Da diversi giorni si dibatte sull’intenzione annunciata dal Ministro della sanità Speranza di modificare il sistema di tasse sulle prestazioni sanitarie, ossia il conosciutissimo ticket.
La proposta sembra vertere su una rimodulazione dei ticket in base alle
fasce di reddito e sull’abolizione del super-ticket, un obolo di 10
euro che dal 2007 si somma al ticket ordinario su ogni prestazione già
gravata dalla tassa.
Il cosiddetto ticket sanitario esiste
formalmente in Italia dal 1989 e venne applicato per la prima volta nel
1993. Nato come tassa simbolica con l’intenzione di disincentivare la
domanda smodata di sanità frenando gli abusi, con il tempo è diventato
sempre più elevato acquisendo un peso molto consistente che negli anni
più recenti si è attestato mediamente a circa 4-5 miliardi di euro annui
complessivi di spesa compartecipata (ossia proveniente direttamente dai
cittadini che pagano il ticket). Il ticket colpisce una quantità
cospicua di farmaci e tutte le visite mediche diagnostiche, e può
superare la cifra di 40-50 euro per diverse prestazioni a seconda delle
regioni.
Il sistema, sin dagli inizi, ha garantito
delle fasce di esenzione legate a fattori di reddito, condizioni di
salute ed età. Attualmente è prevista l’esenzione solo per:
- persone sopra i 60 anni e bambini sotto i 6 anni che appartengono ad un nucleo familiare con reddito inferiore a 36.000 euro annui lordi;
- disoccupati che appartengono ad un nucleo familiare con reddito inferiore agli 11.000 euro lordi annui;
- soggetti affetti da determinate malattie croniche.
La gran parte delle persone, dunque,
anche se povere ed anche se affette da svariate patologie croniche non
incluse nella lista delle esenzioni, si ritrovano a pagare il ticket per
ogni prestazione sanitaria.
Gli argomenti usati per giustificare l’esistenza dei ticket sono essenzialmente due:
- il primo, già menzionato e usato come cavallo di Troia per spianare la strada all’introduzione della tassa, è il presunto effetto disincentivante al fine di favorire un utilizzo appropriato della sanità;
- il secondo, emerso in modo crescente negli anni a venire con il
consolidamento delle politiche di austerità in Italia e in Europa, è la presunta necessità di garantire un cofinanziamento a carico del paziente in un contesto di scarsità e difficoltà di reperimento delle risorse pubbliche.
Rispetto al primo elemento, va rilevata
la profonda iniquità di un approccio che vorrebbe sostituire la
sacrosanta educazione sanitaria di medici e pazienti, utile ad evitare
un sovra-utilizzo abusivo delle strutture sanitarie, con l’arma del
disincentivo economico che colpisce a pioggia tutti i soggetti, venendo
così a creare un pericoloso effetto ‘distorsivo’ sulla prevenzione e la
cura anche laddove, sia la prevenzione che la cura, fossero pienamente
giustificate ed utili. Politiche di controllo dei medici curanti e
campagne di sensibilizzazione ed educazione sanitaria capillari
sortirebbero, viceversa, un effetto potenziale di moderazione degli
abusi senza gravare sulle tasche dei cittadini bisognosi di percorsi di
indagine diagnostica e di cura.
Il secondo elemento, base essenziale
delle politiche economiche adottate nell’ultimo trentennio, va smontato
radicalmente dalle fondamenta: non esiste scarsità di risorse
pubbliche in un sistema economico con una disoccupazione a doppia cifra
lontanissimo dal pieno impiego. Lo Stato potrebbe spendere
risorse in deficit creando occupazione, crescita e servizi per il
cittadino, compresi quelli sanitari; inoltre, anche in un sistema che,
per ipotesi, abbia raggiunto il pieno impiego, le risorse per un sistema
sanitario andrebbero reperite tramite uno sforzo collettivo di tipo progressivo
che gravi in modo crescente, tramite la tassazione diretta, sui redditi
più alti e sulla generalità delle persone anziché sulla persona in
stato di bisogno sanitario.
È infatti evidente la forte regressività di una tassa quale il ticket sanitario
che colpisce con cifre fisse una prestazione, indipendentemente dal
reddito del soggetto che ne usufruisce, andando dunque a gravare in modo
infinitamente più forte sul povero rispetto al ricco. È altresì
evidente la regressività che quella tassa genera rispetto allo stato di
bisogno, indipendentemente dal reddito percepito, nella misura esatta in
cui colpisce il malato, il bisognoso, colui che deve intraprendere un
percorso diagnostico per necessità e non invece colui che quel percorso
ha la fortuna di non doverlo intraprendere perché è in buone condizioni
di salute.
