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23/05/2015

I Paradisi fiscali: un nuovo tipo di “stato canaglia”

La tematica dei paradisi fiscali è destinata ad acquistare una sempre maggiore rilevanza politica e il contenzioso andrà diventando sempre più aspro. La tendenza ha iniziato a manifestarsi già dal 2009, quando la crisi impose di forza il tema all’attenzione degli Stati ed, in particolare gli Usa iniziarono a premere perché i “paradisi fiscali” comunicassero gli elenchi dei loro facoltosi ospiti.

In effetti, qualche effetto fu ottenuto e, soprattutto Usa e Germania ottennero alcuni lunghi elenchi di nomi. Anche gli organi informativi di polizia tributaria iniziarono un’azione investigativa e un po’ in tutto il mondo spuntarono liste di contribuenti fuggiaschi, con risultati alterni da paese a paese.

Un caso molto interessante (che ci riguarda da vicino) è quello  della “lista Falciani”: un elenco di 80.000 clienti della filiale di Ginevra della banca londinese Hsbc (di cui 7mila italiani tra persone fisiche e società) trafugata dall’esperto informatico Hervè Falciani e poi sequestrata dalla procura di Nizza che la trasmise per rogatoria alla Procura Torinese. Ma, nel giudizio svoltosi contro uno degli evasori davanti al tribunale di Pinerolo, la  difesa ha invocato una legge del 2006 (nata per il caso Telecom) ed il giudice Gianni Reynaud archiviava il procedimento, perché l’investigazione si basava «su un dato processualmente inutilizzabile», in quanto frutto di un’«appropriazione indebita aggravata di documenti», ma anche e soprattutto «formato attraverso la “raccolta illecita di informazioni”, trattandosi della stampa di file contenuti in un sistema informatico riservato, nel quale Falciani si era abusivamente introdotto» o comunque «trattenuto per fini diversi dalle mansioni» che ne autorizzavano la password. Una prova ottenuta “contra legem” per cui  si disponeva la distruzione della lista.

Da un punto di vista giuridico la sentenza non fa una piega: Falciani (probabilmente per conto di qualche servizio di informazione e sicurezza) aveva sottratto la lista abusando del suo accesso al sistema informatico. Ma da un punto di vista di fatto, i conti non tornano: se si vogliono stanare i grandi capitali all’estero non si può agire che attraverso i servizi di informazione e sicurezza e con prassi dichiaratamente illegali. Anche se l’acquisizione fosse disposta da un’ Autorità giudiziaria, questo non sanerebbe nulla perché un giudice non ha poteri in un paese diverso dal suo. Procedere per rogatoria sarebbe inutile perché nel 90% dei casi o il ministero degli Esteri del paese interessato (da cui la richiesta deve passare) o la sua magistratura respingerebbero la domanda (o semplicemente non risponderebbero). In ogni caso, la procedura sarebbe lenta e facile alla fuga di notizie, dunque, votata a quasi sicuro fallimento.

Si potrebbe procedere in modo “coperto”: l’acquisizione illegale viene fatta dai servizi segreti (che esistono esattamente per questo scopo: acquisire illegalmente le notizie non conoscibili diversamente) che segnalano il contenuto delle notizie (senza esplicitarne l’origine)  agli organi di polizia giudiziaria, cui spetta il compito di svolgere le indagini ed acquisire le prove. Ma c’è da chiedersi come potrebbe procedere la polizia di fronte ad indagini all’estero e torneremmo al problema della rogatoria.

Anche in tema di “tracciabilità” informatica, seguendo cioè le “tracce” informatiche degli ordini di versamento o prelievo, non è affatto chiaro quale è la soglia della sovranità di fronte a cui la polizia di un paese deve arrestarsi, tenendo anche conto che molte operazioni vengono fatte “estero su estero”.

Pertanto, non restano che gli accordi internazionali, per i quali si abroga il segreto bancario e si conviene (quantomeno in Europa, dove la cosa potrebbe essere legittimata da un’apposita modifica del trattato istitutivo) che le banche siano immediatamente tenute a rispondere ai quesiti della magistratura o del fisco di un altro paese. Ma come procedere?

Con una legislazione speciale di emergenza come nel periodo del terrorismo, in cui si vararono norme in palese contrasto con la Costituzione (in particolare l’art. 13) che vennero temporaneamente legittimate dalla Corte Costituzionale, proprio con il criterio dell’emergenza, un precedente giuridico da non trascurare: se la Corte Costituzionale ha ritenuto temporaneamente ammissibili misure limitative delle libertà personali, si può sostenere a ragione che possa consentire violazioni del diritto alla riservatezza delle comunicazioni sancito dall’art. 15 e, in definitiva, ammettere in giudizio anche prove formate in modo irrituale.

Questo ci induce ad affrontare il problema di come definire i paradisi fiscali. E’ indubbio che il loro comportamento configura una slealtà nei confronti di altri Stati, ledendone la sovranità fiscale. In particolare le normative esplicitamente ispirate a forme di dumping fiscale risultano poco compatibili con i principi della Carta delle Nazioni Unite che impongono il reciproco rispetto della sovranità su un piede di uguaglianza (art 2) e meriterebbero, quantomeno, una discussione in sede di Assemblea Generale.

Nel 2000, durante l’amministrazione Clinton, gli Usa elaborarono la categoria di “rogue state” (“Stato canaglia”) per indicare un paese che, per ordinamento interno e prassi internazionale, rappresenti un pericolo per la pace mondiale (ad esempio appoggiando formazioni terroristiche). Per la verità il concetto giuridicamente era assai vago ed, il più delle volte, è stato un equivalente di “stato nemico degli Usa”, dunque una categoria assai dubbia sul piano del diritto internazionale. Tuttavia essa può aprire la strada a una rielaborazione meno vaga e più pertinente al caso dei paradisi fiscali. Il loro comportamento è oggettivamente un fattore di grave instabilità internazionale ed una aggressione nei confronti della sovranità altrui.

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