Salviamo il compagno Boris! Massima solidarietà, nonostante le
evidenti differenze politiche, al bizzarro Johnson, che si trova
impossibilitato a dar seguito al preciso mandato popolare: l’uscita del
Regno Unito dall’Unione Europea. È difficile rintracciare, volgendo gli
occhi al passato, una simile ostinazione, da parte delle élites
economiche e culturali, nel negare la soluzione scelta dalla
cittadinanza. In effetti un altro esempio esiste, peraltro recente:
quello catalano, dove pure una importante riconfigurazione della polity
di una comunità, avvenuta attraverso metodi liberal-democratici
(referendum, pure lì), viene rifiutata perché... sbagliata! Il popolo ha
votato in modo contrario agli interessi dell’alta borghesia... cambiamo il
popolo! Questa battuta girava tanto quando il target – Brecht adiuvante
– era il Comitato centrale, viene taciuta adesso, quando troverebbe una
concretizzazione clamorosa e ripetuta.
In Catalogna Puigdemont e i suoi fedeli sono finiti in prigione, in
Inghilterra non siamo (ancora) arrivati a tanto, ma la Brexit ha già
fatto cadere due premier (corrispondenti ad altrettanti leader del
Partito conservatore) e si appresta a farne cadere un terzo. Inoltre ha
soffiato tra le ceneri del Partito laburista e ha sfasciato il campo
politico di Scozia e Irlanda. Non male per un referendum il cui esito
deve ancora essere implementato...
Più ancora del caso catalano (forse perché rimane un abisso, in
termini di legalità democratico-rappresentativa, tra Regno Unito e
Spagna), a Londra si può toccare con mano la disperazione alto-borghese
per la decisione popolare. Abbiamo sentito con le nostre orecchie un
docente inglese fare questo limpido ragionamento: “Dobbiamo votare
un’altra volta perché, a tre anni dal primo voto, l’esito può cambiare:
in questi tre anni saranno morte alcune persone anziane che avevano
votato per la Brexit e saranno diventati maggiorenni molti giovani che
sono a favore dell’Unione Europea. Se prima eravamo cinquanta e
cinquanta, questi cambiamenti possono averci fatto superare la soglia!”...
Prolungando il ragionamento, si potrebbero far votare i dodicenni che
ascoltano MTV e organizzare l’eutanasia di massa per i vecchi che vivono
in campagna... così, giusto per stare più sicuri...
Ma andiamo alla carta stampata, che continua a rappresentare la
cartina di tornasole delle opinioni liberal-democratiche: il settimanale
“Internazionale” – organo ufficiale dei sinceri democratici con
tendenze alla vacanza all’estero – dà spazio a un articolo veramente
illuminante di Martin Fletcher (da “New Statesman”), molto equilibrato
nel definire l’attuale situazione britannica come “grottesca e
disastrosa, un epico atto di autolesionismo provocato non da una guerra o
da una catastrofe naturale ma dalla stupidità”. Secondo il
giornalista-scriba i manifestanti pro Remain dello scorso 23 marzo (un
milione di persone, ma nel Regno Unito gli aventi diritto al voto sono
circa quaranta milioni) e i cinque milioni di sottoscriventi – sul sito
del Parlamento europeo... – l’appello per revocare l’art. 50, che attiva
l’uscita (sempre contro i 40 milioni circa di aventi diritto al voto,
comunque) sarebbero “persone sensate”, mentre chi vuole uscire dall’UE
un “nemico del popolo”. Curioso l’utilizzo di questo termine in bocca a
un esponente dell’élite, che infatti lo usa al contrario... Fletcher
prosegue la sua analisi, spiegandoci perché si è arrivati a questo
impasse: “Il peccato originale lo ha commesso David Cameron, primo
ministro conservatore dal 2010 al 2016, che oggi è impegnato a scrivere
le sue memorie e ad arricchirsi grazie alle conferenze che tiene in giro
per il mondo. I britannici non hanno mai chiesto a gran voce un
referendum sull’appartenenza all’Unione Europea. Cameron lo ha indetto
per un solo motivo: compattare il Partito conservatore e tenere a freno
l’Ukip, il partito nazionalista e antieuropeo di Nigel Farage. Ha
offerto a un elettorato male informato una scelta secca – dentro o fuori
– su una questione straordinariamente complicata e di rilievo
costituzionale, senza neanche prevedere un quorum del 60 per cento
perché il voto fosse valido”.
