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15/10/2019

La “guerra dei dazi” è solo all’inizio

L’emersione di una certa classe politica è sempre l’indice di una “necessità storica”, non uno scherzo del destino cinico e baro. Anche e forse soprattutto quando questa classe politica è “impresentabile” secondo i canoni politically correct della fase che si è chiusa.

Vale per i Salvini e le Meloni, vale a maggior ragione per Donald Trump o Boris Johnson. Se Stati Uniti (l’imperialismo in crisi) e Gran Bretagna (l’imperialismo dominante fino a metà Novecento) si sono ridotti a far salire sul trono temporaneo personaggi del genere è perché questi pagliacci – in modo sicuramente miope e contorto – rappresentano un’esigenza neanche tanto confusa di “cambiamento” rispetto al tran tran precedente.

Il modello economico fin qui realizzato, in altri termini, è diventato insostenibile e si va a tentoni in cerca di una drastica “rettifica” in piena corsa. Con il rischio – o la certezza – di far deragliare il treno.

Ancora peggio sta chi fa finta che si possa continuare come prima, chiamando ad improbabili “fronti” che dovrebbero impedire l’avanzata dei nuovi barbari senza però modificare di una virgola la governance delle cose, fin qui andata a loro esclusivo vantaggio.

Se avete pensato a Repubblica-Corriere e Pd siete sulla buona strada, ma troppo chiusi nel teatrino italico. Se invece avere pensato all’Unione Europea e all’establishment continentale, a partire da quello tedesco, avete fatto centro pieno.

Uno dei problemi strategici dei rapporti Usa-UE è costituito dallo squilibrio struttura dei rapporti commerciali, con le importazioni Usa sistematicamente al di sopra delle esportazioni verso la UE. La “colpa” di questo squilibrio è nella scelta Usa, fin dai tempi della rottura della parità oro-dollaro (1971), di concentrarsi su servizi e finanza affidando al dollaro il ruolo di “ripianatore” di tutti gli squilibri. Lo stampavano a volontà ogni volta che serviva e così scaricavano sul resto del mondo i propri problemi. Tanto non c’era un’altra moneta altrettanto “credibile” che potesse funzionare da unità di misura dei prezzo mondiali e anche da “riserva”.

Ma quella scelta statunitense ha creato a sua volta un altro sviluppo distorto, in Europa, convincendo – i tedeschi, in primo luogo – che poteva darsi un sistema economico fondamentalmente export oriented, ossia mercantilista, caratterizzato da bassi salari e altrettanto bassa domanda interna.

Ma proprio la UE ha creato la prima moneta “competitiva” con il dollaro sul piano internazionale, erodendone parte della centralità. A seguire è arrivato anche lo yuan, che con molta più credibilità e potenza di fuoco sta facendo la stessa cosa.

A questo punto, per gli Stati Uniti pressoché de-industrializzati (in proporzione al Pil, non in cifra assoluta), il “riequilibrio” elle partite correnti è diventato un obiettivo importante. Non avendo altri strumenti, quegli imbecilli che contornano Trump hanno rispolverato una strumentazione otto-novecentesca: i dazi.

Dapprima contro la Cina, che ha reagito lucidamente tra contromisure di pari portata e nuovi accordi con gli Stati Uniti. Poi con l’Unione Europea, convinta che l’essere servizievole partner Nato fosse una garanzia di esenzione perenne.

Ma sui soldi non ci sono amici. E ora l’Unione dell’austerity e degli squilibri Nord-Sud deve fare i conti con una situazione imprevista. Non avendo neppure una unità di intenti politicamente accettabile (basta guardare il sostanziale nulla di fatto del vertice che doveva decidere lo stop alla vendita di armi alla Turchia, malamente nascosto dal bla-bla di Di Maio).

L’analisi in dettaglio, come in altri casi, è stata svolta con grande perizia da Guido Salerno Aletta su Milano Finanza.

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Dazi americani, non è che l’inizio

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Non è che l’inizio. La sventagliata di dazi americani che va a colpire una serie di merci europee a partire dal prossimo venerdì 18 ottobre, è solo la prima bordata. È come quando si va per mare: già alla prima raffica di vento va ridotta la velatura, studiando una rotta di sicurezza per mettersi al riparo. Sapendo già da tempo del fortunale in arrivo, se ci sono già danni come sta accadendo, il Comandante ne è doppiamente responsabile.

