di Jack Orlando
Non capita spesso che da un film scaturisca un dibattito serrato e
prolungato all’interno dell’habitat di movimento, solitamente distratto
agli stimoli esterni. Eppure su Joker di Todd Phillips si
stanno spendendo fiumi di inchiostro e di post; grande cosa
l’interrogarsi a partire da certe cose, ma spesso l’analisi si concentra
sulla banale assimilazione o rinnegamento del personaggio secondo i
nostri schemi interpretativi e l’approfondimento si arena allora sulla
benedizione o l’accantonamento.
Ci si chiede se Joker sia un potenziale stragista nero, un apprendista
Spartaco, una vittima da compatire o curare prima che la sua furia
degeneri. La questione, se permettete, è più complessa.
Joker non è un nazista, non è un incel, non è un compagno, né un vendicatore mascherato e nemmeno un semplice psicopatico.
Joker è l’immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il
prodotto violento di una società violenta; è l’individuo alienato,
sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo
necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua
mostruosità.
Joker/Arthur Fleck è un individuo mediocre, non è bello, né brillante,
non ha aspirazioni se non quella di fare il comico, di esercitare un
mestiere: aspira al suo posto nel mondo potendo mangiare con ciò che gli
piace; e tuttavia non brilla nemmeno nella sua comicità se non quando è
oggetto di scherno sadico. Come un giullare deforme alla corte di un
sovrano annoiato.
Joker assume su di sé tutta la violenza strutturale di un sistema
classista, rapace e psicotico, la respira nei bassifondi della sua
città, la mangia con il cibo precotto e gli psicofarmaci mentre la
osserva dalla sua postazione tv.
Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in quanto individuo
psicopatologico, ma in quanto soggetto alienato, straccio da piedi della
società, produttore/consumatore deumanizzato.
È rinnegato dalla sua stessa comunità che lo addita con un misto di
scherno e paura: è il mostro, il matto, il negro, il pezzente, lo
spiantato, il fallito, è ciò che fa capolino allo specchio del bagno ad
ogni abluzione mattutina.
Il povero Arthur Fleck non aspira altro che a diventare umano. E lo
diventa solo nel momento in cui la vendetta diventa un opzione
praticabile, quando un qualche giovane ricco e di successo cade a terra
impallinato come merita. Nel gesto violento, irrazionale, finanche
accidentale Joker schiude a se stesso una dimensione liberatoria, anche
quando quel gesto è assolutamente ingiustificabile ed abominevole, Joker
si riprende se stesso facendo a pezzi i totem del dominio che lo ha
tenuto schiavo.
E la violenza vendicatrice è immediatamente recepita dalla massa
subalterna nel suo significante liberatorio, il pagliaccio assassino di
ricchi da ultimo resto della catastrofe neoliberista diviene immediato
volto della rivolta sociale, della “giusta vendetta”. La comunità degli
oppressi, amorfa e incattivita trova la sua collocazione nel mondo
tracciando una linea invalicabile tra sé ed il proprio nemico. Ricchezza
e plebaglia, ville lussuose e slums, poliziotti che proteggono la
società e sbirri che difendono i privilegiati. È la semplice divisione
manichea del mondo che diviene tangibile nel momento dello scontro, il
momento che rende tale una comunità e che dipana nella pratica il
concetto di classe. Non ci sono buoni né cattivi, non c’è una morale che
possa essere univoca, ognuno ha il suo posto nella gerarchia del mondo
tardo capitalista e da lì può scegliere se piegarsi o muovere guerra.
Chiariamoci, Joker non è un personaggio esplicitamente politico, se
ne frega della rivolta anche quando la trova bella e gode della sua
apocalittica performance, la sua è una vendetta individualista e
nichilista contro il mondo e contro se stesso, contro ciò che il mondo
lo ha costretto ad essere ed è, in fondo, lo stesso sentimento che muove
ognuno degli stereotipati insorti di Gotham City. È la recezione di
quella sfera liberatoria da parte del proprio simile collettivo a
schiudere un piano di sovversione. Ciò che c’è di politico nel film è
anzitutto il disvelamento parossistico di un mondo diviso brutalmente
per classe in due mondi differenti e non compatibili l’uno con l’altro,
un mondo a compartimenti stagni dove ognuna delle due metà non può che
essere, in fondo, irriducibile all’altra. Laddove viga la pace sociale, è
una pax armata garantita dal rapporto di forza. L’altro elemento
politico del film, per quanto stereotipato ai limiti del banale è la
suddetta violenza che nel gesto disperato ed individuale trova una
profonda eco collettiva nel momento in cui risponde alle più recondite
esigenze esistenziali di un soggetto subalterno che è perennemente
sull’orlo del baratro di una crisi di nervi o di una sommossa popolare.
Per tornare al Joker ed al suo essere né un fascio né un compagno, ma
un figlio bastardo del capitalismo, esso non è interessante in quanto
villain o psico-giustiziere, è la verità che impone al mondo tramite il
gesto innominabile ad essere profondamente interessante.
