcuni settori è possibile ergere barriere per
impedire a imprese concorrenti di mettere piede nei propri mercati, le
si costruiscono. In quest’ottica, a mio parere, si devono leggere i dati
sulle misure protezionistiche che, soprattutto, durante la Grande
Recessione sono state adottate. Da Info Data, sul sito de Il Sole 24 Ore,
risulta che dal 2008 al 2016 nei paesi del G20 siano state elevate ben
3550 misure protezionistiche, ma si badi bene, esse per circa un quarto
esonerano quei prodotti o servizi realizzati per almeno una certa
percentuale all’interno del paese. Queste esenzioni riguardano
soprattutto i mezzi di trasporti e l’elettronica. In altri casi, laddove
si cerca di proteggere le produzioni locali, si è fatto ricorso a
strumenti non strettamente tariffari ma di natura regolamentare quali
l’etichettatura o le moltiplicazione delle prescrizioni doganali. A
essere attivi sono proprio i paesi che più sono immersi nel processi di
globalizzazione come gli USA e la Cina, che dunque provano a meglio
posizionarsi nella competizione economica.
Trump, se mai riuscirà a durare nel suo mandato presidenziale
superando le trappole che tende a sé stesso, ha condotto la campagna
elettorale sulla base di un programma di acceso protezionismo – opzione
ribadita anche nel suo discorso di insediamento. Tuttavia le imprese
statunitensi sono tra quelle più internazionalizzate, da Apple a Walmart
passando per le grandi banche, per questo in successive dichiarazioni
si avverte un cambiamento di tono sotto l’influenza del deep state,
lo stato profondo, come lo si chiama per indicare l’establishment
parlamentare, le Corti, le grandi Agenzie pubbliche, il Dipartimento di
Stato, il Pentagono e le lobby economico-finanziarie dalla cui
interazione scaturisce la politica USA nel lungo termine.
In ogni caso la politica di Trump è l’espressione della volontà di
accentuare la competizione tra il capitalismo transnazionale
statunitense e quello degli altri grandi spazi, al fine di
perpetuare con la minaccia del potenziale economico e militare la
supremazia degli USA. Difficile sarà per gli USA sottrarsi alle regole
internazionali a cominciare da quelle del WTO. A queste tutti devono
sottostare, anche se Trump preferirebbe siglare accordi con singoli
paesi senza la clausola di ‘nazione preferita’ per evitare, come
prescrive la normativa del WTO, l’estensione a tutti i paesi di livelli
tariffari concordati bilateralmente. Gli sarà possibile realizzare la
distruzione degli accordi commerciali multilaterali? Molto difficile. La
difficoltà traspare già in una delle tante, quanto fluttuanti,
dichiarazioni come nell’intervista rilasciata l’11 maggio all’Economist,
sul cui sito se ne può leggere la trascrizione integrale. Trump,
assistito da Steve Mnuchin, segretario di Stato al Tesoro, e da Gary
Cohn, presidente del National Economic Council, ha usato
quest’occasione per innestare la retromarcia sulla cancellazione del
Trattato NAFTA annunciando di aver dato sei mesi al Messico e al Canada
per ricontrattarne le clausole, a suo avviso squilibrate a svantaggio
degli USA. Trump si professa sostenitore del libero commercio, le cui
regole però vorrebbe a dettarle lui a nome degli USA. Nell’intervista
all’Economist Trump non rivolge più alla Cina le accuse di
manipolare la sua valuta per favorire le esportazioni; anzi, con
l’assenso di Mnuchin, Trump la elogia per aver abbandonato la politica
manipolatoria del cambio da quando lui è presidente. E alle parole sono
seguiti i fatti: il 12 maggio è stato annunciato un accordo commerciale
USA-Cina in dieci punti. L’accordo tocca settori sensibili, perché oltre
allo scambio delle carni (manzi statunitensi contro polli cinesi), si
aprono i confini alle esportazioni USA di gas naturale e a quelle dei
servizi finanziari finora chiusi a doppia mandata dalla Cina. A loro
volta gli USA aprono le frontiere agli investimenti diretti della Cina,
indispensabili a questa per venire in possesso delle tecnologie
produttive di cui gli USA sono all’avanguardia. Nonostante il deficit
commerciale di ben 347 miliardi, gli USA hanno siglato un accordo
commerciale proprio con quella potenza economica in grado di mettere in
discussione la secolare supremazia economica statunitense.
