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17/10/2019

I fatti e la testa

Poche cose come la guerra chiariscono i fatti, togliendo alle parole molto della loro capacità di nasconderli.

Per chi ragiona con le parole “come se” fossero rispondenti sempre a un qualcosa di reale, gli ultimi sviluppi della situazione in Rojava e in Siria sono un rebus senza capo né coda, da interpretare magari con categorie emotive come “tradimento”, oppure inspiegabili come la “reversibilità delle alleanze” e la veloce trasformazione degli amici in nemici e viceversa.

La vicenda del popolo curdo è così seria che merita un po’ più rispetto. Innanzitutto dai supporter occidentali “di sinistra”, i più storditi in genere dai passaggi critici sul campo. E dunque un’analisi veritiera.

Il punto di partenza è per noi chiarissimo: da 100 anni esatti (dalla fine della prima Guerra Mondiale e in base al Trattato di Losanna) c’è un popolo che lotta per aver diritto a un territorio stabilmente determinato, proprie istituzioni statuali, autodeterminazione. Di poter insomma esercitare la propria sovranità su se stesso e sui luoghi che abita da sempre.

In un secolo di lotta, armata e pacifica, questo popolo ha sviluppato proprie forme di autorganizzazione, particolarmente interessanti per chi continuamente si interroga su come creare “gestione sociale democratica” della sovranità popolare, senza ricadere nelle tentazioni tipiche di qualsiasi potere statuale (centralizzazione autoritaria delle decisioni rilevanti, conflitto permanente tra governo e governati, ecc).

Dovrebbe essere inutile precisarlo, ma è sempre bene farlo: queste esperienze democratiche sono peculiari di quel popolo e della cultura che ha sviluppato, non si possono “riprodurre” per imitazione in altri contesti economici e culturali. Oltretutto senza la fatica dell’elaborazione e della sperimentazione dal vivo.

Basterebbe rendersi conto che quelle modalità si sono sviluppate in quelle forme proprio perché non c’è uno Stato da gestire, ma la sopravvivenza di un popolo in lotta.

Quel popolo, nonostante abbia oltre 40 milioni di membri e viva su un territorio molto vasto, è infatti diviso dai confini di ben quattro Stati (Turchia, Iran, Iraq, Siria) che hanno avuto storie molto diverse e spesso in conflitto tra loro, con o senza alleanze con potenze imperialiste extra-mediorientali (Francia e Gran Bretagna prima, quasi soltanto Stati Uniti poi, con il notevole “intervallo” dell’Urss).

Ognuno di questi quattro Stati – a dispetto dei diversi regimi politici che si sono succeduti – ha negato qualsiasi riconoscimento all’indipendenza dei curdi, reprimendo la loro lotta in modi più o meno violenti (soprattutto in Turchia e Iraq, appena meno in Siria e Iran). In ognuno di questi quattro Stati i curdi hanno dovuto sviluppare e mantenere (nell’arco di un secolo!) una propria organizzazione sociale, economica e militare per sopravvivere come entità.

Pur non avendo uno Stato, sul piano diplomatico i curdi hanno dovuto sviluppare una propria politica estera, stabilendo buoni rapporti in genere con i movimenti comunisti o di sinistra, e praticando alleanze con chiunque potesse almeno temporaneamente tornare a vantaggio della propria lotta pur muovendosi per altri (e conflittuali) interessi.

E qui troviamo una storica differenza tra due ambiti che in genere sfuggono ai “tifosi” delle giuste cause che non sanno guardare a come, materialmente, una lotta può vincere o perdere.

Il primo è quello delle sintonie politico-culturali, che fanno riconoscere come più vicini a sé un movimento popolare in un’altra area del mondo.

Il secondo è quello normalmente detto geopolitico, dove valori e ideali riguardano solo il “foro interno” dei diversi protagonisti, mentre bisogna brutalmente ragionare sulla base dei rapporti di forza e degli interessi.

Se si vuole, è la differenza che passa tra gli ambiti della soggettività e della oggettività. Che sta alla base di scelte di lotta fatte per convinzione oppure per necessità. Un proverbio mediorientale chiarisce benissimo questa condizione: “se stai per annegare e l’unica cosa che galleggia vicino a te è un serpente, tu ti aggrappi al serpente”.

