di Marco Santopadre
Due anni fa, poco prima
che tre milioni di catalani partecipassero al referendum per
l’indipendenza dal Regno di Spagna, l’amministrazione Trump affermò che
gli Stati Uniti avrebbero rispettato l’esito della consultazione,
qualunque esso fosse. Pochi giorni dopo il Pentagono impose un
cambiamento di linea e il sostegno totale alla Spagna, uno dei pilastri
dello schieramento della Nato nel Mediterraneo.
Ma è nel Vicino Oriente che si manifesta in maniera più eclatante lo
stato confusionale che regna alla Casa Bianca ormai da parecchi anni. Sul terreno siriano Washington ha infatti cambiato strategia più e più volte, peggiorando sempre più la sua situazione.
Inizialmente gli Stati Uniti sostengono politicamente, ma
anche militarmente ed economicamente, la destabilizzazione del paese,
foraggiando i cosiddetti “ribelli” fondamentalisti. Il modello è
quello libico, sperimentato poco prima: il 6 luglio 2011, alcuni mesi
dopo l’inizio delle proteste popolari contro Assad, l’ambasciatore Usa
Robert Ford va ad incontrare i ribelli armati ad Hama.
Ben presto però Washington si accorge che la maggior parte dei gruppi
armati lavorano per conto delle varie potenze regionali arabe e per la
Turchia, “alleati” degli Usa ma con essi ormai in aperta competizione.
Allora Washington – all’epoca governava Obama – cominciò a
creare una milizia mercenaria di “ribelli moderati”, il cosiddetto Free
Syrian Army. Senza successo: le milizie mercenarie messe su a caro
prezzo si sfasciavano una dietro l’altra integrandosi nei
gruppi legati ad Al Qaeda e allo Stato Islamico, ai quali portavano in
dono i soldi e le armi ricevute dagli americani.
Nuovo cambiamento di strategia: gli Stati Uniti intervengono
direttamente in Siria non più per rovesciare il regime di Assad ma per
bloccare l’Isis. Washington si offre di sostenere i curdi che nel Nord
della Siria cercano di ricacciare indietro i jihadisti – sostenuti da
Erdogan – e di difendere le loro comunità, approfittando del ritiro delle truppe siriane per sperimentare l’autonomia e il Confederalismo Democratico.
Gli Usa forniscono armi, sostegno aereo e consiglieri militari alle
milizie curde (ma i bombardamenti delle postazioni di Daesh procedono a
rilento, perché ovviamente una rapida sconfitta dello Stato Islamico
delegittimerebbe la permanenza Usa sul suolo siriano). In cambio ottengono la possibilità di creare proprie basi nel Rojava, nelle quali inviano circa duemila militari.
L’intervento diretto degli Stati Uniti e l’avanzata dei
jihadisti su più fronti spinge la Russia a intervenire massicciamente.
Mosca mira a puntellare il regime, per evitare la disintegrazione del
paese e la vittoria delle forze fondamentaliste sunnite, per difendere le basi navali sulla costa siriana che garantiscono alla Russia un comodo sbocco sul mediterraneo.
Grazie agli errori di Washington, per la prima volta dopo decenni
truppe russe agiscono in un paese del Vicino Oriente, affiancate
dall’esercito di Teheran e da decine di migliaia di volontari sciiti
provenienti da Libano, Iraq, Iran e altri paesi. L’intervento militare russo e sciita si dimostra presto risolutivo soprattutto nel centro e nel sud della Siria.
Preoccupata dei progressi delle truppe lealiste sostenute da
Mosca e Teheran, gli Usa si lanciano alla liberazione – per interposta
persona – di alcune importanti città siriane attraverso le milizie curde
impiegate anche al di fuori dei territori da loro tradizionalmente
abitati, nel frattempo integrate in un’alleanza, sostenuta direttamente
da Washington, ribattezzata “Forze Democratiche Siriane” e formata anche
da reparti arabi e delle altre minoranze etnico-religiose.
La sconfitta quasi totale dei fondamentalisti islamici consegna una situazione di stallo: il
paese è in buona parte liberato da Daesh e da Al Qaeda ma è alle prese
con una esplosiva compresenza di diverse forze. Da una parte lealisti,
russi e sciiti, dall’altra i curdi sostenuti dagli statunitensi (mentre
nelle basi in Rojava arrivano anche militari francesi, britannici e
tedeschi).
Nel 2018 il nuovo presidente Trump promette un rapido e totale disimpegno degli Usa dalla Siria.
Il Pentagono lo smentisce e i militari di Washington rimangono nelle
basi create nella Siria settentrionale, crescendo addirittura di numero.
Nel frattempo il regime di Erdogan, scampato al tentativo di colpo di
stato del 15 luglio 2016 (organizzato, accusa il Sultano, a
Washington), vista la sconfitta dell’opzione jihadista, decide di
intervenire direttamente sul suolo siriano attraverso delle
“mini-invasioni” che prendono di mira i curdi e che mettono nuovamente
in fibrillazione l’inconsistente strategia Usa.
Erdogan agisce da alleato sempre più indipendente da
Washington e stringe addirittura un’alleanza con Mosca e Teheran (quanto
durevole è difficile dirlo) sulla gestione dello scenario siriano,
potendo contare su una certa tolleranza da parte di questi ultimi che
sperano così in una definitiva fuoriuscita di Ankara dalla Nato.
L’ultimo step è quello iniziato una decina di giorni fa. Erdogan
annuncia una nuova invasione del nord della Siria – ribattezzata
“Sorgente di pace” – per creare quella “zona cuscinetto” in territorio
curdo che non è riuscito a realizzare completamente nelle due precedenti
operazioni militari. Sembra godere dell’ok – tacito o esplicito conta
poco vista la coincidenza momentanea di interessi – ricevuto alla
Conferenza di Astana da Russia e Iran.
Gli Usa entrano di nuovo in confusione: Trump annuncia il
ritiro totale delle truppe dal Rojava, mentre il Pentagono smentisce e
la maggioranza repubblicana al Congresso addirittura si organizza per
imporre sanzioni alla Turchia. Alcune centinaia di militari statunitensi
si allontanano dal confine turco-siriano consentendo
l’avanzata delle truppe turche e dei reparti dell’Esercito Siriano
Libero formati in buona parte da jihadisti di varia provenienza e da
truppe mercenarie (formate anche da ex militari disertori di Damasco)-
Washington cerca di frenare le ambizioni turche ma non può alzare
troppo la voce, pena la consegna di Erdogan tra le braccia di Putin. Il
bombardamento “per errore” di una postazione statunitense nel nord della
Siria da parte dell’artiglieria di Ankara esplicita l’impazienza turca
nei confronti dell’ex padrone di Washington.
L’abbandono statunitense dei curdi convince questi ultimi a siglare
un accordo militare con Damasco – mediato dai Russi – che invia truppe
verso i confini settentrionali.
In otto anni la disastrosa (non) strategia di Washington –
con la colpevole complicità o tolleranza europea – ha provocato enormi
distruzioni, centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di
profughi, ma davvero scarsissimi risultati dal punto di vista
strategico. Al contrario, nell’area Washington è sempre più isolata e
le sue truppe si trovano ora strette in una complicata tenaglia: a nord
l’esercito turco e i mercenari jihadisti riciclati nel cosiddetto
“Esercito Nazionale” (l’ex Free Syrian Army), a sud i siriani con la
copertura aerea dei russi.
Nel frattempo Russia e Iran hanno rafforzato la propria
egemonia nell’area e anche gli ex alleati subalterni – Turchia e Arabia
Saudita – perseguono una propria agenda spesso in contraddizione con gli
interessi americani.
Ora c’è da capire se l’accordo di Astana reggerà: se i turchi si
fermeranno potranno probabilmente continuare a occupare una consistente
striscia di territorio interna alla Siria ed Erdogan potrà vendere alla
sua opinione pubblica l’ennesimo colpo inferto “ai terroristi curdi” e
il recupero di una parte di quel suolo siriano che Ankara rivendica come
proprio da quasi un secolo. Al tempo stesso, Damasco avrà recuperato
almeno in parte il controllo sul Nord-Est del paese e rotto l’alleanza
tra curdi e Stati Uniti.
Se la Turchia dovesse però spingersi oltre, i fragili
equilibri finora raggiunti potrebbero saltare. Un eventuale scontro tra
gli eserciti di Ankara e Damasco rimetterebbe tutto in gioco e
scatenerebbe un’escalation.
Nel frattempo, la posizione di Mosca si è fatta più complicata,
dovendo gestire contemporaneamente le alleanze con due paesi – la
Turchia e la Siria – ormai apertamente contrapposti.
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