Ancora fatti, a indicazione che gli USA non si isolano dal mondo: il
viaggio in Arabia Saudita. Al centro delle discussioni con la monarchia
reazionaria è il progetto di una NATO araba sotto la guida di Riad che
potrebbe vedere l’adesione di 32 paesi, con il risultato di alleggerire
il peso economico e militare USA nella regione, e con l’effetto
collaterale di promuovere la vendita di armamenti ai paesi della nuova
alleanza. Attraverso il discorso di Trump del 21 maggio di fronte a 55
leader arabi, il deep state ha enunciato la sua nuova dottrina: il principled Realism,
il ‘realismo di principio’, a significare che gli USA non vogliono
esportare i valori occidentali e la ‘democrazia’ (linea Clinton-Obama),
garantendo però la sicurezza nel Medio Oriente da perseguire con la
sconfitta dell’ISIS e la messa all’angolo dell’Iran.
A Riad, con la geopolitica si sono intrecciati gli affari, con
contratti per 110 miliardi per la fornitura all’Arabia Saudita di
sistemi missilistici, aerei e navi militari. Affari non solo per
l’industria degli armamenti, perché Trump era accompagnato dai
rappresentanti di colossi statunitensi come General Electric, Dow
Chemical, Honeywell per nominare i più famosi. Gli Usa non si isolano e
vogliono continuare a tessere affari in tutto il mondo. Come ha spiegato
Gary Cohn, lo stesso che assisteva Trump durante l’intervista con l’Economist:
“l’idea è di avere i sauditi che investono molto negli Stati Uniti e
aziende americane che investono qui, in particolare in progetti
infrastrutturali. Big dollars” (Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2017). E i big dollars
per le imprese USA ammontano a 290 miliardi, stando alle cifre fornite
da Trump nel discorso del 21 maggio. Gli USA vogliono promuovere la
presenza delle proprie imprese in ogni parte del mondo, dettando anche
le regole degli scambi: più che isolazionismo, parlerei di un rilancio
dell’egemonismo.
La Cina ha difeso la globalizzazione non solo nei fori internazionali
di Davos e del G20 con le parole (che pure contano), ma volendo
imprimerle il proprio segno con il ‘progetto del secolo’: la nuova Via
della Seta – One Belt One Road – con investimenti giganteschi
per costruire infrastrutture per il trasporto di merci e persone per
mare e per terra, per la produzione e distribuzione di energia (dal
petrolio al gas). Il progetto abbraccia quasi l’intero globo e coinvolge
4,5 miliardi di persone, che vivono in paesi che rappresentano il 30 %
del PIL mondiale, con investimenti di un valore complessivo stimato in
1400 miliardi di dollari. L’Italia è tra i primi paesi ad avere aderito
al progetto e conta di inserirvi il proprio sistema portuale che
potrebbe riservarsi il ruolo di hub logistico per l’intera Europa.
Nel G7 di Taormina la strategia del deep state è emersa
ancor più chiaramente: globalizzazione sì ma commercio ‘equo’, a dire
che gli USA si propongono di riequilibrare a favore delle proprie
imprese il commercio mondiale e per questo contrasteranno quelle
politiche che a loro avviso ne minano la competitività. Per questo Trump
ha usato toni duri verso la Germania, rea di esportare troppo, e ha
accettato i giudizi positivi del Communiqué sulla
globalizzazione, mentre ha imposto quelli sul riequilibrio commerciale e
fatto sancire una politica fortemente restrittiva e repressiva verso i
migranti; soprattutto, ha messo nero su bianco che sulla questione clima
e i relativi Accordi di Parigi c’è un dissenso netto perché questi
determinano costi eccessivi per le imprese USA, a vantaggio di quelle
dei paesi emergenti quali la Cina e l’India.
Insomma la globalizzazione lungi dall’approssimarsi alla sua fine,
diviene sempre di più il terreno di un’aspra competizione innanzitutto economica, che può tuttavia giungere al confronto militare come nei
mari asiatici, e in guerra come nel caso del Medio Oriente. La
globalizzazione non ha istituito spazi aperti per il libero e pacifico
commercio, sono spazi in cui si svolgono competizioni economiche e
conflitti politici, e quando necessari militari. Per essere attori
sulla scena globale occorrono sistemi capitalistici che dominino grandi spazi – USA, Cina, UE – o siano in possesso di potenti apparati militari come la Russia. (segue)
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