Nella copertina dell'Economist di questa settimana è raffigurato un mondo schiacciato dal debito e dalle sue esenzioni fiscali, il titolo che campeggia è La grande distorsione,
una distorsione che costituisce «una pericolosa crepa al cuore
dell'economia mondiale». L'autorevole rivista torna a riflettere (e a
mettere in guardia) sugli attuali limiti sistemici, sul debito in tutte
le sue varianti, ma in particolare su quello privato e sulle
agevolazioni fiscali di cui gode. Una forma «assurda di sovvenzione» che
incentiva la creazione di ulteriore debito. Un connubio che non solo
genera maggiori diseguaglianze, ma addirittura per l'Economist
costituisce un fattore di ostacolo all'efficienza del sistema, favorendo
oltremodo la patrimonializzazione della ricchezza, anziché investimenti
produttivi capaci di creare valore.
Insomma la rivista inglese parrebbe avanzare una critica all'impalcatura
su cui si fonda l'attuale meccanismo economico globale. Una critica che
proviene dall'interno dell'establisment tanto che sottolinea come tali
agevolazioni non siano fornite ai più generali investimenti finanziari
oppure come nell'eurozona i costi del debito sovrano superino quelli
della difesa. Un settore implicitamente ritenuto capace di creare
direttamente valore economico oltre che geo-politico. Ma proprio per la
fonte da cui proviene appare un campanello d'allarme significativo. Ciò che preoccupa l'Economist non
è il debito in sé, il quale è ritenuto uno degli strumenti cruciali
dell'economia contemporanea, ma il suo costante crescere in termini
assoluti e in relazione al Pil. Al di sopra di una certa soglia
il debito viene considerato un problema e gli incentivi per aumentarlo
sono ritenuti pericolosi. Non si parla, dunque, della quantità di debito
sovrano, che attraverso una logica dei vasi comunicanti ha assorbito
una quota rilevante di debiti privati nei paesi più ricchi, in
particolare dove è esplosa la crisi, ma del debito in termini
complessivi.
Una ricerca uscita a febbraio di McKinsey
riguardante il periodo 2007-2014 ha sostenuto come, a fronte della crisi
finanziaria, siano state contraddette le attese di una riduzione del
debito globale, il quale è aumentato di ben 57.000 miliardi di dollari,
passando dal 270 al 286% del Pil. In questo arco di tempo nei
paesi più sviluppati è stato ridotto il debito privato e dei cittadini,
mentre è cresciuto quello pubblico, mentre i debiti complessivi sul Pil
sono cresciuti soprattutto nei paesi emergenti. In termini assoluti le
cifre restano ancora lontane, le quote di debito dei paesi occidentali
costituiscono la fetta più grande della torta, ma è significativo che la
Cina, paese considerato la fabbrica del mondo e dunque ben ancorato
all'economia reale, abbia quadruplicato il proprio debito, che è passato
da 7.000 miliardi nel 2007 a 28.000 nel 2014, finendo per rappresentare
il 282% del Pil. Con ritmi di indebitamento paragonabili a quelli di
Grecia e Spagna. Che anche l'economia reale sia ingolfata dai debiti lo
dimostra il fatto che dall'esplosione della crisi l'indebitamento dei
settori non finanziari (Stati, cittadini e imprese) sia cresciuto
relativamente al Pil in 42 delle 47 più grandi economie del pianeta.
La crisi è esplosa nella sfera finanziaria, ma i mali sono ben più profondi.
La logica del debito ha superato i confini della finanza creativa,
divenendo il fattore che fa crescere, seppur sempre più limitatamente,
l'intera economia. L'accelerazione dei livelli di indebitamento
dei paesi emergenti e il loro bruciare le tappe lungo la scala dello
sviluppo del capitalismo contemporaneo ci parlano non solo di come
l'economia finanziaria sia fragile, ma anche di come le sue logiche
siano diventate inesorabili per tutti i settori dell'economia di mercato
a qualsiasi latitudine.
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