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20/10/2019

Algoritmi e neutralità della scienza

Gustavo Zagrebelsky dalle colonne di Repubblica ha rilanciato un tema di dibattito che può essere giudicato come fondamentale per affrontare la modernità: quello della neutralità della scienza e del suo distacco dall’etica.

In conclusione del suo discorso Zagrebelsky definisce come ideologica la ricerca della “purezza della scienza”, una purezza che dovrebbe poi proteggere la pretesa di neutralità.

Secondo l’autore tutto ciò finisce per essere un alibi per il non vedere, da parte degli scienziati, il senso delle proprie azioni e chiedere così un’autorizzazione in bianco.

La frase conclusiva dell’intervento di Zagrebelsky recita: “Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba, un cobra o una chimera o magari nulla”.

Questa frase mi ha ricordato il 1976, quando quattro fisici della Sapienza – Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona-Lasinio – si misero a riflettere su come la ricerca scientifica e il suo decorso fossero storicamente soggetti a logiche economiche, e quindi su come le stesse rivoluzioni scientifiche mettessero in crisi l’immagine della scienza come superiore alla storia. «L’idea di autonomia delle teorie scientifiche rispetto alla società […] non ha fondamento nella realtà», scrivevano ne L’ape e l’architetto, un testo che almeno a mio giudizio rimane fondamentale proprio per affrontare il discorso sull’autonomia e la neutralità della scienza.

I quattro autori erano stati ispirati da una frase scritta da Marx nel “Capitale” “Ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera». Il processo lavorativo porta alla luce un risultato già immaginato come idea dal lavoratore.

Al tempo stesso, i mezzi utilizzati per realizzare il lavoro sono «indici dei rapporti sociali nel quadro in cui viene compiuto il lavoro» oltre che elementi di distinzione dell’epoca economica in corso”.

Oggi sentiamo spesso il discorso della decisionalità assunta attraverso l’algoritmo: un discorso che intende segnalare proprio un dato di neutralità, di oggettività scientifica nella determinazione delle scelte – ad esempio – in economia e anche in politica.

Possiamo così ricondurre il discorso sulla neutralità algoritmica a quello sulla neutralità della scienza, e con questo metterlo a critica.

Si legge nel già citato “L’ape e l’architetto” «Non-neutralità è un concetto formalmente negativo ma in quella formulazione è implicita una considerevole articolazione e un arricchimento nell’idea di scienza e di scientificità».

Sarebbe da chiedersi, allora, come sia stato possibile passare in poco più di trent’anni dalla riflessività epistemologica dei saggi di cui sopra alla fede iper-ottimistica in correlazioni statistiche e tecnologie opache.

Quasi sicuramente la risposta ha a che fare con il mito del calcolo nell’era dei big data e i tanti meccanismi di potere cui questo discorso si collega.

Tuttavia scrivono Daniele Gambit e Massimo Airoldi: “come il Turco Meccanico creato da von Kempelen nel 1769 per Maria Teresa d’Austria illudeva di giocare a scacchi autonomamente mentre era in realtà controllato da un umano, così le più recenti tecnologie di intelligenza artificiale traggono risultati sulla base dell’apprendimento compiuto su dati prodotti da migliaia di utenti connessi e delle scelte ingegneristiche nascoste nel codice software.”

Il dibattito pubblico e anche quello accademico sfuggono però a qualsiasi argomentazione critica e rimangono in larga misura dominati da una sorta di positivismo ingenuo legato a una narrazione tecno-ottimista e pro big data.

Emerge allora una domanda che equivale a quella che si pone Zagrebelsky nel saggio citato all’inizio: come ricollegare scienza ed etica; come criticare il mito della neutralità algoritmica senza diventare i custodi di un “passato che non ritorna”?

Il primo punto da assumere nel cercare di fornire una risposta, riguarda la consapevolezza che nell’applicazione del dominio della scienza e dei suoi effetti tecnologici, emerge sempre un rapporto mercificante tra soggetto e oggetto in una forma sempre più piena.

È necessario essere capaci di esercitare una funzione critica sulla violenza che la tecnica, frutto della scienza del dominio, esprime implicitamente.

Serve una critica che reclami il recupero delle finalità umanistiche che avevano contraddistinto l’emergere della civiltà moderna, anche attraverso l’espressione delle utopie egualitarie e della “critica all’economia politica”.

Diventa necessaria una “critica all’egemonia della scienza”, prestando attenzione, comunque, a non prestare il fianco alle idee del “ritorno all’indietro”, di un decadente conservatorismo, o peggio ancora del lasciare le scelte collettive semplicemente in mano agli egoismi o ai tormenti dell’anima dei singoli.

Queste contraddizioni non possono essere considerate irrisolvibili oppure da affidarsi a una sorta di “risoluzione trascendente”.

Deve essere sconfitta una ritrovata “rivoluzione conservatrice” e recuperato il senso di una razionalità fondata sull’espressione della politica intesa come frutto di una dialettica sistemica.

La scienza non deve essere intesa come espressione della volontà di potenza che si esprimeva nel ‘900 attraverso i giganteschi apparati di coercizione di massa e di avvio verso lo sterminio e adesso più sottilmente attraverso meccanismi di costrizione occulta dei popoli dentro i confini della miseria e della diseguaglianza in un quadro di nuova “selezione di massa”.

Il solo antidoto possibile a questo tragico scenario è quello del ritorno alla politica e all’espressione attraverso di essa di finalità umanistiche che, ostinatamente, possono essere ancora comprese nell’ideale di un obiettivo di eguaglianza economica, sociale e culturale.

Un’eguaglianza diffusa come base per affrontare l’inedito quadro di contraddizioni che la tragica maschera della modernità ci sta mettendo di fronte.

Politica, insomma, come suo primato inteso come fattore dell’umana coesistenza che assume l’aspetto di un’identità collettiva, considerata non tanto dal punto di vista del potere ma essenzialmente intesa quale energia, anche conflittuale, che deve essere all’origine della sua forma da concretizzarsi attraverso soggetti che concorrono alla legittimità, per far sì che proprio il potere non tenda ad accrescere se stesso.

Politica come generazione di controforze che sfidano il potere in nome di un concetto non astratto di libertà e di capacità di fornire un senso alle scelte collettive di contrasto alla sopraffazione della tecnica e dell’economia.

Utopia? Necessaria quanto l’etica intesa come fondarsi su valori morali condivisi dai quali possa discendere la realtà quotidiana dell’agire politico.

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