Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

16/10/2019

Medio Oriente - USA in confusione totale

di Marco Santopadre

Due anni fa, poco prima che tre milioni di catalani partecipassero al referendum per l’indipendenza dal Regno di Spagna, l’amministrazione Trump affermò che gli Stati Uniti avrebbero rispettato l’esito della consultazione, qualunque esso fosse. Pochi giorni dopo il Pentagono impose un cambiamento di linea e il sostegno totale alla Spagna, uno dei pilastri dello schieramento della Nato nel Mediterraneo.

Ma è nel Vicino Oriente che si manifesta in maniera più eclatante lo stato confusionale che regna alla Casa Bianca ormai da parecchi anni. Sul terreno siriano Washington ha infatti cambiato strategia più e più volte, peggiorando sempre più la sua situazione.

Inizialmente gli Stati Uniti sostengono politicamente, ma anche militarmente ed economicamente, la destabilizzazione del paese, foraggiando i cosiddetti “ribelli” fondamentalisti. Il modello è quello libico, sperimentato poco prima: il 6 luglio 2011, alcuni mesi dopo l’inizio delle proteste popolari contro Assad, l’ambasciatore Usa Robert Ford va ad incontrare i ribelli armati ad Hama.

Ben presto però Washington si accorge che la maggior parte dei gruppi armati lavorano per conto delle varie potenze regionali arabe e per la Turchia, “alleati” degli Usa ma con essi ormai in aperta competizione. Allora Washington – all’epoca governava Obama – cominciò a creare una milizia mercenaria di “ribelli moderati”, il cosiddetto Free Syrian Army. Senza successo: le milizie mercenarie messe su a caro prezzo si sfasciavano una dietro l’altra integrandosi nei gruppi legati ad Al Qaeda e allo Stato Islamico, ai quali portavano in dono i soldi e le armi ricevute dagli americani.

Nuovo cambiamento di strategia: gli Stati Uniti intervengono direttamente in Siria non più per rovesciare il regime di Assad ma per bloccare l’Isis. Washington si offre di sostenere i curdi che nel Nord della Siria cercano di ricacciare indietro i jihadisti – sostenuti da Erdogan – e di difendere le loro comunità, approfittando del ritiro delle truppe siriane per sperimentare l’autonomia e il Confederalismo Democratico.

Gli Usa forniscono armi, sostegno aereo e consiglieri militari alle milizie curde (ma i bombardamenti delle postazioni di Daesh procedono a rilento, perché ovviamente una rapida sconfitta dello Stato Islamico delegittimerebbe la permanenza Usa sul suolo siriano). In cambio ottengono la possibilità di creare proprie basi nel Rojava, nelle quali inviano circa duemila militari.

L’intervento diretto degli Stati Uniti e l’avanzata dei jihadisti su più fronti spinge la Russia a intervenire massicciamente. Mosca mira a puntellare il regime, per evitare la disintegrazione del paese e la vittoria delle forze fondamentaliste sunnite, per difendere le basi navali sulla costa siriana che garantiscono alla Russia un comodo sbocco sul mediterraneo.

Grazie agli errori di Washington, per la prima volta dopo decenni truppe russe agiscono in un paese del Vicino Oriente, affiancate dall’esercito di Teheran e da decine di migliaia di volontari sciiti provenienti da Libano, Iraq, Iran e altri paesi. L’intervento militare russo e sciita si dimostra presto risolutivo soprattutto nel centro e nel sud della Siria.

Preoccupata dei progressi delle truppe lealiste sostenute da Mosca e Teheran, gli Usa si lanciano alla liberazione – per interposta persona – di alcune importanti città siriane attraverso le milizie curde impiegate anche al di fuori dei territori da loro tradizionalmente abitati, nel frattempo integrate in un’alleanza, sostenuta direttamente da Washington, ribattezzata “Forze Democratiche Siriane” e formata anche da reparti arabi e delle altre minoranze etnico-religiose.

La sconfitta quasi totale dei fondamentalisti islamici consegna una situazione di stallo: il paese è in buona parte liberato da Daesh e da Al Qaeda ma è alle prese con una esplosiva compresenza di diverse forze. Da una parte lealisti, russi e sciiti, dall’altra i curdi sostenuti dagli statunitensi (mentre nelle basi in Rojava arrivano anche militari francesi, britannici e tedeschi).