In poche righe abbiamo un distillato di riflessione elitaria,
supponente, classista e... rosicona! In sostanza, la filigrana
dell’affermazione può leggersi nel modo seguente: ‘Non bisogna far
votare il popolo, a proposito dell’Unione Europea, perché altrimenti il
risultato sarà sempre negativo’: i referendum costituzionali del 2005 in
Francia e Olanda, d’altro canto, sono una prova empirica di questa
affermazione. Piuttosto, è interessante notare come nel giro di pochi
lustri si sia passati dal votare addirittura una “quasi-Costituzione”
dell’UE (bocciata, bocciatissima) al decidere sulla permanenza o meno di
uno Stato membro. Stessa modalità decisionale (referendum ieri e
referendum oggi), stesso risultato (voto anti-europeo), stessa
irriducibilità da parte del ceto politico ad accoglierne l’esito.
Andiamo avanti: Cameron avrebbe commesso un errore strategico, indicendo
una consultazione su una tematica di politica estera, partendo da
obiettivi di politica interna (togliere il terreno sotto ai piedi a
Farage). Qui non vediamo dove sia il problema, perché storicamente il
referendum è uno strumento che si presta a un doppio livello di
utilizzo, uno formale e uno sostanziale. Renzi non voleva forse imporre
un plebiscito sulla sua figura mediante un referendum costituzionale?
[Quante soddisfazioni, quel voto...]. Fletcher continua con la retorica
del cittadino “male informato” (‘Si informi, caro Cittadino, si
informi’, pare sentirlo dire), per poi concludere con un sano
pragmatismo: bisognava mettere una soglia di sbarramento più alta, era
necessario porre ulteriori ostacoli. Ad esempio, si poteva limitare il
voto ai manager della City oppure agli studenti di Oxford, a quelli che
lavorano in un posto in cui c’è il tavolo da ping pong per farsi venire
le idee e le pareti sono tutte colorate. Cose così, insomma. Invece
hanno votato i pensionati, quelli dello Yorkshire, i disoccupati, quelli
che portano le pizze a quelli che lavorano vicino al tavolino da ping
pong e che magari vogliono qualche chance in più per fare il lavoro di
cameriere o di barista al pub, magari senza la concorrenza italiana o
polacca.
Sull’abbrivio di una simile partenza, Fletcher continua con la sua
fantasiosa descrizione dell’esito del referendum del 23 giugno 2016:
“ciarlatani, furfanti e demagoghi” hanno fatto emergere “gli aspetti
peggiori del carattere britannico: la xenofobia, l’ultranazionalismo,
l’aggressività, l’insularità [sic! Magari se fossero stati una penisola
come la Danimarca avrebbe vinto il Remain!], l’arroganza e il perverso,
testardo orgoglio della propria ignoranza”. Beh, c’è poca politica e
molto folklore in questa descrizione. Il resto è anche peggio: una summa
dei luoghi comuni che accompagnano, da un decennio a questa parte, i
voti “sgraditi”: c’è l’influenza di Putin, ci sono i consulenti malvagi
di Trump, le fake news – relative soprattutto alla facilità della futura
trattativa per l’uscita [fermo restando che le difficoltà sarebbero
state poste, successivamente, dai tifosi del Remain e dalle istituzioni]
– c’è l’appoggio alla May definito “imbarazzante” fornito dal Partito
unionista democratico, ottenuto in cambio di miliardo di sterline per
l’Irlanda del Nord [eppure quando l’Ulster veniva beneficiato da
trasferimenti monetari senza eguali nelle altre nazioni del Regno, per
togliere ossigeno alla rivolta dell’IRA, la mossa fu giudicata un
capolavoro politico], poi si arriva a Corbyn e al Partito laburista,
accusato di essere “un sostenitore della Brexit che finge di voler
restare nell’Unione”… Magari, verrebbe da dire… In realtà è
condivisibile quanto scritto da un altro commentatore citato da
Fletcher, a proposito dei Laburisti: “Un’opposizione che si nasconde”,
ma va tradotto in una prospettiva opposta. Corbyn, infatti, si era
trovato nell’irripetibile condizione di essere il vero artefice della
Brexit, “recuperando” da una iniziale timidezza, con l’aggiunta – in
omaggio – di arrivare alla probabile vittoria elettorale. Si è ben
guardato dal compiere un’impresa possibilissima, mostrandosi indeciso e
imbarazzato, proprio quando serviva fornire anche quelle certezze che
non si avevano.
In versione “Sor Tentenna”, Corbyn ha finito per
scontentare tutti: la pancia del suo elettorato, che è sostanzialmente
contraria all’Unione Europea (altrimenti non si capisce da dove siano
giunti, tre anni fa, tutti quei voti per il Leave), e persino i moderati
della buona borghesia, che ieri non si sono fidati del suo rimanere a
metà del guado e che neppure oggi si fidano, nonostante
l’ufficializzazione della richiesta di un secondo referendum. Richiesta
suicida, evidentemente, e avvenuta fuori tempo massimo: troppo tardi per
evitare la sconfitta alle Europee, probabilmente in tempo per
assicurare la sconfitta alle nuove Politiche a cui sembra destinato il
Paese, a meno che Boris Johnson non proceda come un bulldozer, sempre
che non faccia la fine di Puigdemont. Non abbiamo abbastanza elementi
per capire il perché di così poca lucidità in Corbyn, a cui va
riconosciuto, come parzialissima discolpa, che da sempre gode di una
pessima stampa: venne accusato di essere “vetero-comunista”, quando
prese la guida del Partito, viene accusato di essere “modernista” da
quando ha prodotto la giravolta pro-UE. Sarebbe semplice, dal nostro
punto di vista, tacciarlo sinteticamente come “traditore della classe
operaia” oppure ricordare come il partito che ha elaborato, al suo
interno, l’ultima ciambella di salvataggio per una socialdemocrazia già
in crisi (la “Terza via”, che Giddens mise in bocca a Tony Blair,
baronetto mancato) non poteva certo essere quello che affossava da
sinistra l’UE, ma il problema è più complesso: in parte chiama in causa
sicuramente la complessità interna del Partito, diventato sempre di più –
come in tanti altri casi europei – “omnibus”, capace cioè di essere
colonizzato internamente da interi gruppi (non necessariamente vicini
alle posizioni della sinistra radicale), che alzano il livello della
sfida, rispetto al tempo delle semplici correnti, e lo rendono
semplicemente ingovernabile oppure – che è peggio! – ostaggio dei
sondaggi, del “sentiment” sui social e dei trend topic. “Con un leader
laburista un minimo più capace, il Regno Unito non avrebbe mai votato a
favore della Brexit”, dice Fletcher; “con un leader laburista un minimo
più capace, il Regno Unito sarebbe già fuori dall’Unione Europea”,
diciamo noi, e aggiungiamo anche che ciò sarebbe avvenuto senza colpo
ferire, a livello di qualità della vita, soprattutto per le masse
popolari. I dati parlano chiaro, per quanto si riferiscano a indicatori
assolutamente parziali e “impopolari”: il Regno Unito nell’ambasce per
la Brexit ha avuto nel 2017 un PIL pro capite pari a 39.700 dollari Usa.
Era di 39.500 euro nel 2013, quando l’uscita dall’UE non era ancora
all’orizzonte: se consideriamo che l’attuale situazione di incertezza è
addirittura peggiore, per gli onnipotenti mercati, di un Leave o di un
Remain, gli allarmi su un immediato default economico paiono infondati.
Anche la crescita (limitata) dell’inflazione, tra l’altro, andrebbe
annoverata tra le performance positive, almeno stando alle aspettative
che gli economisti rivolgono da tempo all’UE. Bisognerebbe chiedersi,
piuttosto, come mai quel PIL pro capite fosse di ben 45mila dollari nel
2007, nonostante la fase politica inglese stesse conoscendo il
travagliato passaggio da Blair a Gordon Brown, e sia poi sceso
drammaticamente.
