di Vincenzo Maddaloni
BERLINO.
Per celebrare i loro fasti coloniali, l'approccio degli inglesi
sicuramente non sarebbe stato lo stesso. Avrebbero rispolverato le
cornamuse, i pifferi, tra un grande sbattere di tacchi e l'arroganza che
li contraddistingue. Diverso infatti è il tono usato dei tedeschi.
Discreto, sommesso, quasi pretesco ma non per questo meno pervaso di
orgogliosa solennità.
Ne è una riprova la mostra “Dance of the Ancestors Art from the Sepik
of Papua New Guinea” (resterà aperta fino al 15 di giugno al
Martin-Gropius-Bau di Berlino), che offre lo spunto per ricordare che è
esistito pure l'Impero coloniale tedesco il Deutsche Kolonien und
Schutzgebietee che durò soltanto 35 anni.
Infatti, la Nuova
Guinea è stata dal 1884 un protettorato tedesco che comprendeva il
territorio della parte nord-orientale del Paese e alcuni arcipelaghi
vicini, che rimasero appunto sotto il controllo coloniale germanico fino
al 1919 quando, a seguito della sconfitta della Germania nella Prima
guerra mondiale, furono ceduti con il Trattato di Versailles
all'Australia.
E così il defilé di sculture e di antiche immagini
nella mostra al Martin-Gropius-Bau di Berlino fa tornare in mente
Christa Wolf quando scrive che “il passato non è morto; e non è
nemmeno passato”, sebbene, “noi ci stacchiamo da esso fingendoci
estranei”.
Beninteso la memoria del passato – tra rimozione ed
eterno ritorno – non ci guadagna in profondità e in complessità,
piuttosto in semplificazione, superficialità, e sempre più spesso in
manipolazione. Non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria
pubblica, collettiva e politica, costituita da moltissimi elementi a
loro volta condizionati dalla volgarizzazione della cultura di base
realizzata con le forme moderne di retorica e di populismo, messe in
atto con i mass-media e la televisione in particolare. Sicché i potenti
non possono che esserne soddisfatti.
A loro modo lo facevano anche gli antichi romani: panem et circenses
(letteralmente «pane e giochi [del circo]» e, quindi, dando a tutti la
percezione di condividere un’idea di civiltà, di bene comune. E'
l'universalismo, la globalizzazione che ha dato vita a queste società
che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo, ma sono
prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone.
Pertanto la partecipazione civile si limita sempre di più a funzioni che
permettono di raccomandare un contenuto, una memoria storica, un gesto
politico con il fatidico e il semplice “mi piace”.
I tedeschi –
finché possono – mantengono le distanze da questo universalismo
dirompente che tanto piace agli anglosassoni che lo impongono. Ai
tedeschi viene naturale prima evidenziare le differenze e poi,
eventualmente, unirsi. Poiché è l’insicurezza cosmica che da sempre li
guida nelle cose del mondo. È quella che li ha indotti a riformare la
loro economia quando gli altri, America in testa, folleggiavano. Un
segno di avvedutezza che li legittima nella guida d’Europa. Ne vanno
fieri.
E' una
consuetudine di governo che ha radici antiche. Infatti la bandiera
tedesca fu piantata nel Pacifico non dalle armate del sovrano, bensì da
Herr Adolf von Hansemann, direttore della Disconto-Gesellschaft, una
delle più importanti banche tedesche dell'epoca e fondatore della
Compagnia della Nuova Guinea Tedesca, la Deutsche Neuguinea-Kompagnie
creata il 26 maggio 1884 con lo scopo di fondare una nuova colonia
commerciale nella regione della Nuova Guinea non ancora occupata dalle
altre potenze coloniali.
Il governo tedesco però vi giunse due
anni dopo, poiché l'intraprendente direttore, sommerso dalle difficoltà,
fu costretto a “girare” allo Stato il mandato della Deutsche
Neuguinea-Kompagnie.
Raccontano i libri di storia che soltanto il
1º aprile 1899 la Germania prese ufficialmente il controllo del
territorio e il 30 luglio di quello stesso anno, a seguito di un
trattato con la Spagna, acquisì dei nuovi territori, diventando una
potenza coloniale da tutti i paesi riconosciuta.
Come tale durò
poco poiché, come detto, allo scoppio della prima guerra mondiale le
forze australiane occuparono Kaiser-Wilhelmsland mentre il resto dei
possedimenti coloniali della Nuova Guinea Tedesca vennero invasi dal
Giappone. Dopodiché con il Trattato di Versailles l'avventura coloniale
germanica si estinse.
Di questo e di altro se ne fa cenno nel
catalogo della mostra al Martin-Gropius-Bau, ma soltanto per ricordare
che la Grande Guerra bloccò l'opera degli esploratori tedeschi i quali
avevano scoperto le foci del fiume Sepik dopo aver per primi navigato
quelle acque sulla nave tedesca Ottilie. E chissà quant'altro avrebbero
scoperto ancora se non ci fosse stato il conflitto, lascia intendere la
breve nota della mostra.
