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26/10/2019

Whirlpool: “Le nostre proposte per farne un bene comune, dei lavoratori e di tutti”

La nostra proposta per fare della Whirlpool una fabbrica “bene comune”

1. Il privato non è bello e non salva i posti di lavoro

La saga della Whirlpool è stata recitata su un copione vecchio e già visto: quando un imprenditore decide di non guadagnare abbastanza dal lavoro degli operai accampa scuse ridicole e chiude (rigorosamente dopo aver preso incentivi, sgravi e altre regalie dallo Stato). La fabbrica di Napoli lavora bene e produce lavatrici di alta gamma, ma gli azionisti hanno fame di maggiori dividendi, per cui decidono di chiudere, portarsi via i macchinari e spostare la produzione dove costa meno, magari in Polonia. Siccome il coraggio di dichiarare la chiusura non ce l’hanno, inventano una partnership con uno socio inesistente – la PRS -, che non produce niente ma possiede da una decina di anni un brevetto – container refrigerati – sul quale nessuno ha voluto investire, chissà perché (Il suo uomo di punta, l’ingegnere Alberto Ghiraldi, era già noto per aver condotto l’esperienza fallimentare della Nomos, azienda che avrebbe dovuto produrre i famigerati refrigeratori della PRS con i fondi di Finlombarda, prima di chiudere per fallimento nel 2017) .

Il manager di Whirlpool Italia, La Morgia,aveva chiuso un accordo con il Governo a Ottobre scorso, annunciando addirittura il trasferimento della produzione dalla Polonia all’Italia e investimenti per 250 mln: ora a chi gli chiede come mai abbiano fatto un passo indietro risponde che la decisione è stata imposta dai dazi USA congiunta alla saturazione del mercato europeo… Ma se i dazi erano già noti all’epoca dell’accordo, come ha fatto un mercato – ancora redditizio per altre aziende – a saturarsi in appena sei mesi? Com’è possibile che una delle più grandi multinazionali del settore non l’abbia previsto? Mistero.

Insomma, anche questa volta non abbiamo visto niente di nuovo: l’ennesimo padrone avido e approssimativo, che arraffa dove e come può e scappa non appena vede il miraggio di maggiori guadagni altrove. Pensiamo sia sufficiente mettere in fila tutte le – vere o presunte – crisi aziendali degli ultimi vent’anni per assumere che dal privato non possiamo aspettarci nulla di diverso da questo. Chi ancora spera in passi indietro o riconsiderazioni, magari in cambio di nuovi regali da parte del governo di turno, o è ingenuo o è in malafede.

2. Smettiamola di regalare soldi pubblici alle aziende private!

Quando leggiamo che lo Stato ha “salvato” dei posti di lavoro, nella migliore delle ipotesi ha allungato di qualche anno la durata dei rapporti di lavoro regalando un bel po’ di milioni dei contribuenti a qualche imprenditore piagnucolone.

Nonostante questa evidenza, chi ci governa, giallo, verde, nero o fucsia che sia, continua imperterrito a non proporre altro che questo.

Pochi giorni fa il Presidente della Regione Campania, De Luca, aveva la sfacciataggine di promettere 20 mln alla Whirlpool in forma di ulteriori vantaggi fiscali per restare a Napoli: nessuna novità, nessun progetto, solo regali per un’azienda che appena un anno fa ha mentito, annunciando di restare.

Perché accade tutto questo? Perché se c’è un dogma inviolabile nelle politiche dei governi di ogni colore è che lo Stato non deve intervenire direttamente nell’economia. Anzi, meglio: lo Stato può intervenire con sgravi fiscali, incentivi, contributi per l’ammodernamento tecnologico, basta che siano interventi in perdita, dove il pubblico si limita a elargire denaro senza esigere alcuna forma di controllo su come quel denaro viene speso. Se invece in un Governo qualcuno si azzarda a dire una banalità, cioè che se devo spendere X soldi per un’impresa tanto vale che la gestisco direttamente – così controllo come vengono spesi i soldi – scatta un coro unanime di protesta per l’insopportabile ingerenza dello Stato tra le regole auree del libero mercato. Libero mercato che è un’invenzione, perché le più grandi imprese multinazionali non esisterebbero senza essere state ingrassate da fiumi di denaro pubblico.

In Italia questo dogma folle e illogico è seguito con particolare rigore, e chi osa parlare di intervento pubblico è guardato come se fosse un pericoloso sovversivo; noi riteniamo di aver abbondantemente superato il limite della pazienza, e affermiamo con convinzione una banalità: se dobbiamo mettere mano al portafoglio – perché i soldi regalati alle imprese vengono dalle nostre tasse o sono tagliati dai nostri servizi – vogliamo il controllo pubblico sulla spesa. Se un imprenditore non è palesemente in grado di mantenere una realtà produttiva, perché accecato dal profitto, gli si dà il benservito e si dà avvio alla gestione pubblica dell’impresa.

