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18/10/2019

Trump-Erdogan, un accordo tra sconfitti

Questa, diciamolo, ancora non si era vista. Un “accordo per il cessate il fuoco” che non riguarda una delle parti in conflitto, ma impegna – anche qui, solo a parole – quasi soltanto l’attaccante e una delle parti che si è appena ritirata dalla scena. Un po’ come “fare la pace” con i popri alleati invece che con il nemico...

Quello tra Trump ed Erdogan, il giorno dopo, sembra più un escamotage per salvare la faccia ad entrambi che non un fatto vero, di quelli che cambiano lo scenario nell’area.

La posizione degli Usa, dopo il voltafaccia a l’abbandono degli “alleati” curdi nel Rojava, era diventata assolutamente non credibile per qualsiasi soggetto mediorientale. Lo si è visto con il frettoloso viaggio del segretario di Stato Pompeo in Israele, per rassicurare Netanyahu sul fatto che quel ritiro non significa un disimpegno totale degli Stati Uniti dall’area.

Dunque si poneva la necessità di far vedere che invece giocano ancora un ruolo “decisivo”.

Erdogan, invece, si trovava in un empasse pericolosa, soprattutto per lui. Aveva scatenato un’offensiva militare dichiarando che sarebbe “andato fino in fondo”, grazie al ritiro Usa che in teoria doveva lasciare i curdi senza alcuna copertura (soprattutto aerea, oltre che diplomatica). Ma la resistenza curda e l’avanzata delle truppe russe e di Assad (e quelle filo-iraniane di Hezbollah) verso la linea del confine nord siriano ha di fatto ridotto la portata dell’attacco a solo alcune zone, pur bombardamento tutto quel che si muove (anche con armi chimiche, nel silenzio delle “democrazie occidentali”).

Dunque o rischiava uno scontro diretto con Russia, Assad e Iran, oppure doveva fermarsi e perdere la faccia all’interno del suo paese dopo aver acceso ancora una volta i fuochi del nazionalismo più acefalo. La “tregua” concordata con Trump – peraltro non rispettata affatto da Ankara – lo solleva per il momento da questo rischio mentre, sul terreno, le milizie jihadiste da lui controllate e armate restano inchiodate nello scontro con i curdi; e, se pure fossero sterminate dai siriani e dai russi, non sarebbe Erdogan a doversi definire sconfitto.

Sul fronte opposto, è altrettanto ovvio che né Assad né la Russia hanno alcuna intenzione di trasformare la loro avanzata in conflitto vero e proprio (la Turchia, per quanto irritante soprattutto verso i propri alleati, è pur sempre un membro della Nato e potrebbe invocarne l’intervento). Dunque il compromesso implicito nell’“accordo” – ritiro delle milizie curde al di qua della “fascia di sicurezza” definita da Erdogan – può essere per il momento accettabile. In fondo hanno guadagnato terreno senza pagare alcun prezzo, né militare né diplomatico. Ci sarà tempo e modo di decidere altro...

Ed anche per i curdi – ancora una volta – non c’è alternativa. Non potevano restare soli contro l’attacco congiunto dell’esercito turco e dei tagliagole jihadisti, non possono chiedere ai nuovi “alleati” un impegno maggiore della semplice “protezione”. Dunque debbono definire – in parte a ragione, visto che con la loro resistenza hanno fortemente limitato l’avanzata delle “truppe di terra” turco-jihadiste – una “vittoria” il fatto che Erdogan debba fermarsi.

Poi c’è ovviamente la propaganda. Anche i turchi dicono di aver “ottenuto quel che volevamo”, anche se è qualcosa di molto diverso da quanto dichiarato. E Trump si auto compiace di aver impedito “milioni di morti”.

Resta fuori da ogni gioco l’Unione Europea, che ha perso forse l’ultima occasione per smarcarsi dagli Stati Uniti e avere un ruolo. Ma del resto, già da molti anni l’UE aveva fatto della Siria un proprio bersaglio e la situazione attuale è il frutto anche delle sue sozzure più folli.

Naturalmente questa non è una “data storica”, ma solo una tappa della lunghissima “guerra mondiale a pezzetti” che si sta giocando in Medio Oriente sulla pelle di chi ci vive.

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