Purtroppo è una verità che si manifesta nello stesso identico modo degli
attentati dei cani sciolti nazisti o dei radicalizzati islamici, ma (ed
è un MA grande come la Trump Tower) verticalizzata tramite la sommossa
secondo linee di classe. Joker individuo colpisce chi gli procura
sofferenza più da vicino ed è spesso orrendo nel farlo, ma la
traiettoria che disegna andando ad ammazzare i ricchi è la carta che
genera un Joker collettivo, con un nemico che più chiaro non può essere
quando inizia a muoversi al grido di Kill the rich!, le stesse pulsioni compresse e lo stesso nemico trasformano l’umanità disgregata da bassifondi in forza d’urto della rivolta.
È in questa coincidenza tra gesto individuale e nichilista e
soggettivazione collettiva che si condensa il dato politico di una
storia simile. È una versione sangue e merda della dialettica
servo-padrone di Hegel se volete, oppure ancora il principio fanoniano
della rivolta; è qualcosa che dovremmo ben conoscere insomma.
Ora, duole ammetterlo, ma i ragazzotti bianchi e frustrati di
Crhistchurch, di El Paso, Oslo o Macerata, come anche i giovani
immigrati radicalizzati del Bataclan e di Nizza, quando agiscono
compiono un gesto immensamente politico: elevano la propria violenza
nichilista (ed il proprio sacrificio) ad atto di redenzione che
cauterizza tutte le ferite riportate in anni e anni di esistenza
frustrante, priva di significato e prospettiva. Uno lo fa in nome della
supremazia bianca, l’altro in nome della Jihad. Ma la matrice è la
stessa e la possiamo trovare nelle macerie fumanti del nostro tempo,
proprio lì all’angolo sotto casa.
Ognuno di questi gesti crea un precedente, disegna una traiettoria,
indica un nemico, chiama all’azione il suo simile e interroga il
presente sulle sue responsabilità nella catastrofe dell’Occidente. È
questa politicità, quasi sempre negata dal potere, a rendere chiaro,
comprensibile e soprattutto ripetibile questo gesto. Dopo un Breivik ce
ne sarà un altro, per ogni Johnny Jihad in tv ce ne sono alti dieci al
computer. Pionieri tristi della guerra civile che viene, la cui violenza
non si scaglia verso l’alto ma in orizzontale o verso il basso, contro
il proprio omologo o subordinato. Alfieri di un apocalisse che
l’antagonismo ha smesso di accarezzare per dedicarsi al pietismo, alle
autonarrazioni, al far le pulci ad ogni cosa si muova fuori dalla
finestra, rimbecillito e compiaciuto della propria marginalissima ed
autolegittimata ragione.
Che la violenza di una vita miserabile possa essere maneggiata da un
qualche disperato e rispedita contro la società in modo confusionario e
nichilista, desti scandalo tra le facce pulite dei salotti bene, degli
yuppies e delle aspiranti famiglie Wayne è normale: ogni cosa turbi il
buon ordine liberale è qualcosa di inaccettabile, maligno e corrotto. Ma
che i supposti rivoluzionari non colgano (che non vuol dire
condividerne le enunciazioni ma comprenderne la forma e le causali) il
dato politico dei gesti d’insubordinazione e (auto)distruzione è assai
grave.
Come Joker, così come i novelli stragisti, tempi addietro a scaricare
il proprio odio e la propria vendetta contro il nemico c’erano Sante
Caserio, Giovanni Passanante, Jean-Jacques Liabeuf, Gaetano Bresci e
tutta una sequela di celeberrimi Signor Nessuno che irrompevano, con la
loro drammatica verità, sul teatro della storia a scompigliar le carte
del dominio. E per ognuno di questi Signor Nessuno c’era una schiera di
altrettanto cenciosi Nessuno ad erigere barricate per rivendicare il
gesto e la liberazione del vendicatore, a celebrarne le gesta sui muri o
anche solo ad annuire compiaciuti alla notizia riportata sul
quotidiano.
Chiariamoci di nuovo, tutto questo parlare di violenza parrebbe
macabro ed eccessivo, non si vuole certo fare qui apologia dello
stragismo o dell’infanticidio, non sono mica nelle nostre corde!
C’è qui da riflettere piuttosto su quanto la realtà di una violenza
strutturale e sistemica, subita sulla pelle giorno dopo giorno da
milioni di individui, sia tristemente sparita dal nostro orizzonte. Come
se il semplice discettare di politica e proporre colazioni meticce e
solidali, fare a spintoni con la polizia ogni tanto e riunirci nei
nostri mirabolanti parlamentini ci basti a non guardare fuori (e dentro)
di noi; come se bastasse un centro sociale a cancellare la rabbia, la
tristezza, la frustrazione delle vite mutilate. I nostri nemici sono
cartonati da campagna stagionale, i nostri eroi vendicatori sono
diventati caricature innocue, la nostra militanza diventa panacea per
non affrontare l’orrore. E ci si ritrova spesso a condividere il biasimo
della classe dirigente, scuotendo tristemente la testa davanti
all’ennesimo gesto disperato.
Joker non è un rivoluzionario né un eroe, è un banalissimo dato di
fatto. E mentre il milieu militante si guarda l’ombelico chiedendosi se
Arthur Fleck sia buono o cattivo, nazi o rosso, malato o ribelle, fuori
da queste stanze, qualcuno molto meno preparato di noi comprende
l’essenza del messaggio, veste la stessa maschera e scende in strada. E
noi o saremo in grado di comprenderla ed indossarla quella maschera, o
il fuoco che muoverà brucerà noi per primi.
Sono gli altri ad essere impazziti, o siamo noi ad aver perso la bussola?
Fonte
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