L’accordo sul nord-est della Siria raggiunto martedì a Sochi da Erdogan e Putin potrebbe avere creato, per la prima volta in oltre otto anni di guerra, le condizioni per una risoluzione definitiva del conflitto nel paese mediorientale. A mettere il sigillo sui nuovi scenari che si stanno delineando è stato lo stesso presidente della Turchia, i cui interessi, come ha ben compreso il suo omologo russo, sono stati decisivi per creare un equilibrio sostanzialmente favorevole anche a Mosca e Damasco. Erdogan, cioè, ha salutato dal Mar Nero l’ingresso in una “nuova fase”, pianificata per portare finalmente la pace in tutta la Siria.
In un delicato gioco diplomatico, i leader di Russia e Turchia sono riusciti a far quadrare il cerchio nonostante le posizioni teoricamente opposte sullo scacchiere siriano. Con l’approssimarsi dello scadere del cessate il fuoco, ufficialmente negoziato settimana scorsa dal vice-presidente USA Pence ad Ankara, Erdogan e Putin hanno concordato una serie di punti attorno ai quali si deciderà probabilmente la sorte del conflitto.
La Turchia otterrà alla fine la sua “zona di sicurezza” in territorio siriano per tenere lontana la minaccia del separatismo curdo. L’area-cuscinetto non sarà ampia come inizialmente auspicato da Erdogan, ma la presenza oltre questa porzione di territorio delle forze governative siriane, assieme alle garanzie di Mosca, saranno sufficienti a soddisfare le esigenze turche.
La polizia militare russa e le guardie di frontiera siriane dovranno rimuovere entro sei giorni la presenza delle milizie curde dell’YPG dall’area di confine sotto il controllo turco, profonda 32 km e lunga 120. In seguito, le forze russe e turche condurranno pattugliamenti congiunti per assicurare il rispetto delle condizioni stabilite a Sochi. In seguito all’accordo, nella giornata di mercoledì, i vertici delle forze armate turche hanno annunciato la sospensione delle operazioni militari in Siria nord-orientale.
Per Erdogan, dunque, l’intesa con Putin rappresenta un sostanziale successo, soprattutto se si considerano le circostanze che si erano venute a creare dopo anni di politiche siriane oggettivamente irresponsabili. La rinuncia al cambio di regime a Damasco e la condivisione con la Russia, oltre che con gli Stati Uniti, del ruolo di potenza in grado di influenzare gli equilibri mediorientali sono in definitiva un prezzo accettabile per la leadership turca. In cambio, Ankara si ritrova con una partnership strategica, militare ed economica con Mosca in fase di consolidamento e fondamentale nel quadro dell’impulso all’integrazione euro-asiatica al centro dell’attenzione di Erdogan.
Dal punto di vista russo, il risultato più importante dell’accordo stipulato a Sochi consiste appunto nell’avere ottenuto il rispetto turco per “l’integrità territoriale” e “l’unità politica” della Siria, nonché il riconoscimento del processo di pacificazione per mezzo del “Comitato Costituzionale Siriano”, i cui lavori dovrebbero partire nei prossimi giorni a Ginevra.
L’impegno diplomatico di Mosca si è basato in buona parte sul cosiddetto accordo di Adana, siglato nel 1998 tra Siria e Turchia e tuttora in vigore, che stabiliva le modalità della collaborazione tra i due paesi e le facoltà assegnate ad Ankara nell’intervenire oltre i propri confini meridionali per gestire eventuali emergenze legate alle operazioni del PKK curdo.
Su questo presupposto si fondano anche e soprattutto gli auspici russi per un prossimo riavvicinamento tra Erdogan e Assad, a sua volta impossibile senza un accordo per limitare l’intervento militare turco in territorio siriano. L’altra faccia della medaglia è la questione delle milizie curde. Il ritiro del contingente militare americano ha lasciato ai curdi come unica opzione la ricerca di un accordo con Damasco, sempre con la mediazione di Putin, e l’accettazione dei termini fissati da Assad per fermare l’offensiva turca e dei gruppi armati appoggiati da Ankara. La durata dell’occupazione turca del nord della Siria è invece una questione che dovrà essere risolta in futuro, anche se Mosca e Damasco hanno già fatto intendere che nessuna forza straniera dovrà alla fine restare sul territorio siriano senza l’autorizzazione del governo.
L’incognita principale che pesa sulla sistemazione concordata a Sochi della Siria nord-orientale è rappresentata dalle decisioni del governo di Washington. Gli ambienti politici e militari americani contrari al disimpegno dalla Siria hanno già convinto Trump a mantenere 200 uomini delle forze speciali nel paese. La permanenza di questo contingente, oltre a essere illegale, crea tuttavia problemi logistici non indifferenti, visti i nuovi scenari, e soprattutto potrebbe avere sempre meno senso dal punto di vista dell’utilità strategica.
L’intenzione della Casa Bianca sarebbe quella di chiudere l’avventura bellica in Siria, sia in previsione della campagna elettorale del 2020 sia per concentrare l’attenzione della macchina da guerra USA sulla minaccia cinese. D’altro canto, non è da sottovalutare la frustrazione dei sostenitori delle mire imperialistiche americane in Medio Oriente per le dinamiche in atto in Siria che comportano vantaggi su tutti i fronti per Russia, Iran e la stessa Cina. Questi ambienti di potere negli USA eserciteranno pressioni enormi nelle prossime settimane per convincere la Casa Bianca a riconfermare il proprio impegno in Siria, soprattutto dopo che mercoledì Trump ha definito “permanente” il cessate il fuoco e deciso la cancellazione delle sanzioni imposte alla Turchia.
In termini più ampi, dall’accordo Erdogan-Putin e dall’eventuale stabilizzazione del teatro siriano, in definitiva senza il contributo americano, deriva una potenziale marginalizzazione dell’Occidente e l’emergere di un equilibrio che fa in primo luogo della Russia la potenza più influente nella regione mediorientale. Come stanno già evidenziando svariati commentatori sui media ufficiali in Europa e negli Stati Uniti, un’evoluzione strategica di questo genere rischia di avere conseguenze al di là del Medio Oriente.
In questo quadro vanno inserite le minacce dei giorni scorsi di un intervento militare decisamente massiccio provenienti da Washington e Berlino. Il segretario di Stato americano Pompeo non ha addirittura escluso, se ci fosse la necessità, di un’operazione USA contro la Turchia, cioè un alleato NATO. Il ministro della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha invece ipotizzato una forza di “stabilizzazione” NATO nel nord-est della Siria. Se anche quest’ultima ipotesi prevedrebbe una qualche collaborazione con Russia e Turchia, le reali motivazioni dell’operazione appaiono tutt’altro che pacifiche, poiché hanno a che fare con il tentativo di promuovere e difendere gli interessi europei in Medio Oriente.
Ad ogni modo, per il momento è l’asse Mosca-Ankara a offrire la migliore soluzione al disastro siriano. Se l’intesa tra Erdogan e Putin dovesse dare i propri frutti, sono in molti a vedere una più o meno imminente iniziativa congiunta per affrontare anche l’ultimo nodo irrisolto del conflitto, vale a dire la liberazione della provincia di Idlib dal controllo delle forze fondamentaliste anti-Assad, fino ad ora in grado di resistere anche grazie all’appoggio garantito a molte di esse proprio dalla Turchia di Erdogan.
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