Questo significa che le ragioni delle scelte geopolitiche di un qualsiasi soggetto (statuale e non) devono tener conto della necessità, non solo delle “preferenze” o delle sintonie.

In questa ottica, tutto assume altri contorni.

I ruoli dei vari attori in Medio Oriente diventano più comprensibili. Si può quindi capire che nella Siria assalita dall’imperialismo Usa ed europeo attraverso l’armamento di una parte delle sue opposizioni interne (i fondamentalisti sunniti, in un paese a prevalenza sciita ma sostanzialmente laico) la minoranza curda aveva potuto autonomizzarsi fino a stabilire una propria amministrazione sul Rojava.

Si può capire che questa presenza rappresentasse un catalizzatore indipendentista molto malvisto da Erdogan, che contemporaneamente gestiva il “corridoio” attraverso cui i jihadisti dell’Isis potevano entrare ed uscire dall’Iraq e dalla Siria, trovare retrovia logistica e commerciare petrolio di contrabbando (per questo è stato inquisito direttamente il figlio del rais turco).

Si può quindi capire l’attacco dell’Isis ai curdi del Rojava e l’accettazione della “copertura aerea” statunitense – e anche di qualche base a terra, in territorio siriano – da parte di questi ultimi. Altre, al momento, non ce n’erano.

Così come risulta altrettanto “logica” l’invasione del Rojava da parte della Turchia in accordo con gli Usa e l’Unione Europea, per distruggere l’amministrazione curda e rimpatriare almeno parte del 3,6 milioni di profughi siriani presenti (e mal tollerati) nei campi dell’Anatolia meridionale. Profughi che – ha spiegato esplicitamente Erdogan – altrimenti sarebbero stati dirottati verso i paesi dell’Unione Europea attraverso la Grecia e la Bulgaria (i paesi confinanti) e per il cui “contenimento” ha ricevuto da Bruxelles miliardi di euro.

E si può infine capire – senza scomodare alcuna categoria della “morale” – che i curdi abbiano recuperato un “accordo militare” con Assad, garantendosi così una copertura da parte dell’esercito siriano e soprattutto dei contingenti russi che ora stanno raggiungendo il confine turco-siriano.

Solo da questa angolatura si può vedere come la posizione dell’Unione Europea e della Nato sia di pratica complicità con Erdogan. Il vertice dei ministri degli esteri di due giorni fa non ha deciso nulla sul “divieto di vendita di armi alla Turchia”. Il compromesso è stato fin troppo chiaro: tutti “condanniamo l’iniziativa di guerra” ma ogni paese deciderà da solo se continuare a vendere armi ad Ankara e come. Business as usual...

Profitti sugli armamenti e mantenimento in Medio Oriente di quei 3,6 milioni di profughi – al di qua o al di là del confine turco-siriano non è cosa che interessa ai vertici della UE – sono due argomenti più che sufficienti per parlare in un modo e agire all’opposto.

Infine, ma sicuramente più importante. In questa ultima settimana il mondo è cambiato. O meglio: si può vedere finalmente bene quanto sia cambiato negli ultimi anni. L’imperialismo statunitense è in crisi e costretto a ritirarsi da alcuni teatri senza raccogliere i frutti sperati (come in Venezuela con Guaidò). La Nato è teatro passivo di questo conflitto invece che attore aggressivo verso l’esterno. Altri equilibri si vanno costruendo e altri protagonisti si fanno avanti per occupare il vuoto che gli Usa vanno lasciando. Non si tratta di considerarli “buoni”, ma di prendere atto che la situazione è cambiata.

Per chi vuole cambiare il mondo, partire dal luogo in cui è – e noi viviamo nell’Occidente, nel “cuore” dell’imperialismo anche se in una sua semi-periferia sconquassata dalla subalternità – questo è un punto di partenza obbligato.

Altrimenti continuerà a confondere “ciò che si vorrebbe” con “ciò che si può fare”. E quindi a perdere...

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