Tornando alla proposta di Speranza, che
ricalca peraltro una proposta già annunciata nel 2014 dal governo Renzi e
poi mai attuata, l’idea di una rimodulazione dei ticket sanitari sulla
base dei livelli di reddito potrebbe a prima vista sembrare ragionevole
nella misura in cui introduce dei minimi elementi di progressività in
quell’impianto che, come abbiamo visto, impone una tassa in somma fissa dagli effetti gravemente regressivi.
Eppure le cose non sono così ovvie e ci sono ottime ragioni per ritenere l’approccio della proposta viziato all’origine.
Partiamo da una prima considerazione: l’accesso alle cure e il mantenimento della salute è un diritto universale,
tra i più basilari che una società dovrebbe riconoscere ad una persona.
La malattia, la sofferenza, lo stato di bisogno psico-fisico sono
esigenze che sorgono per accidenti della vita e non certo per
responsabilità individuali (se non in casi molto marginali). Si tratta
quindi di un bisogno di cui l’intera società dovrebbe farsi carico con
risorse collettive senza che sia il bisognoso di turno a sostenerne il
costo. Si potrebbe obiettare: ma se il bisognoso è ricco non avrà certo
problemi a finanziare almeno in parte il costo di un percorso
diagnostico ed aiuterà così il sistema a reperire risorse per i più
poveri! L’obiezione è sbagliata per almeno due motivi.
Il primo motivo è che ricchi e poveri devono essere discriminati a monte nel processo di imposizione fiscale,
e non a valle al momento dell’accesso ad un servizio a buona ragione
giudicato universale. È la progressività generale delle imposte,
vergognosamente ridotta al lumicino
nel sistema italiano degli ultimi decenni, a garantire, all’origine, la
progressività del finanziamento di un servizio come quello sanitario.
Il vero obiettivo, dunque, dovrebbe essere quello di incrementare drasticamente il grado di progressività del sistema tributario (in direzione diametralmente opposta rispetto alla proposta leghista della flat tax)
nella sua struttura facendo pagare tante imposte a chi può
permetterselo e poi finanziare con questo gettito i servizi pubblici
universali per tutti, al netto peraltro dell’ampia possibilità di
finanziamento in deficit.
Voler ripristinare la progressività
perduta a valle rappresenta un palliativo non solo iniquo, ma anche
inefficace e persino pericoloso. Iniquo, perché si decide di tassare il benestante malato e bisognoso al posto della generalità dei benestanti. Inefficace,
perché è ben noto che i più ricchi non fanno uso della sanità pubblica,
ricorrendo nella maggioranza dei casi a diagnostica e cura privata
coperta da laute assicurazioni. Pericoloso, infine,
perché apre la pista ad un nuovo concetto di stato sociale che da anni,
non solo in ambito sanitario, si tenta di affermare nei Paesi europei
sulla scia del modello anglosassone e sulla spinta delle politiche di austerità:
ossia quello di uno Stato sociale compassionevole con i soggetti più
poveri e che viene finanziato, di fatto, da quelli un po’ meno poveri
tramite sistemi impositivi sempre meno progressivi.
Lo Stato sociale universalistico di molte
nazioni europee si sviluppò nel corso del Novecento e in particolare
nei tre decenni che seguono la fine della seconda guerra mondiale sulla
base di un principio generale: lo Stato è in grado di
intervenire nell’economia garantendo a tutti servizi socialmente
rilevanti, che devono essere sottratti alla logica del mercato, e che
possono essere finanziati collettivamente, o tramite ricorso al deficit o
tramite imposte fortemente progressive. Istruzione e sanità
hanno rappresentato da sempre i capisaldi dello Stato sociale
universalistico assieme ad altri ambiti parzialmente o integralmente
sottratti alla logica del mercato.
Il modello di stato sociale anglosassone
di marca statunitense è sempre stato invece di natura ben diversa: lo
Stato interviene coprendo con servizi essenziali diretti o finanziando
monetariamente l’uso di servizi privati, le esigenze primarie della
popolazione più povera, mentre tutti gli altri, compresa la gran massa
della classe media e medio-bassa, non povera ma certo non ricca, si
paga cure, istruzioni e servizi di ogni altro genere da sé in genere
tramite un sistema assicurativo privato. Il tutto basato su un sistema
di imposizione fiscale meno progressivo degli omologhi europei che
implica un forte carico sulla classe media. Si chiama Stato sociale
compassionevole, limitato alla popolazione più povera, basato non
sull’idea del diritto sociale universale ma su quella dell’assistenza
minima e spesso scadente, limitata agli indigenti. Un sistema che nei
fatti implica una redistribuzione di risorse dalla classe media e medio-bassa ai più poveri
(quindi interna alla classe lavoratrice) mentre i ricchi godono senza
affanni di servizi privati di eccellenza e finanziano solo marginalmente
i limitati servizi universali. Un sistema che, come noto, in ambito
sanitario crea mancato accesso alle cure, alla prevenzione e una spesa privata abnorme a tutto vantaggio di assicurazioni e sanità privata.
In campo sanitario, per fortuna, l’Italia
è ancora lontana dall’aver adottato il modello nord-americano, potendo
vantare uno dei sistemi di cura della malattia universalistici più
avanzati e accessibili al mondo. Tuttavia, nell’ambito diagnostico e di
prevenzione il processo di mercificazione e privatizzazione è in corso
da molti anni e in via di preoccupante avanzamento. Il ticket sempre più
esoso e, ancora di più, le liste di attesa chilometriche
che implicano attese fino ad un anno per prestazioni anche importanti,
hanno spianato volutamente la strada alla sanità privata o ad odiosi
sistemi intermedi come l’Intramoenia di uso semi-privato di strutture
pubbliche che consentono, pagando di più, di scavalcare le liste
estenuanti. A ciò si aggiunge il grave processo di regionalizzazione
avviato dal 2001 con la Riforma del Titolo V che ha creato pesanti
disparità territoriali in termini di qualità, costo ed entità delle
liste di attesa.
Di fronte a questa situazione
emergenziale la proposta del ministro Speranza, al netto del
condivisibile proposito di abolizione erga omnes del
super-ticket, non introduce alcun vero cambiamento di prospettiva, ma
finisce per cristallizzare molte delle tendenze in atto. Limitarsi
a rimodulare i ticket facendo pagare meno ai poveri e presumibilmente
di più ai meno poveri (la proposta avanzata da Speranza è, infatti, a
tutti gli effetti, una riforma a costo zero e a parità di introiti
sanitari), coprendo ideologicamente il tutto con l’esempio del tutto
marginale del ricco che finalmente pagherà di più per accedere a servizi
iniquamente garantiti sotto-costo, ha un significato e delle
implicazioni molto chiare.
L’adozione di una proposta simile significa rinunciare in modo ufficiale all’universalità del servizio sanitario; significa praticare una redistribuzione interna alla classe lavoratrice tra redditi medi e bassi ovvero una guerra tra poveri e un po’ meno poveri;
significa infine trascurare il fatto che la mercificazione e la
privatizzazione strisciante del sistema di prevenzione e diagnostica
sono dovute sia alla presenza dei ticket gravanti sulla generalità della
fasce di reddito medie e basse, sia, soprattutto, alle mostruose liste
di attesa che spostano fette crescenti della popolazione dal pubblico al
privato a tutto beneficio di cliniche private lautamente convenzionate e
assicurazioni private. Una situazione scandalosa che vede il servizio
pubblico di diagnostica e prevenzione non solo sempre più costoso, ma
spesso semplicemente inesistente poiché attendere un anno per poter
ottenere delle analisi la cui utilità si misura in giorni o settimane
significa, di fatto assenza conclamata del servizio.
Una vera alternativa, se così vuole chiamarsi, in campo sanitario, dovrebbe dunque basarsi:
- sul ripristino della centralità del servizio pubblico gratuito e universale;
- sulla totale abolizione del ticket per tutti;
- la riduzione drastica delle liste di attesa attraverso, ad esempio, cospicui investimenti nella sanità pubblica, che prevedano la costruzione di ospedali nuovi e che contemplino nuove e maggiori assunzioni di medici e infermieri;
- sul riorientamento della spesa pubblica oggi destinata a centri privati a favore di più capillari servizi pubblici;
- sull’abolizione di sistemi semi-privati come l’intramoenia;
- ed infine sulla ricentralizzazione territoriale del servizio per superare le intollerabili asimmetrie regionali oggi esistenti.
Un’impostazione che richiede, a monte, lo scardinamento del dogma della scarsità delle risorse imposto dall’austerità fiscale di matrice europea,
una drastica inversione di tendenza nelle politiche tributarie a favore
di sistemi che siano realmente progressivi e la fine
dell’assoggettamento dell’interesse pubblico agli interessi del capitale
privato in ambito sanitario e in ogni ambito della vita economica.
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