Naturalmente essa ricorda pure che la
spedizione (1912-1913) del Königliches Museum für Völkerkunde (Museo
Reale di Etnologia) di Berlino è bastata per far capire al mondo che la
zona intorno al fiume Sepik è una delle regioni più importanti per la
ricerca etnografica e scientifica nei mari del Sud. La conclusione è –
anche se non è scritto in modo esplicito – che da quando il mandato
della Società delle Nazioni è stato affidato all'Australia con il nome
di Territorio della Nuova Guinea, si è fatto ben poco, quasi niente.
Ricordo
che quando negli anni Settanta attraversai per la prima volta l'ex
Kaiser-Wilhelmsland diventato Papua Nuova Guinea; dalla capitale Port
Moresby a Mount Hagen, da Angoram sul fiume Sepik fino a Wewak che si
affaccia sul Mare di Bismarck, di tedesco oltre il nome del mare era
rimasto ben poco, almeno così sembrava al primo impatto.
Invece,
per essere nel vero, erano rimaste le parrocchie luterane e cattoliche,
più numerose le prime delle seconde, sebbene le cattoliche siano ancora
oggi le più “fortunate” per numero di fedeli, poiché i loro riti
ecclesiali meglio si conciliano col folclore dei culti dei nativi.
Inoltre, ancora si parlava e si parla tuttora una sorta di lingua locale
mescolata alla lingua germanica denominata Unserdeutsch oppure il
Creolo tedesco di Rabaul, la città che fu per oltre un ventennio il
quartier generale della Nuova Guinea Tedesca.
Insomma, se si
tiene a mente che il 30 per cento della popolazione pratica culti
tradizionali, per lo più combinandoli con il Cristianesimo e il restante
69 per cento degli abitanti dichiara di praticare esclusivamente la
religione cristiana, ben si capisce che i tedeschi hanno lasciato un
segno indelebile. E quel risultato non l'hanno gridato, anzi non l'hanno
nemmeno celebrato adesso, con la mostra.
Un altro
segnale di avvedutezza che rientra nelle abitudini tedesche. Non vi è
Paese in Europa dove il dibattito politico sia così attutito dal bisogno
di non spaventare gli elettori e i vicini. Non vi è mai nulla di
gridato. Decisamente l'opposto di quanto accade in Italia. La differenza
si vede. Il Paese è competitivo, stabile come mai lo è stato e il
governo di Angela Merkel è inattaccabile per chiunque voglia criticarne i
risultati.
Eppure George Friedman, americano di origini
ungheresi, presidente del think-tank Stratfor, “un’autorità” in materia
di intelligence tattica e strategica globale, come lo ha definito il NYTimes,
parlando della Germania ha usato parole pesanti come pietre: “Per gli
Stati Uniti la paura fondamentale è che il capitale finanziario e la
tecnologia tedeschi si saldino con le risorse naturali e la mano d’opera
russe”. Ha aggiunto che è “l’unica alleanza che fa paura agli Stati
Uniti, cerchiamo di impedirla da un secolo”.
E ancora: “Mentre gli Stati Uniti stendono il loro cordone sanitario
fra Europa e Russia, e la Russia cerca di tirare l’Ucraina dalla sua
parte, non conosciamo la posizione della Germania che con la Russia ha
relazioni particolari” (per esempio l’ex Cancelliere Schoeder oltre a
presiedere il consorzio NorthStream è nel cda di Gazprom).
Friedman
parlava al Chicago Council of Global Affairs, una sorta di sede
distaccata dell’influente Council of Foreign Relations nel cui board
figura anche Michelle Obama.
Eppure
il presidente del think-tank Stratfor non s'è posto complessi quando ha
concluso ribadendo con veemenza: “La Germania è la nostra incognita.
Cosa farà? Non lo sanno nemmeno loro, i tedeschi”. Insomma per Friedman
la Germania “gigante economico, ma fragile a livello geopolitico è
l'eterno problema. Dal 1871 la questione europea è questione tedesca”.
Non
v'è stato un cenno ai comportamenti dell'Italia, per non dire della
Francia e di tutto il resto dell'Europa. Dopotutto, “io sono il primo
servitore dello Stato”, lo disse Federico, re di Prussia, mica altri.
Se
lo si confronta con l'irrefutabile "L'Etat c'est moi" di Luigi XIV
rifulge in tutta la sua dimensione la diversità tedesca. Essa offre
sempre nuovi pretesti agli americani per erigersi a dominatori del
mondo; innervosisce gli inglesi, mette in crisi di identità i francesi,
mentre i polacchi e i baltici si affannano riverenti a sostenere le mire
americane, gli italiani titubano e quel che resta dell'Unione balbetta.
Quanto basta perché l'Europa si ritrovi di nuovo in guerra per colpa
dei tedeschi? E' il post martellante che i neoconservatori americani
diffondono. Attendendosi il “mi piace”.
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