di Marco Santopadre
Scrivevamo nei giorni
scorsi, prima della sospensione di cinque giorni degli attacchi turchi
contro il Rojava, che “se i turchi si fermeranno potranno continuare a
occupare una consistente striscia di territorio interna alla Siria ed
Erdogan potrà vendere alla sua opinione pubblica l’ennesimo colpo
inferto “ai terroristi curdi” e il recupero di quella parte di suolo
siriano che Ankara rivendica come proprio da quasi un secolo”. L’abilità
russa e la confusione totale in cui versa l’amministrazione
statunitense – da parecchi anni, ben prima che Trump occupasse la Casa
Bianca – hanno consentito a Mosca di segnare un ennesimo punto a favore
nello scacchiere mediorientale.
Per parecchi anni, dopo lo scioglimento dell’URSS, la Federazione
Russa ha subito una feroce offensiva da parte degli Stati Uniti e poi
anche di alcune potenze regionali: mentre la Nato militarizzava e annetteva nuovi territori fin sotto i suoi confini (significativo il golpe filoccidentale in Ucraina) le potenze sunnite e la stessa Washington fomentavano l’integralismo religioso tra le comunità islamiche del Caucaso;
contemporaneamente gli Usa, dopo aver fatto saltare l’Iraq, iniziavano
la destabilizzazione della Siria facendo esplodere una feroce
competizione nell’area con il nuovo blocco regionale riunito attorno
all’Arabia Saudita e con i Fratelli Musulmani guidati dalla Turchia.
Una situazione che ha convinto la Russia a intervenire massicciamente
in Siria nel 2015, capovolgendo completamente le sorti del conflitto:
in pochi anni Mosca ha garantito la sconfitta dei jihadisti, puntellato
il regime di Damasco ed evitato l’instaurazione di un regime settario
sunnita, evitato l’indebolimento dell’asse sciita e dell’Iran in
particolare, ed assicurato la permanenza della sua aviazione e della sua
marina nelle basi militari sulla costa del Mediterraneo che l’avanzata
dei mercenari al soldo dei Saud metteva a rischio.
Poi, negli ultimi giorni, la vera svolta: le truppe russe e siriane
hanno sostituito i soldati statunitensi (e con loro francesi e
britannici) occupando le loro basi nel nord della Siria e al confine con
la Turchia, recuperando il controllo di una parte del paese e
ridimensionando nettamente l’amministrazione messa in piedi dai curdi
grazie al vuoto di potere determinatosi negli ultimi anni.
Non sono però solo i curdi a dover ingoiare un boccone amaro, pagando il prezzo più alto. Anche se Assad fa buon viso a cattivo gioco, paradossalmente anche la Siria
non può dirsi propriamente soddisfatta del patto siglato da Putin ed
Erdogan a Sochi due giorni fa.
Infatti Mosca ha concesso alla Turchia e alle sue milizie
mercenarie, zeppe di jihadisti, di continuare ad occupare i territori
siriani conquistati durante le tre offensive militari degli ultimi anni
ed addirittura altre zone, per un totale di ben 3600 chilometri quadrati
circa, in violazione di quella integrità territoriale del paese la cui
difesa sembrava rappresentare fino a qualche tempo fa la stessa polare
dell’intervento russo. Una occupazione turca senza scadenze
concordate che si somma al controllo da parte di Ankara della provincia
di Idlib e del cantone curdo di Afrin, dove sono concentrati migliaia di
fondamentalisti e terroristi islamici.
Come se non bastasse, i soldati statunitensi che si sono ritirati dal
Rojava si sono concentrati in una zona della Siria dove occupano la più
consistente area petrolifera del paese anche se pesa lo schiaffo del
governo iracheno che ha negato “ospitalità” al migliaio circa di marines
appena evacuati dal Rojava.
Non può stupire che la Russia stia badando ora a preservare
innanzi tutto i propri interessi geopolitici, militari ed economici
esattamente come qualsiasi altra delle potenze mondiali e regionali
impegnate nello scacchiere mediorientale (alcune delle quali hanno
indubbiamente responsabilità assai maggiori nel macello siriano...). E lo
fa gestendo un precarissimo equilibrio che ognuno degli attori in campo
può far saltare in qualsiasi momento. Da una parte Mosca
garantisce la difesa di Siria e Iran – senza dimenticare il suo ruolo in
Libia, a sostegno del generale Haftar – dall’altro però cerca di
allontanare sempre di più la Turchia dalla Nato. Per ora sembra
con successo: Trump l’altro ieri ha minacciato addirittura una guerra
contro Ankara mentre i generali denunciano l’esercito turco per i
crimini di guerra commessi nel Rojava e i quotidiani statunitensi
accusano il ‘sultano’ di mirare a dotarsi dell’atomica. Da parte sua
Erdogan ha comprato un sistema missilistico da Mosca, ha lasciato che
uno strategico gasdotto russo – il Southstream – passasse nel suo
territorio e minaccia a giorni alterni la permanenza a Incirlik della
più importante base aerea della Nato nell’area, obbligando Washington a
cercare alternative in Grecia e Giordania.
Pur difendendo Iran e Siria, Mosca intrattiene ottime relazioni con i loro nemici Israele e Arabia Saudita,
sfruttando le aspirazioni egemoniche di questi due paesi e la loro
ricerca di una maggiore autonomia rispetto agli interessi statunitensi
nell’area. Una grana non da poco per la Siria e per l’Iran che negli
ultimi anni hanno subito decine di attacchi militari e bombardamenti da
parte dei caccia e dei droni con la stella di David. Alleanze
asimmetriche e a geometria variabile in continua evoluzione (toccherà
vedere nei prossimi giorni se la Turchia bloccherà davvero la propria
avanzata nel nord della Siria), un intricato sistema nel quale i popoli
sembrano essere di troppo, pedine di un enorme e spregiudicato Risiko
mondiale.
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