Tanto per essere chiari, a fronte di dazi per 7,5 miliardi di dollari che sono stati autorizzati dal Wto, con tariffe fino al 100% ad valorem, in questa fase ne sono stati imposti per appena 1,8 miliardi, calcolati su base annua: il peggio deve ancora arrivare. Per questo motivo, e per fortuna, in questi giorni la cautela si è fatta strada, mettendo la sordina alle tante voci maschie che chiedevano immediate ritorsioni da parte della Ue: dalla lettura delle liste dei prodotti colpiti dai dazi e dei relativi Paesi di origine emerge una strategia punitiva già pronta ad affondare nuovi colpi.

C’è poco da fare gli spiritosi, quindi, ed invece tanto da capire sulle prossime mosse americane. Anche l’Italia deve darsi una sveglia, soprattutto nei confronti della Commissione europea, perché è chiamata a condividere senza averne direttamente alcuna responsabilità e soprattutto nessun vantaggio, la questione che sta all’origine della disputa: gli aiuti di Stato al consorzio Airbus che, distorcendo la concorrenza, hanno danneggiato Boeing. La questione, che al tempo della Presidenza Obama, quando venne sollevata la controversia, era prevalentemente commerciale, per la compagnia americana è ora divenuta esistenziale: la messa a terra dei Boeing 737 Max, e le sospensioni degli ordini per via dei due incidenti occorsi, sono la conseguenza di una strategia affrettata, volta a recuperare terreno sul piano dei consumi di carburante rispetto ai velivoli europei di nuova generazione. I vantaggi iniziali, si sono moltiplicati con gli anni.

L’Unione europea, chiudendo gli occhi sulla vicenda, ha servito un ineccepibile atout alla Presidenza Trump, che da tempo chiede un riequilibrio delle relazioni commerciali: gli si è offerto un varco, pienamente legittimo sul piano della legalità internazionale, che rappresenta un ulteriore fattore di rischio per il rallentamento già in atto delle economie europee.

La stima dei danni derivanti dai dazi americani va fatta considerando che la lista dei dazi è divisa logicamente in due parti: nella prima si fa riferimento solo ai quattro Paesi che partecipano al consorzio Airbus: Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna; la seconda ha come destinatari tutti i Paesi aderenti all’Unione europea, ma con curiosissime eccezioni, visto che la Francia talora non compare. Si prepara la seconda raffica.

A parte la prima penalizzazione del 10%, quella sui velivoli, che riguarda i quattro Paesi aderenti al Consorzio Airbus, le tabelle successive sono segmentate sulla base delle vocazioni produttive di ciascuno di questi, che sono comunque considerati in modo cumulativo: sulla Gran Bretagna si picchia duro sui whiskies di malto singolo scozzese ed irlandese, come da esplicita dicitura, e sui prodotti di abbigliamento, in primo luogo quelli in cachemire; in Francia si colpiscono i vini fermi fino a 14°, praticamente tutti, escludendo gli champagne; per la Germania si mette nel mirino la utensileria meccanica, iniziando con quella di uso manuale come i cacciaviti e le saldatrici; per la Spagna si torchiano le olive e l’olio di oliva. Italia e Grecia, sono furori perimetro.

Ci sono eccezioni, prodotti esenti dai nuovi dazi, come il vino Tocai, ed il formaggio Roquefort: mentre nel primo caso sembra esserci un occhio di riguardo verso l'Ungheria, nel secondo l’esonero dal nuovo aumento del 25% è ben ragionevole, visto che era stato già colpito nel 2009 da una tariffa stratosferica, del 300%, dopo quella del 100% che era stata introdotta in precedenza per ritorsione contro il divieto di importazione in Europa delle “carni agli ormoni”.

In seconda battuta, ci sono i dazi che colpiscono l’insieme dei Paesi europei, talora escludendo la Francia che è stata già sonoramente legnata sul vino, con una tariffa che aumenta per tutti i prodotti del 25%. Si tratta di sei principali categorie merceologiche alimentari: formaggi, carni lavorate, frutti di mare, frutta, conserve e succhi di frutta, liquori e cordiali.

Per quanto riguarda l’Italia, secondo i calcoli effettuati dalla sede ICE di New York che tengono conto del valore delle importazioni di merci italiane effettuate da parte degli Usa nel 2018, viene colpita una base imponibile che vale complessivamente 468 milioni di dollari, con una penalizzazione che, rapportata al 25% della maggiore tariffa, arriva a 117 milioni di dollari, di cui 57 milioni sono riferiti ai formaggi, 14 alle carni lavorate e 4 ai liquori e cordiali.

Queste grandezze vanno commisurate all’import complessivo degli Usa, che sempre nel 2018 è stato di 54,7 miliardi di dollari, a fronte di esportazioni verso l’Italia per 22,8 miliardi ed un saldo a nostro favore pari a 31,9 miliardi. Vengono dunque penalizzate merci italiane che valgono appena lo 0,85% delle importazioni americane.

