La tematica dei paradisi fiscali è
destinata ad acquistare una sempre maggiore rilevanza politica e il
contenzioso andrà diventando sempre più aspro. La tendenza ha iniziato a
manifestarsi già dal 2009, quando la crisi impose di forza il tema
all’attenzione degli Stati ed, in particolare gli Usa iniziarono a
premere perché i “paradisi fiscali” comunicassero gli elenchi dei loro
facoltosi ospiti.
In effetti, qualche effetto fu ottenuto
e, soprattutto Usa e Germania ottennero alcuni lunghi elenchi di nomi.
Anche gli organi informativi di polizia tributaria iniziarono un’azione
investigativa e un po’ in tutto il mondo spuntarono liste di
contribuenti fuggiaschi, con risultati alterni da paese a paese.
Un caso molto interessante (che ci riguarda da vicino) è quello della “lista Falciani”:
un elenco di 80.000 clienti della filiale di Ginevra della banca
londinese Hsbc (di cui 7mila italiani tra persone fisiche e società)
trafugata dall’esperto informatico Hervè Falciani e poi sequestrata
dalla procura di Nizza che la trasmise per rogatoria alla Procura
Torinese. Ma, nel giudizio svoltosi contro uno degli evasori davanti al
tribunale di Pinerolo, la difesa ha invocato una legge del 2006 (nata
per il caso Telecom) ed il giudice Gianni Reynaud archiviava il
procedimento, perché l’investigazione si basava «su un dato
processualmente inutilizzabile», in quanto frutto di un’«appropriazione
indebita aggravata di documenti», ma anche e soprattutto «formato
attraverso la “raccolta illecita di informazioni”, trattandosi della
stampa di file contenuti in un sistema informatico riservato, nel quale
Falciani si era abusivamente introdotto» o comunque «trattenuto per fini
diversi dalle mansioni» che ne autorizzavano la password. Una prova
ottenuta “contra legem” per cui si disponeva la distruzione della
lista.
Da un punto di vista giuridico
la sentenza non fa una piega: Falciani (probabilmente per conto di
qualche servizio di informazione e sicurezza) aveva sottratto la lista
abusando del suo accesso al sistema informatico. Ma da un punto di vista
di fatto, i conti non tornano: se si vogliono stanare i grandi capitali
all’estero non si può agire che attraverso i servizi di informazione e
sicurezza e con prassi dichiaratamente illegali. Anche se l’acquisizione
fosse disposta da un’ Autorità giudiziaria, questo non sanerebbe nulla perché un giudice non ha poteri in un paese diverso dal suo. Procedere
per rogatoria sarebbe inutile perché nel 90% dei casi o il ministero
degli Esteri del paese interessato (da cui la richiesta deve passare) o
la sua magistratura respingerebbero la domanda (o semplicemente non
risponderebbero). In ogni caso, la procedura sarebbe lenta e facile alla
fuga di notizie, dunque, votata a quasi sicuro fallimento.
Si potrebbe procedere in modo “coperto”:
l’acquisizione illegale viene fatta dai servizi segreti (che esistono
esattamente per questo scopo: acquisire illegalmente le notizie non
conoscibili diversamente) che segnalano il contenuto delle notizie
(senza esplicitarne l’origine) agli organi di polizia giudiziaria, cui
spetta il compito di svolgere le indagini ed acquisire le prove. Ma c’è
da chiedersi come potrebbe procedere la polizia di fronte ad indagini
all’estero e torneremmo al problema della rogatoria.
Anche in tema di “tracciabilità”
informatica, seguendo cioè le “tracce” informatiche degli ordini di
versamento o prelievo, non è affatto chiaro quale è la soglia della
sovranità di fronte a cui la polizia di un paese deve arrestarsi,
tenendo anche conto che molte operazioni vengono fatte “estero su
estero”.
Pertanto, non restano che gli accordi
internazionali, per i quali si abroga il segreto bancario e si conviene
(quantomeno in Europa, dove la cosa potrebbe essere legittimata da
un’apposita modifica del trattato istitutivo) che le banche siano
immediatamente tenute a rispondere ai quesiti della magistratura o del
fisco di un altro paese. Ma come procedere?
Con una legislazione speciale di
emergenza come nel periodo del terrorismo, in cui si vararono norme in
palese contrasto con la Costituzione (in particolare l’art. 13) che
vennero temporaneamente legittimate dalla Corte Costituzionale, proprio
con il criterio dell’emergenza, un precedente giuridico da non
trascurare: se la Corte Costituzionale ha ritenuto temporaneamente
ammissibili misure limitative delle libertà personali, si può sostenere a
ragione che possa consentire violazioni del diritto alla riservatezza
delle comunicazioni sancito dall’art. 15 e, in definitiva, ammettere in
giudizio anche prove formate in modo irrituale.
Questo ci induce ad affrontare il problema di come definire i paradisi fiscali.
E’ indubbio che il loro comportamento configura una slealtà nei
confronti di altri Stati, ledendone la sovranità fiscale. In particolare
le normative esplicitamente ispirate a forme di dumping fiscale
risultano poco compatibili con i principi della Carta delle Nazioni
Unite che impongono il reciproco rispetto della sovranità su un piede di
uguaglianza (art 2) e meriterebbero, quantomeno, una discussione in
sede di Assemblea Generale.
Nel 2000, durante l’amministrazione Clinton, gli Usa elaborarono la categoria di “rogue state” (“Stato canaglia”)
per indicare un paese che, per ordinamento interno e prassi
internazionale, rappresenti un pericolo per la pace mondiale (ad esempio
appoggiando formazioni terroristiche). Per la verità il concetto
giuridicamente era assai vago ed, il più delle volte, è stato un
equivalente di “stato nemico degli Usa”, dunque una categoria assai
dubbia sul piano del diritto internazionale. Tuttavia essa può aprire la
strada a una rielaborazione meno vaga e più pertinente al caso dei
paradisi fiscali. Il loro comportamento è oggettivamente un fattore di
grave instabilità internazionale ed una aggressione nei confronti della
sovranità altrui.
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