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31/10/2019

Iraq - La repressione non placa le rivolte

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

I giovani iracheni sembrano non aver più paura di nulla. Nonostante la durissima repressione della polizia (250 morti e 8mila feriti da inizio ottobre) e le intimidazioni armate delle milizie sciite che martedì a Karbala hanno compiuto una strage (18 uccisi), le piazze restano piene. Di persone, tende, smartphone che di notte illuminano le marce, di canti. Bella ciao, in arabo, risuonava nei giorni scorsi, intonata da migliaia di persone. Come in Cile, la settimana scorsa. Disobbedienza civile ma anche azioni che hanno effetti concreti.

Ieri i manifestanti hanno bloccato il porto di Umm Qasr, a Bassora. È qui che arrivano grano, verdure, olio, zucchero, poi distribuiti a tutto il paese, ampiamente dipendente dalle importazioni estere per il settore alimentare. Il blocco ha costretto lo scalo a lavorare al 20% della sua capacità, con le autorità portuali che avvertivano: così si impenneranno i prezzi dei beni primari.

Dalla loro i manifestanti hanno l’appoggio dei capi tribali, in Iraq centrali per la tenuta sociale e politica (lo sapeva bene Saddam): le tribù, vicine alle richieste popolari, hanno dato 48 ore al governo per liberare le centinaia di arrestati di Bassora.

Qui nel sud quelle richieste risuonano quasi più impellenti che altrove, non a caso già nelle due estati passate i capi tribali avevano dato man forte alle proteste per il lavoro: la presenza delle grandi compagnie petrolifere straniere non si traduce in occupazione né in servizi migliori, mentre i contadini scappano dalle campagne desertificate dal crollo del livello di Tigri ed Eufrate.

Ha scelto il sud sciita per farsi vedere tra i manifestanti anche il leader religioso Moqtada al-Sadr, come al solito in prima fila nel sostenere le piazze contro l’establishment (di cui è parte): chiede le dimissioni del premier Adel Abdul-Mahdi, le cui promesse di riforme non bastano a un popolo povero e senza prospettive di redistribuzione della ricchezza.

Martedì al-Sadr ha partecipato alle proteste a Najaf, città santa sciita. Tolto il sostegno alla coalizione che appoggia Abdul-Mahdi, ha fatto appello al blocco parlamentare filo-iraniano rivale al-Fatah, guidato dal potente capo dell’organizzazione sciita Badr, Hadi al-Amiri, per far cadere il premier. Vuole elezioni anticipate e vuole farlo con l’avversario che gli ha già risposto di sì.

Ma gli iracheni vogliono di più: non la mera ripetizione di un sistema settario fallimentare ma la sua fine, accompagnata a una nuova costituzione asettaria. Nel mirino c’è proprio la classe dirigente sciita e il suo sponsor, l’Iran. Teheran è preoccupata: ieri, secondo fonti governative, il generale Soleimani, capo dell’unità al-Quds dei pasdaran, ha fatto visita all’esecutivo nella Zona Verde.

A Baghdad, invece, tra ai manifestanti in piazza Tahrir ieri è scesa l’inviata del segretario generale dell’Onu, Jeanine Hennis-Plasschaert: «Condanno l’alto numero di morti e feriti nelle proteste, c’è bisogno di dialogo nazionale», ha detto in riferimento al fuoco aperto sulla folla nella capitale e nelle città del sud. Parole simili quelle dedicate ieri da papa Francesco all’«amato Iraq»: «Invito le autorità ad ascoltare il grido della popolazione che chiede una vita degna e tranquilla».

Per ora il solo intervento parzialmente in linea con le richieste della piazza è quello del Supremo Consiglio giudiziario che ha annunciato l’apertura di inchieste contro parlamentari accusati di corruzione.

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