Nel 2018 il nuovo presidente Trump promette un rapido e totale disimpegno degli Usa dalla Siria. Il Pentagono lo smentisce e i militari di Washington rimangono nelle basi create nella Siria settentrionale, crescendo addirittura di numero.

Nel frattempo il regime di Erdogan, scampato al tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 (organizzato, accusa il Sultano, a Washington), vista la sconfitta dell’opzione jihadista, decide di intervenire direttamente sul suolo siriano attraverso delle “mini-invasioni” che prendono di mira i curdi e che mettono nuovamente in fibrillazione l’inconsistente strategia Usa.

Erdogan agisce da alleato sempre più indipendente da Washington e stringe addirittura un’alleanza con Mosca e Teheran (quanto durevole è difficile dirlo) sulla gestione dello scenario siriano, potendo contare su una certa tolleranza da parte di questi ultimi che sperano così in una definitiva fuoriuscita di Ankara dalla Nato.

L’ultimo step è quello iniziato una decina di giorni fa. Erdogan annuncia una nuova invasione del nord della Siria – ribattezzata “Sorgente di pace” – per creare quella “zona cuscinetto” in territorio curdo che non è riuscito a realizzare completamente nelle due precedenti operazioni militari. Sembra godere dell’ok – tacito o esplicito conta poco vista la coincidenza momentanea di interessi – ricevuto alla Conferenza di Astana da Russia e Iran.

Gli Usa entrano di nuovo in confusione: Trump annuncia il ritiro totale delle truppe dal Rojava, mentre il Pentagono smentisce e la maggioranza repubblicana al Congresso addirittura si organizza per imporre sanzioni alla Turchia. Alcune centinaia di militari statunitensi si allontanano dal confine turco-siriano consentendo l’avanzata delle truppe turche e dei reparti dell’Esercito Siriano Libero formati in buona parte da jihadisti di varia provenienza e da truppe mercenarie (formate anche da ex militari disertori di Damasco)-

Washington cerca di frenare le ambizioni turche ma non può alzare troppo la voce, pena la consegna di Erdogan tra le braccia di Putin. Il bombardamento “per errore” di una postazione statunitense nel nord della Siria da parte dell’artiglieria di Ankara esplicita l’impazienza turca nei confronti dell’ex padrone di Washington.

L’abbandono statunitense dei curdi convince questi ultimi a siglare un accordo militare con Damasco – mediato dai Russi – che invia truppe verso i confini settentrionali.

In otto anni la disastrosa (non) strategia di Washington – con la colpevole complicità o tolleranza europea – ha provocato enormi distruzioni, centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di profughi, ma davvero scarsissimi risultati dal punto di vista strategico. Al contrario, nell’area Washington è sempre più isolata e le sue truppe si trovano ora strette in una complicata tenaglia: a nord l’esercito turco e i mercenari jihadisti riciclati nel cosiddetto “Esercito Nazionale” (l’ex Free Syrian Army), a sud i siriani con la copertura aerea dei russi.

Nel frattempo Russia e Iran hanno rafforzato la propria egemonia nell’area e anche gli ex alleati subalterni – Turchia e Arabia Saudita – perseguono una propria agenda spesso in contraddizione con gli interessi americani.

Ora c’è da capire se l’accordo di Astana reggerà: se i turchi si fermeranno potranno probabilmente continuare a occupare una consistente striscia di territorio interna alla Siria ed Erdogan potrà vendere alla sua opinione pubblica l’ennesimo colpo inferto “ai terroristi curdi” e il recupero di una parte di quel suolo siriano che Ankara rivendica come proprio da quasi un secolo. Al tempo stesso, Damasco avrà recuperato almeno in parte il controllo sul Nord-Est del paese e rotto l’alleanza tra curdi e Stati Uniti.

Se la Turchia dovesse però spingersi oltre, i fragili equilibri finora raggiunti potrebbero saltare. Un eventuale scontro tra gli eserciti di Ankara e Damasco rimetterebbe tutto in gioco e scatenerebbe un’escalation.

Nel frattempo, la posizione di Mosca si è fatta più complicata, dovendo gestire contemporaneamente le alleanze con due paesi – la Turchia e la Siria – ormai apertamente contrapposti.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento