di Mauro Baldrati
Io e il mio vecchio amico Pierfrancesco Pacoda, giornalista culturale de Il resto del Carlino e di Frigidaire negli
anni ’80, quando io ero redattore a Roma, siamo sopravvissuti alla
nostra lontananza (dodici anni a Milano del sottoscritto a lavorare come
fotografo). L’amicizia è rimasta intatta e attiva, anche per solide
condivisioni di gusti, musicali (il punk, la new wave, e anche il
rock-blues del decennio precedente), artistici, letterari e
cinematografici. Amiamo i film e i libri ultraviolenti, con delitti
efferati e, possibilmente, torture (merce un po’ rara però). Qualche
volta ci siamo chiesti: ma perché ci piace tanto la violenza? La mia
risposta, che lui mi pare condivida, è che richiama la violenza che
abbiamo dentro. E in questo va spazzata via l’obiezione che i film
violenti ne favorirebbero l’emulazione. È esattamente il contrario: la
rappresentazione della violenza in forma artistica serve per scaricarla
su obiettivi innocui, e quindi esorcizzarla. La rappresentazione della
violenza è una pratica di antiviolenza.
Così, anche ora che abbiamo superato gli anni ruggenti, la
postadolescenza e le avventure pericolose, continuiamo a vederci, con
appuntamenti più o meno settimanali, per una pizza seguita da un film.
L’ultimo che abbiamo visto insieme è stato Joker, l’evento
dell’anno, si potrebbe dire. Qui a Bologna imperversa. Al Lumiere, dove
proiettano in lingua originale coi sottotitoli, sabato non siamo
riusciti a entrare. E Martedì, ci è stato detto, idem. Così abbiamo
riprovato giovedì, trovando una fila chilometrica al Medica Palace, che
per fortuna è la sala più grande della città. Il 90% era costituito da
under 30, cosa che immediatamente mi ha mandato in crisi. I giovani sono
esuberanti, parlano, mangiano, accendono i cellulari per controllare la
pagina FB. Io il film voglio guardarlo in religioso silenzio. Però
questi ragazzi, studenti fuorisede, sono diversi. L’abbiamo sperimentato
con l’ultimo Tarantino, altrettanto gremito di giovani e addirittura
giovanissimi. Stanno zitti, guardano e ascoltano e neanche mangiano.
Bellissimi.
Per cui ci siamo fatti forza, abbiamo sopportato il trauma della fila
e siamo entrati. Abbiamo trovato due posti senza comitive alle spalle,
laterali (perché io riesco a sedermi solo nell’ultimo posto laterale), e
ci siamo preparati mentalmente.
Joker. Ero prevenuto, come spesso mi accade. Odio le
omologazioni, le mode che dominano, per cui tutti corrono a vedere i
film che impazzano, mentre altre opere meno cool ma bellissime vanno semideserte. Inoltre avevo letto una messe di stroncature: gli americani, il Washington Post, il New York Times, anche Marie Claire, e naturalmente sul web, dove le stroncature, in stile trollesco, sono praticamente un must.
L’accusa più ricorrente è che sia un film studiato a tavolino per
essere grande, col risultato di essere invece piccolo, e scontato.
Insomma, un film falso, forzatamente didascalico.
Perdio, mica una robetta da poco. Macigni. Film fasullo, artificioso. Film fallito.
Al diavolo, non abbiamo rilevato nulla di tutto questo. Non intendo
sprecare il mio e il vostro tempo per riassumere la trama,
ultraraccontata sui media mainstream e sul web. Vorrei invece
sottolineare che se c’è un aspetto dell’opera che ci ha colpiti è la
sincerità. È un film tutt’altro che falso. È sincera l’interpretazione
di Joaquin Phoenix, che è praticamente sempre in scena, magro, ossuto,
mobile, che fa di se stesso un’opera di body art. È sincera la sua
difficoltà di adeguarsi al mondo, che lo schiaccia col disprezzo e
l’indifferenza (comportamenti che in un certo senso lui attira, coi suoi
atteggiamenti strambi, con la risata compulsiva, sintomo della sua
sofferenza psichiatrica). Qualcuno ha scritto che evoca Taxi Driver,
a me ha evocato Baudelaire. Era altrettanto emarginato,
contraddittorio, rancoroso. Come il futuro Joker si sente fallito e
ingiustamente ignorato, e i suoi spettacoli sono sempre di serie B, così
Baudelaire falliva tutte le conferenze. Ma il fatto è che era un pessimo conferenziere:
si impappinava, gesticolava, pronunciava battute sciocche che poi se le
rideva da solo, mettendo in imbarazzo il pubblico. Dopo il disastro di
Bruxelles fece la sua performance alla Joker scrivendo uno dei libri più
violenti, razzisti e vendicativi della storia della letteratura: La capitale delle scimmie.
Invece Arthur Fleck, che come il piccolo Baudelaire ha avuto
un’infanzia segnata da una tragica infelicità, e dalla violenza, fa una
scelta più pratica: diventa un genio del male, il nemico giurato di
Batman. Il demone che ride.
Arthur muta in un essere autenticamente cattivo, perché
esprime una carica eversiva senza sconti, una furia distruttiva che
sgorga dalle cavità nere della società, dalla tragedia sociale che
distrugge l’individuo anche come creatura collettiva (“E adesso con chi
parlo?” chiede Arthur alla psicologa, mentre gli comunica che hanno
appena tagliato i fondi dell’assistenza e quindi non potrà più
riceverlo). Un essere che scardina ogni ordine, ogni morale, ogni
ipocrisia (“Tu mi hai invitato qui, nel tuo programma, solo per
prenderti gioco di me” dice a un cialtronesco Robert De Niro, prima di
sparargli in faccia in diretta TV).
E proprio come Baudelaire, che nella sua meschinità di uomo vile,
contraddittorio e perdente diventa un poeta inimitabile, così Arthur,
frustrato, pazzoide e patetico, sale i gradini di una poesia nera,
mostruosa e apocalittica.
Ma attenzione: Joker è un demone. Anche Hitler lo è. Ma non ha nulla
di eversivo. Anzi, il contrario. Il demone nazista è l’estremizzazione
terminale del Potere, dell’imperialismo capitalista che massacra i
popoli per rubare le risorse e renderli schiavi (decine di migliaia di
deportati che lavorano e muoiono in schiavitù nelle imprese tedesche).
Poi, soprattutto come ex lettore accanito di fumetti, non posso
esimermi da alcune critiche: il suo diventare un eroe pop è
rappresentato in maniera un po’ troppo sbrigativa e semplicistica; vanno
bene i riferimenti, le incursioni nei vari generi, ma non lo scadimento
nel “fumettismo”. Inoltre il finale è a mio avviso volutamente
simbolico, mentre andava arricchito con alcuni cenni sulla definitiva
mutazione in Joker, con l’evasione dal manicomio, la clandestinità e il
crimine puro.
Però non sono mancate alcune scene che all’appassionato strappano un
brivido: la comparsa di Bruce Wayne bambino (cioè il futuro Batman),
quando Arthur si reca alla villa del ricco padre di Bruce, che lui
considera anche suo padre, per un delirio narcisistico della madre, che
lavorava come inserviente nella villa Wayne. E poco dopo la metà del
film quando si alza, potente, seduttiva, la “voce della brughiera” di
Jack Bruce, il cantante-bassista di una delle più strepitose band di
rock-blues anni ’60, i Cream, per i quali io ho avuto una sorta di vera e
propria infatuazione.
E basterebbe questo, solo questo, per fare di Joker un film indimenticabile.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento