Il Libano vive da molti mesi una condizione di instabilità causata da fattori sia interni che esterni. Da
circa un anno nel Paese dei Cedri non c’è un Presidente della
Repubblica a causa dei veti incrociati dei diversi attori politici e le
conseguenze della guerra siriana si stanno riversando con forza sulla
società e sull’economia libanese. In un Paese dove il
bilanciamento delle cariche tra le diverse componenti etnico-religiose è
stato centrale nella garanzia della stabilità e della sicurezza
interna, la mancanza di accordo nell’elezione del Capo di Stato ha, di
fatto, approfondito le linee di frattura già pre-esistenti nella società
oltre a rallentare la messa in atto di politiche sociali ed economiche.
A questo si sono, inoltre, sommati gli effetti della guerra
civile nella vicina Siria e dell’avanzata dello Stato Islamico e di
Jabhat Al Nusra nella stessa Siria ed in Iraq: flussi continui di
profughi, recrudescenza degli scontri tra sciiti e sunniti anche sul
territorio libanese, indebolimento dell’economia locale.
Da un lato si stima che sul suolo
libanese siano accolti più di un milione di rifugiati, la maggior parte
dei quali siriani, a fronte di una popolazione di circa 5 milioni di
abitanti con le conseguenti necessità di assistenza primaria e le
problematiche sociali di un così cospicuo afflusso di persone. La
situazione è tale che a inizio maggio la Banca Mondiale ha dichiarato
che verranno stanziati circa 20 milioni dollari a favore del Libano per far fronte alle necessità dei profughi. Dall’altra i risvolti
economici e di sicurezza di una guerra civile alle porte sono rilevanti.
Scontri di confine tra milizie contrapposte sono all’ordine del
giorno e, in alcuni casi, si è assistito ad attentati anche all’interno
del territorio libanese. Dal punto di vista economico, invece,
il blocco istituzionale e l’emergenza alle porte hanno indotto un
leggero peggioramento degli indici economici del Paese che ha
contribuito a rafforzare la percezione di instabilità di alcuni settori
sociali.
In questo contesto si inserisce il
discorso pronunciato il 24 maggio da Hassan Nasrallah, Segretario
Generale del movimento sciita libanese Hezbollah, durante le
commemorazioni per i 15 anni dal ritiro di Israele dal territorio
libanese. Prendendo spunto dall’esperienza di occupazione
israeliana, il leader sciita ha sottolineato la necessità di resistere
all’avanzata dello Stato Islamico cercando di creare un fronte unico
formato da tutti i partiti della galassia politica libanese.
Nasrallah ha, infatti, concentrato buona parte del suo discorso sulle
scelte, a suo parere errate, di alcuni partiti libanesi che, durante
l’occupazione israeliana del sud del Libano, scelsero un approccio
collaborativo anziché conflittuale con l’occupante. Il riferimento
storico, benché privo di diretti attacchi a singoli partiti, è sembrato
funzionale a mettere sotto accusa quei movimenti e partiti che, ad oggi,
osteggiano la scelta di Hezbollah di prendere parte attiva nella
questione siriana.
Il Partito di Dio, infatti, da molti
mesi ha scelto di impiegare uomini ed armamenti per combattere le
milizie dell’IS e di al Nusra sia in Libano sia oltre confine. In questo
senso le dichiarazioni dei giorni scorsi potrebbero sembrare una
normale riproposizione di scelte già espresse e messe in atto, ma così
non è. A lungo, infatti, Nasrallah è stato cauto nel promuovere le
proprie attività al fianco del Presidente siriano Assad in funzione
anti-islamista. Questo perché la questione dei rapporti tra Siria e
Libano è da sempre, e in particolar modo a seguito dell’uccisione
dell’ex Primo Ministro Rafiq Hariri nel 2005, foriera di problematiche
di difficile soluzione in seno alla politica ed alla società libanese. Il
posizionamento di Hezbollah nell’asse sciita con la famiglia al-Assad e
l’Iran non è mai stato negato, ma la partecipazione attiva alla guerra
civile siriana veniva considerata da molti una scelta azzardata che
avrebbe potuto far tracimare i combattimenti in territorio libanese
oltre a dare al Governo siriano la possibilità di aumentare la propria
influenza nelle questione interne al Paese dei cedri.
Alla luce di tutto questo non stupisce
l’alzata di scudi delle altre componenti politiche libanesi come il
Movimento 14 marzo di Saad Hariri, figlio ed erede politico del defunto
Rafiq. L’ex premier libanese avrebbe, infatti, accusato
Nasrallah e il suo movimento di mettere in pericolo il proprio Paese,
sacrificando la sovranità nazionale libanese e mandando i propri
cittadini a combattere una guerra non loro. Una posizione che,
pur basandosi su problematiche reali che potrebbero impattare
negativamente sul contesto libanese, non considera le possibili
conseguenze di una vittoria di Jabhat al Nusra e, soprattutto, dello
Stato Islamico. La necessità e l’urgenza di agire racchiuse nelle parole
pronunciate da Nasrallah nascono proprio dalla consapevolezza della
forza di queste compagini e della pericolosità del progetto da loro
portato avanti. La destabilizzazione di tutta l’area
mediorientale e la capacità di mobilitazione del campo sunnita da parte
dello Stato Islamico spaventa gli sciiti libanesi che, con l’esperienza
siriana e irachena alle porte, temono un effetto contagio sul loro
territorio.
Infine è necessario tenere conto
della divisione insanabile tra Arabia Saudita ed Iran e delle sue
ripercussioni sulle dinamiche interne del Paese dei cedri. L’attacco
saudita allo Yemen, in questo senso, viene letto da Hezbollah come
monito rispetto alla possibilità di avanzamento delle compagini sciite
nell’area. Alla luce di tutto questo diventa evidente come la
dichiarazione di intenti di Nasrallah possa esacerbare i dissidi interni
e trasformarli in breve in una questione d’area con conseguenze di vasta
portata.
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