È questa, semplicemente, una delle ragioni che hanno
condotto la maggioranza dei britannici, tre anni fa, a ribaltare
idealmente l’esito di un altro referendum, quello che nel 1975 confermò
la presenza del Regno Unito nella Comunità europea: all’epoca l’economia
inglese, tra le cenerentole della CE, guardava con invidia il resto
dell’Europa comunitaria e decise, quindi, di continuare a farne parte,
sperando di beneficiarne. Nel 2016 era cambiato il Regno Unito, ma era
cambiata anche l’Europa: più larga, più divisa e con molti Stati membri
più poveri dell’Inghilterra. Concreto, quindi, il rischio di finire
risucchiati giù, piuttosto che aiutati a innalzarsi.
Continuiamo, però, con Fletcher, vessillo dell’upper class che vuole
rimanere attaccata ai suoi privilegi come un gabbiano alle scogliere di
Dover. Dopo aver paragonato i Brexiter ai bolscevichi del 1917 e ai
rivoluzionari francesi del Settecento (troppa grazia, qui scende la
lacrimuccia di commozione...), il nostro eroe adombra minacce che
pensavamo essere prerogativa degli scriba italiani: “È estremamente
improbabile che i fautori dell’uscita possano convincere un milione di
persone a scendere in piazza o che un’eventuale manifestazione a favore
della Brexit si svolga in modo allegro e pacifico”. Insomma, o sono
pochi, questi estremisti, o sono cattivi e violenti, ben lontani dai
gioiosi, democratici ed entusiasti giovani europeisti. È la vecchia
storia: provare con l’estetica a imporre quei contenuti che la
materialità dei fatti esplicitamente nega.
Più interessanti, a questo punto, i ragionamenti proposti da
Remainers maggiormente sofisticati, come quelli che si interrogano sui
limiti del sistema elettorale inglese, da sempre portavoce ufficiale del
maggioritario con collegi uninominali: come si deve comportare quel
laburista – in cuor suo europeista – eletto in un collegio a maggioranza
Brexit? Pare non siano pochi i parlamentari in questa condizione, tanto
da far emergere – si potrebbe dire ‘ufficializzare’ – la separazione
tra rappresentanti e rappresentati nel sistema politico britannico. A
chi spetta l’ultima parola? Alla piena espressione della sovranità
popolare oppure al meccanismo della rappresentanza, che pure è
esplicitamente previsto, all’interno delle democrazie liberali? Cosa
fare, inoltre, nel caso del referendum del 23 giugno 2016, quando – si
calcola – andarono a votare tre milioni di britannici che solitamente
disertano le urne? La democrazia diretta si è presa la sua definitiva
rivincita su quella rappresentativa?
Accanto alla teoria politica, però, ci interessa la prassi: adesso
cosa succede? Una Brexit compiuta assumerebbe le sembianze del sol
dell’avvenire? Sicuramente no, dal momento che Boris Johnson già
minaccia politiche ultra-liberiste, magari stringendo un patto mortale
con Trump, e che l’accozzaglia dei mille motivi per fuggire da Bruxelles
comprende aspetti poco condivisibili. Fare politica, però, significa
avere una progettualità che consenta al movimento delle cose reali di
passare attraverso tappe intermedie, quando non ci sia lo spazio per
procedere spediti. Una di queste tappe, indifferibile, consiste nel
rompere la gabbia dell’Unione Europea con ogni mezzo necessario. Il
grimaldello, in questo caso, verrebbe fornito da un Paese che ha da
sempre uno “statuto speciale”, come Stato membro dell’UE. Nonostante
questo, la sua cittadinanza chiede di uscire e crea un rompicapo che è
stato definito “la più complicata questione con cui la Gran Bretagna si è
trovata a confrontarsi dai tempi della II Guerra Mondiale”.
Lo conferma il caro Fletcher e il suo finale con il botto: “Se questo
non succederà [rimanere nell’Unione Europea alle attuali condizioni],
il Regno Unito – impoverito, emarginato e ridimensionato – sgattaiolerà
via con la coda tra le gambe dal più grande esperimento di cooperazione
multinazionale che il mondo abbia mai tentato”.
Applausi. Sipario.
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