Ben più pesante, sempre secondo il report dell’ICE, è il carico per i Paesi europei che partecipano al Consorzio Airbus: il peso maggiore dei dazi viene imposto infatti alla Francia (27.7%), che è seguita dalla Gb (25.9%), dalla Germania (19.8%) e dalla Spagna (11.2%). Molto più indietro si trovano infatti l’Italia (6.4%) e l’Irlanda (6.4%).

Il settore aeronautico di Francia e Germania viene colpito per un totale di circa 3,5 miliardi di dollari. Per quanto riguarda gli aeromobili, le statistiche doganali francesi riferite al 2018 riportano un export complessivo verso il resto del mondo pari a 33 miliardi di euro, di cui ben 19 miliardi sono riferiti agli Usa, relativamente a 40 velivoli.

Nel 2017 l’export verso l’America era stato superiore: ben 28,6 miliardi, per 53 velivoli. Si tratta di cifre di estremo rilievo, tra l’1 ed il 2% del pil.

La cautela con cui la Unione europea sta affrontando la questione dei dazi americani deriva innanzitutto dal timore, quasi una certezza, che una sua ritorsione, ingiustificata alla luce della decisione del Wto, possa indurre l’Amministrazione statunitense ad un secondo round di dazi, colmando il gap tra gli 1,8 miliardi di dollari di dazi già imposti ed i 7,5 miliardi complessivamente autorizzati.

Da come sono state costruite le tabelle, è immaginabile che verrebbero sottoposti al dazio del 25% i prodotti di abbigliamento francesi, a cominciare da quelli di lusso, gli champagne ed i cognac. Si estenderebbe così alla Francia il trattamento punitivo già assunto nei confronti delle corrispondenti produzioni di punta britanniche. La Germania trema, perché del settore della meccanica è stato toccata solo la fascia dei prodotti più economici: oltre ai macchinari industriali, ci sono le automobili, il bersaglio grosso che Donald Trump ha già messo nel mirino da tempo. Se così fosse, l’industria tedesca affonderebbe.

La mossa americana ha un valore innanzitutto dissuasivo sotto il profilo diplomatico, visti i tanti dossier aperti: dalla tecnologia cinese per il 5G alle ripresa delle tensioni in Siria. Ogni mossa su questi dossier può essere controproducente, se viene considerata dagli Usa come un intralcio alla sua strategia.

C’è, poi, la questione della Digital Tax, che viene sempre più diffusamente introdotta in Europa nei confronti delle grandi multinazionali americane: la Francia se ne è fatta promotrice, e sembra che anche l’Italia voglia fare altrettanto. È un terreno minato, visto che nell’Unione europea ci sono Paesi come l’Irlanda che da anni concedono condizioni di estremo favore alla multinazionali statunitensi, con un ruling fiscale secretato, e che sono state condannate dall’Antitrust di Bruxelles a recuperare le imposte non pagate.

Come se non bastasse, ci sono le nuove strategie europee che modificherebbero le normative antitrust per favorire le concentrazioni necessarie a creare dei campioni globali: sarebbe ancor più difficile, a questo punto, contrastare quelli statunitensi per via dell’abuso di posizione dominante di cui si renderebbero responsabili. La transizione tecnologica, con i grandi investimenti anche nel settore automobilistico che sono necessari per adottare la trazione elettrica e la guida autonoma, potrebbe essere una altra pietra di inciampo: bisogna recuperare il terreno perduto, ma anche in questo caso come insegna la vicenda di Airbus occorre cautela.

L’Italia, per parte sua, avrebbe molto di che recriminare nei confronti della UE: mentre nel ’92 da noi iniziava lo smantellamento delle Partecipazioni statali, per tener fede al divieto di aiuti di Stato introdotto con il Trattato di Maastricht, la Germania si cuciva addosso una esenzione volta a recuperare il divario accumulato dai Lander orientali a causa del regime comunista, che ancora dura.

Ma, innanzitutto, dovremmo chiedere i danni per questa vicenda dei dazi americani: la Commissione avrebbe dovuto accantonare, prudenzialmente, le risorse necessarie a ristorare i danni nel caso di soccombenza davanti al Wto per la questione Airbus. Noi ci siamo finiti dentro solo perché siamo parte di un’area doganale.

Bene ha fatto l’Amministrazione statunitense a discriminare in modo assai nitido le diverse posizioni, evitando di penalizzarci senza motivo; ma ci ha tirato comunque le orecchie insieme a tutti gli altri Paesi dell’Unione che non fanno parte del Consorzio Airbus e che non hanno sollecitato la Commissione a sanare tempestivamente questa controversia. Paese avvisate, mezzo salvato.

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