3. Nazionalizzare è impossibile?

Quando abbiamo parlato di queste cose con gli operai abbiamo riscontrato incredulità: siamo talmente poco abituati all’idea e ci hanno raccontato talmente tante storie contro le imprese pubbliche che l’ipotesi di un controllo pubblico su una fabbrica ci sembra totalmente fuori dal campo delle possibilità. Eppure la nazionalizzazione – sì, la parola è questa – è legale, giusta, efficace, potenzialmente conveniente.§

È legale perché la Costituzione stessa prevede la possibilità di esproprio del privato per ragioni di utilità pubblica: e quale ragione migliore che salvare dei posti di lavoro ed una fabbrica nuova ed efficiente dalle mani di un privato incapace o troppo avido?

È giusto perché è giusto spendere i soldi per l’interesse collettivo: abbiamo salvato le banche che avevano speculato con oltre 20 miliardi, abbiamo rimpinguato diverse volte le casse di Alitalia depredate da pericolosi e loschi incapaci, non si capisce perché non possiamo spendere molto meno per prendere le imprese non decotte a rischio chiusura e trasformarle in imprese pubbliche, che magari producono anche utili reinvestibili.

È efficace perché costa meno dei fiumi di denaro che elargiamo alla cieca:la Treofan di Battipaglia, altra impresa chiusa, prima di essere rivenduta agli indiani fu comprata pochi anni fa da De Benedetti per la cifra ridicola di 500.000 euro. Mezzo milione vale per salvare posti di lavoro al Sud, in un’impresa che vende e fa utili? Secondo noi anche il doppio.

È conveniente. Se ciò che si produce si vende e ha mercato e se l’azienda viene gestita con attenzione e col controllo popolare di lavoratori e territorio, l’investimento si può rivelare un vero e proprio affare, paragonabile agli affari che i privati fanno quando comprano imprese in svendita. Se il privato può guadagnarci, perché non deve farlo lo Stato?

4. Nazionalizzare la Whirlpool ora!

Eppure se ne parla: negli ultimi giorni da più parti – dal sindaco di Napoli al segretario della UILM – si è fatto riferimento, esplicito o meno, alla gestione pubblica della fabbrica. Anche dal Governo, finora incapace di contrapporre alternative all’arroganza del management della multinazionale, hanno fatto trapelare l’ipotesi del cosiddetto workers’ buyout, cioè della costituzione, con i fondi previsti dalla legge Marcora, di una cooperativa di lavoratori che possa rilevare la fabbrica. In alternativa, e in modo molto ambiguo, parlano, per bocca di Patuanelli, di golden power, cioè di accompagnare la Whirlpool o un nuovo partner nella costituzione di una nuova società, immettendo quote di capitale, per poi ritirarsi. Le nostre valutazioni rispetto alle due ipotesi attualmente ventilate sono differenti.

L’ipotesi della costituzione di una cooperativa che rilevi lo stabilimento è un avanzamento rispetto alla cessione e alla chiusura, ma nasconde dei rischi: il prodotto ha bisogno di una rete di assistenza e di una presenza capillare nella GDO; la nuova fabbrica dovrebbe affrontare la concorrenza degli eventuali ex proprietari (che non lascerebbero certamente campo libero sul mercato) e la difficoltà dei rapporti con una serie di subfornitori di prelavorati e componentistica, che potrebbero essere “indotti”, dai giganti del settore, a non favorire la fabbrica “pubblica”. Insomma, se da un lato è giusto che siano le lavoratrici e i lavoratori a prendere in mano il proprio destino, dall’altro non è corretto scaricare sulle loro spalle – magari con l’anticipo da parte dell’INPS dei TFR da reinvestire nella nuova società, come previsto dalla legge Marcora – la totalità del rischio d’impresa, in un settore nel quale la fabbrica napoletana, pur mantenendo posizioni di tutto rispetto, con 300.000 pezzi di alta gamma prodotti nell’ultimo anno, impatta con l’alta competitività dei concorrenti e con una tendenziale saturazione del cosiddetto mercato del “bianco”.

Per quanto riguarda la golden power, le esperienze precedenti non sono rose e fiori, dal momento che il successo dipende essenzialmente dall’affidabilità dell’eventuale nuovo socio privato: nel caso “migliore”, quello dell’ex Alcoa di Portovesme, la produzione non è ancora effettivamente ripartita, e con essa le riassunzioni; nel caso dell’ex Irisbus, ora IIA, non sono riusciti a trovare un partner, Invitalia deve andare via l’anno prossimo e i pulman si producono, per il momento in Turchia; nel caso di Termini Imerese c’è stato un vero e proprio fallimento, con un partner, Blutec, rivelatosi completamente inaffidabile. In ogni caso, sulla soluzione pesa l’ipoteca legata all’ostinazione con cui si cercano improbabili soci privati, invece di pensare ad un serio rilancio pubblico.

