Una conquista dopo l’altra: qualche ora dopo aver strappato al
presidente Assad la città di Palmira, prima volta in cui l’Isis assume
il controllo di una zona direttamente sotto il governo di Damasco, il
califfato si è preso anche l’ultimo valico di confine tra Siria e Iraq.
L’esercito si sarebbe ritirato da al-Tanf, frontiera siriana
nella provincia di Homs, nota anche come al-Waleed dalla parte irachena.
Un altro risultato significativo: il confine tra i due paesi che
condividono l’occupazione islamista è ormai quasi del tutto controllato
dall’Isis, che ormai da mesi può far passare armi, cibo, uomini da una
parte all’altra di una frontiera ormai inesistente.
La notizia giunge insieme alle dichiarazioni dell’Osservatorio
Siriano per i Diritti Umani, organizzazione basata a Londra e da 4 anni
impegnata nell’opposizione al presidente Assad: lo Stato
Islamico controllerebbe la metà del paese, 95mila metri quadrati di
terre, che dalle porte di Aleppo arrivano a Raqqa e alla provincia di
Deir Ezzor a nord e si allargano fino al centro. Zone che,
fatta eccezione per le città, sono per lo più desertiche e poco
popolate, ma che garantiscono al califfo libertà di manovra verso
l’Iraq, a est, e verso ovest, dove stanno le città roccaforte di Assad.
A monte sta il fallimento della strategia Usa che – se in
Iraq si limita a mandare armi al governo di Baghdad e a bombardare le
postazioni Isis – in Siria si ostina a non voler discutere con Damasco,
unica reale forza rimasta sul terreno a combattere l’avanzata islamista.
A protezione delle zone ovest del paese, in particolare del confine con
il Libano, la zona calda delle montagne di Qalamoun, c’è Hezbollah
i cui miliziani continuano ad aumentare di numero. Per ora appare
improbabile che l’Isis lanci un’offensiva contro il potente gruppo
sciita, ma a preoccupare è la capacità militare islamista, non intaccata
da un anno di raid della coalizione.
A interferire nella guerra civile siriana, trasformatasi in
un’occupazione di metà territorio da parte islamista, è ancora una volta
la Turchia, da anni accusata di sostenere indirettamente l’avanzata
dell’Isis. La Reuters ha pubblicato oggi le testimonianze di un
procuratore e di funzionari della gendarmeria turchi secondo il quale i
servizi segreti di Ankara avrebbe permesso la consegna di armi a gruppi
islamisti tra il 2013 e il 2014. Non all’Isis, ma ad altri gruppi che sarebbero poi passati nelle file del califfato.
Secondo le testimonianze raccolte, i servizi avrebbe inviato a bordo di camion missili, munizioni e razzi.
La procura ne è venuta a conoscenza dopo perquisizioni compiute dalla
polizia nella provincia di Adana, alla fine del 2013 e gennaio 2014. Dei
quattro camion perquisiti, solo uno è stato confiscato: gli
altri sono stati lasciati andare dopo le minacce dei funzionari
dell’intelligence turca ai poliziotti. A ricevere gli aiuti militari
sarebbe stato il gruppo islamista Ahrar al-Sham, guidato da Abu Omair
al-Shamy, ex membro di al Qaeda e braccio destro di al-Zawahiri.
Il presidente Erdogan ha subito negato le accuse e parlato di uno
“Stato parallelo” che sta lavorando per screditare il governo di Ankara e
sostenere i suoi nemici.
Intanto Palmira subisce le barbare violenze degli uomini del califfo: video
pubblicati su internet da account di sostenitori dell’Isis mostrano
soldati governativi decapitati, morti per strada, una città fantasma (si
valuta che un terzo della popolazione sia riuscito a fuggire). Le
Nazioni Unite si dicono preoccupate da rapporti secondo i quali le forze
governative siriane avrebbero impedito la fuga dei residenti. Ieri però
il governatore provinciale di Palmira dava una versione diversa: le
truppe hanno coperto la fuga di 1.500 abitanti diretti a Homs e Damasco.
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