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27/05/2015

Bahrein - La repressione silenziosa

Ali Salman
di Sonia Grieco

Tra le cosiddette primavere arabe, quella del Bahrein è stata probabilmente la più silenziosa, quella su cui si sono accesi di meno i riflettori. Ed è così anche per la repressione del dissenso che sta segnando gli anni seguiti alle manifestazioni pacifiche di Piazza della Perla, nella capitale Manama, disperse con la forza dall’intervento delle truppe del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), sorta di Nato della Penisola arabica dominato dall’Arabia Saudita.

Da quella sollevazione popolare, l’arcipelago del Golfo Persico è sempre in fibrillazione: le proteste, soprattutto della maggioranza sciita, non si sono mai fermate, mentre la dinastia sunnita Al Khalifa ha stretto la morsa sugli oppositori del regime. Blitz della polizia, arresti, torture nelle carceri continuano e rischiano di alimentare le divisioni tra sciiti e sunniti. Sono terreno fertile per il settarismo che sta scuotendo la regione.

Nelle ultime settimane si sono ripetute proteste di piazza per l’incarcerazione di uno dei più noti e seguiti leader dell’opposizione: Ali Salman, segretario generale della maggiore coalizione dell’opposizione, al Wefaq. Salman è finito in cella lo scorso dicembre per avere partecipato a una manifestazione contro le elezioni legislative, boicottate dalla maggioranza sciita. Tra le accuse contestategli anche quelle di tentativo di sovversione del regime e di collaborazionismo con potenze straniere.

Accuse respinte con forza da Salman, noto per essere un leader moderato e tra quelli che hanno sostenuto il dialogo nazionale rilanciato dalla casa reale nel 2014, ma fallito anche per l’arresto dell’allora segretario generale di Wefaq, Khalil al Marzooq. E in Bahrein non ha avuto seguito neanche l’iniziativa di re Hamad di istituire una commissione d’inchiesta (la Bahrein Independent Commission of Inquiry-BICI) per far luce sulle violenze subite dai manifestanti durante lo sgombero, a febbraio del 2011, di Piazza della Perla. Sulla persecuzione dei dissidenti, dei politici, degli attivisti, dei leader religiosi, invece, è calato il silenzio. L’arresto di Salman, però, ha sollevato diverse critiche da parte delle organizzazioni locali e internazionali, tra le quali Amnesty International che ha chiesto il suo rilascio.

Il prossimo 16 giugno il leader di al Wefaq sarà alla sbarra per la quinta udienza del suo processo. Intanto, le manifestazioni a suo sostegno si tengono a cadenza quasi settimanale. Non è l’unico oppositore finito dietro le sbarre, tra quelli più noti ci sono l’attivista per i diritti umani Nabeel Rajab, direttore del Centro per i diritti umani del Golfo e cofondatore del Centro per i Diritti Umani nel Bahrein, che rischia venti anni di carcere per avere denunciato in un tweet la provenienza di combattenti dell’Isis dai ranghi delle forze di sicurezza del regno, che ha definito “incubatori ideologici” per jihadisti sunniti. Inoltre, sono stati arrestati anche l’ex presidente del Centro per i Diritti Umani nel Bahrein, Hadi al Khawaja, e la figlia Zaynab.

La primavera bahreinita è finita con la morte di decine di manifestanti e la scomparsa di tanti altri. Migliaia di oppositori sono finiti in carcere e in centinaia sono stati mandati in esilio. Le riforme promesse dalla casa reale non sono mai state realizzate e nel silenzio internazionale gli Al Khalifa hanno stretto la morsa della repressione con leggi liberticide, che di fatto sospendono il diritto di manifestare e limitano i movimenti degli esponenti politici. Inoltre, sono state inasprite le pene per il reato di oltraggio al re e nel pacchetto di norme anti-terrorismo c’è pure il carcere “per negligenza” (fino a un anno) per i genitori di minorenni che commettono “atti terroristici”.

Nel 2002 il sultanato divenne una monarchia costituzionale, ma questa riforma calata dall’alto non ha intaccato la supremazia dell’oligarchia sunnita e della casa reale che ha l’ultima parola su tutto. Inoltre, questo minuscolo regno è un alleato strategico degli Stati Uniti, è la base della V flotta Usa e quindi è considerato un bastione occidentale contro le mire espansionistiche dell’Iran.

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