La soluzione che ci sembra più adatta passa invece per un’altra strada:

• lo Stato rileva lo stabilimento dalla Whirlpool: se l’azienda statunitense ha già messo in conto la perdita di 20 milioni da elargire alla PRS per sostenere il processo di riconversione, lo Stato, anche al netto delle restituzioni previste dal Decreto Dignità, può prendersi la fabbrica a titolo gratuito o farla cedere a un euro simbolico ad una società mista costituita da capitale pubblico e quote riservate a chi, tra gli operai, voglia aderire; chi non vuole può optare per la riassunzione come lavoratore dipendente.

• Governo, lavoratori e territorio decidono insieme come continuare la produzione nel ramo, orientandola verso un prodotto a più basso tasso di penetrazione, come le asciugatrici, o riconvertendo parzialmente; in ogni caso salvando l’indotto, che arriva a circa un migliaio di addetti, partendo dal dato positivo del 300.000 pezzi prodotti nell’ultimo anno e di una capacità produttiva che arriva al milione.

• Stato ed enti locali, a partire da Comune e Regione, si impegnano per garantire alla nuova fabbrica “bene comune” tutte le eventuali commesse pubbliche – pensiamo ad esempio alle lavanderie degli ospedali, il cui servizio spesso è stato esternalizzato ma che potrebbe tornare interno con macchinari prodotti dalla nuova fabbrica – relative al settore produttivo di riferimento.

5. Un’ipotesi fattibile e realistica

Quello che abbiamo appena scritto può sembrare un sogno o un’utopia, ma in realtà è estremamente fattibile e realistica, certamente molto più realistica delle promesse di salvataggio fatte dai campioni di fallimenti. In tutta Italia ci sono oltre 100 imprese rilevate dai dipendenti, per un totale di 8000 addetti ed un fatturato di oltre 200 milioni di euro l’anno. Sono tutte nel settore manifatturiero, alcune in settori ad alta complessità tecnologica, che reggono perfettamente la sfida del mercato ed in alcuni casi vanno meglio di prima. A Casoria c’è la Screen Sud che produce telai in acciaio, rilevata da 12 operai; in Sicilia c’è la storia del Birrificio Messina, venduto dalla Heineken, rilevato dai lavoratori e poi andato così bene che la Heineken ha voluto ricomprarlo. In Francia c’è un ex fabbrica di the Lipton, i cui operai hanno vinto una battaglia contro un gigante come Unilever e da cinque anni, in cooperativa, producono, hanno riassunto gli ex dipendenti e sono tornati a fare utili.

Se gli operai da soli possono fare questo, che cosa può fare una fabbrica gestita dallo Stato, specialmente nel settore manifatturiero che è il cardine della nostra economia? È evidente a tutti, tranne agli amici dei furfanti in doppio petto, che questa soluzione è la più efficace, la più sensata, la più banale. Ha bisogno solo di un ingrediente speciale, la determinazione: ma le operaie e gli operai Whirlpool e tutta la città solidale con loro hanno dimostrato di averne a sufficienza.

6. Un imperativo categorico: salvare l’occupazione al Sud

L’urgenza di intervenire in modo serio, senza fare propaganda, si impone di fronte alla drammatica situazione occupazionale del Sud: la Whirlpool, a Napoli, resta, per dimensioni, quasi la sola vera fabbrica del territorio, che per il resto ha subito e subisce una desertificazione paurosa, per cui quotidianamente lavori produttivi, ad alto valore aggiunto e ad alta competenza, vengono distrutti e sostituiti da profili occupazioni più “poveri”: servizi alla persona, turismo e intrattenimento, edilizia. Lavori precari, se non a nero, sottopagati, fasce in cui si colloca la maggior parte degli attuali e futuri working poors... per mantenersi focalizzati su chi resta e cerca di sopravvivere senza cedere alle lusinghe della criminalità organizzata – la cui capacità di penetrazione tra i minorenni è cresciuta in maniera drammatica – o alle labili speranze legate all’emigrazione – due milioni di persone hanno lasciato il Sud negli ultimi anni, altro che “emergenza sbarchi”!

Oggi la vertenza Whirlpool è la vertenza di un’intera città – Napoli – di un’intera area del nostro paese – il Meridione – e di tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori dipendenti, in primis nel settore manifatturiero che, finora, ha “retto” sulle sue spalle l’economia del paese. Cedere un po’, si diceva, significa capitolare del tutto: noi, la città di Napoli, le classi popolari di questo paese, non abbiamo nessuna intenzione di cedere, e combatteremo questa guerra fino all’ultimo!

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