di Giacomo Russo Spena
Chi si aspettava il falco dell’austerity o qualche dichiarazione
roboante sul mantra del pareggio di bilancio è rimasto deluso. Lo stesso
Brancaccio, ad un certo punto, dal microfono ha interpretato lo
sconcerto dei presenti: “Oggi abbiamo scoperto un Mario Monti inedito
che – con tutti i distinguo del caso – rimpiange il socialismo reale!”.
L’economista col loden, seduto al suo fianco, sorride. E non replica.
Proprio così, nessun fraintendimento. Alla presentazione del libro di Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci, già recensito sul sito di MicroMega,
il tecnico della Bocconi gioca la parte del keynesiano finendo per
criticare l’attuale assetto dell’Unione Europea e per rinnegare persino
il dogma dell’austerity.
“Credo di non aver mai usato il
termine ‘austerità’ anche se a detta di molti l’ho praticata – ha
spiegato il senatore a vita – Certo, il mio governo ha fatto una
politica restrittiva, ma in quella situazione, con i mercati che
stimavano al 40% la probabilità di default dell’Italia, quale altra
scelta sarebbe stata possibile?”. Insomma, le politiche anti-popolari e
di macelleria sociale durante il suo esecutivo (come dimenticarsi la
legge Fornero sulle pensioni e l’introduzione del pareggio di bilancio
in Costituzione) sarebbero dettate dalla mancanza di una reale
alternativa.
Monti, sostiene oggi, non aveva altra scelta. Se
avesse potuto, spiega ancora nell’intervento, avrebbe attuato altre
misure economiche perché in fondo “preferisco l’Europa del Trattato di
Roma, imparziale rispetto alla proprietà pubblica o privata, a quella di
Maastricht del ‘92, che invece favorisce la seconda”. In questo
passaggio il pubblico rumoreggia, attonito.
Inoltre
l’economista col loden si dichiara preoccupato per un sistema che, dopo
la Caduta del Muro, ha mostrato il suo volto più criminale: “Il
socialismo reale serviva da pungolo ed era funzionale al capitalismo,
col suo crollo il sistema capitalistico ha generato le cose peggiori”.
Si riferisce all’egemonia della finanza e all’insostenibilità
redistributiva: “La concentrazione di ricchezze sta raggiungendo punte
inaccettabili”. Il liberale, strenuo difensore dell’élite, scopre
tardivamente lo scontro in atto negli ultimi anni, quella lotta di
classe (dell’alto contro il basso) che ha generato l’accumulazione di
ricchezza in poche mani a scapito del 99% della popolazione mondiale.
“Mi chiedo come mai la sinistra non abbia il coraggio di agire sul
terreno fiscale proponendo una sana patrimoniale, ne sarei favorevole”,
chiudeva così Monti il suo intervento dettando consigli per ridurre la
crescente disuguaglianza nel Paese. Ma con quale credibilità? In molti,
in sala, se lo chiedono, tra il divertito e lo stupore, per le parole
del senatore a vita.
In realtà, il tecnico della Bocconi è
soltanto l’ultimo di una lunga schiera di falchi dell’austerity che, una
volta lontani dal potere, hanno rinnegato le politiche attuate. Già
Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale
proprio negli anni che videro lo scoppio della crisi globale, sempre in
un dialogo pubblico con l’economista Brancaccio, aveva rivisto le sue
posizioni. In Italia ricordiamo il caso di Giulio Tremonti, il ministro
di centrodestra e dei condoni berlusconiani, che una volta lontano dal
dicastero ha scritto un libro (No Global) sulle storture della
globalizzazione liberista: “Una volta il pronunciamento lo facevano i
militari – così si legge sul suo testo Uscita di sicurezza
(Rizzoli, 2012) – Occupavano la radio-tv, imponevano il coprifuoco di
notte eccetera. Oggi, in versione postmoderna, lo si fa con l’argomento
della tenuta sistemica dell’euro (…) lo si fa condizionando e
commissariando governi e parlamenti (…) Ed è la finanza a farlo, il
pronunciamento, imponendo il proprio governo, fatto quasi sempre da
gente con la sua stessa uniforme, da tecnocrati apostoli cultori delle
loro utopie, convinti ancora del dogma monetarista; ingegneri applicati
all’economia, come era nel Politburo prima del crollo; replicanti
totalitaristi alla Saint-Simon”. E poi ancora il riformista
Carlo Calenda, il quale per ultimo ha confessato che “per 30 anni ho
ripetuto tutte le banalità del liberismo ideologico: una delle più
grandi stupidaggini che abbiamo raccontato è che non si salvano i posti
di lavoro, ma si salva il lavoro”.
Dopo la nascita del governo
Conte 2 e con l’alleanza (tattica) tra M5S e Pd – due forze che fino al
giorno prima dell’intesa si insultavano e si guerreggiavano – ormai vale
tutto ed è saltata ogni forma di coerenza politica, e gli stessi
cittadini sono assuefatti ai ripensamenti, ma fino a che punto?
La lista dei liberisti pentiti è nutrita: sarebbe divertente un giorno
metterli tutti insieme intorno ad un tavolo per una cena dove però,
almeno quella volta, saranno loro a pagare il conto. Troppo facile
cavarsela con un semplice, e tardivo, “mea culpa”.
Fonte
A leggere queste cose, compreso il tono dell'estensore dell'articolo, si resta spaesati, si ha la netta sensazione di essere presi per i fondelli da soggetti praticamente addestrati allo scopo.
Sovviene, però, anche il dubbio che questa serie di dissociazioni, questo cambio di passo nella narrazione di quelli che fino a ieri erano autentici dogmi, nasconda l'approssimarsi dei "fenomeni morbosi più svariati".
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