di Michele Paris
Le attività della Cina in un’area contesa del Mar Cinese Meridionale
continuano a incoraggiare aperte provocazioni da parte degli Stati
Uniti, con il risultato di far salire pericolosamente le tensioni tra le
prime due potenze economiche del pianeta. A Washington è in corso
infatti un’incessante campagna di denunce nei confronti del regime di
Pechino, accusato di voler mettere a rischio la stabilità dell’Asia
sud-orientale a fronte dei presunti sforzi americani per mantenere
intatta la libertà di navigazione e favorire una risoluzione pacifica
dei conflitti territoriali.
Tutte le azioni intraprese
dall’amministrazione Obama rispondono in realtà a una logica
provocatoria nei confronti della Cina, le cui iniziative in un’area
strategicamente cruciale per i propri interessi vengono sfruttate per
accelerare i piani di militarizzazione e accerchiamento del gigante
asiatico nell’ambito del confronto in atto per l’egemonia sull’intero
continente.
Da qualche settimana, la Cina sta costruendo una
serie di isole artificiali nei pressi dell’arcipelago delle Spratly che
il suo governo controlla pur essendo rivendicato da vari paesi, tra cui
le Filippine e il Vietnam. Sui nuovi terreni strappati alle acque,
Pechino sta realizzando opere civili e militari che hanno provocato non
solo la condanna degli USA e dei loro alleati ma anche azioni eclatanti
che rischiano di creare episodi in grado di innescare un conflitto di
ampia portata.
Settimana scorsa, ad esempio, il Pentagono aveva
inviato un aereo militare da ricognizione non lontano da un atollo delle
Spratly, dove erano in corso lavori da parte cinese. Anche se il
velivolo non era entrato nelle acque territoriali della Cina, l’azione
aveva un chiaro intento provocatorio e così è stato interpretato da
Pechino.
Le forze armate cinesi avevano ripetutamente ordinato
all’aereo americano di lasciare l’area e, successivamente, un portavoce
del ministero degli Esteri ha avuto parole molto dure nei confronti del
governo USA, bollando l’iniziativa come “pericolosa e irresponsabile”.
L’amministrazione
Obama, tuttavia, tramite il segretario alla Difesa, Ashton Carter,
aveva fatto sapere di essere sul punto di andare oltre, annunciando come
sia già allo studio il possibile stazionamento di navi da guerra nelle
vicinanze delle Spratly, con un aumento sensibile delle possibilità di
una risposta concreta da parte cinese.
Lunedì, in ogni caso,
Pechino ha presentato una protesta formale nei confronti degli USA per
avere inviato un aereo da ricognizione nel Mar Cinese Meridionale, ma il
malcontento espresso dal regime non ha fatto altro che gettare benzina
sul fuoco del dibattito negli ambienti di potere e sui giornali
ufficiali negli Stati Uniti.
A ciò ha contribuito poi anche la
notizia, diffusa martedì, che la Cina starebbe costruendo sulle Spratly
altri edifici a uso civile, come ad esempio due fari, ufficialmente per
favorire future operazioni di salvataggio in mare.
Ogni annuncio o
rivelazione di una nuova iniziativa cinese nelle isole contese serve in
definitiva agli Stati Uniti per alimentare la propria campagna di
propaganda, finalizzata a dipingere Pechino come una minaccia senza
precedenti alla stabilità dei paesi dell’Asia sud-orientale e delle
importanti rotte commerciali che vi transitano.
La Cina, da parte
sua, continua a rispondere in maniera ferma alle denunce americane. Un
portavoce delle forze armate di Pechino ha ad esempio puntato il dito
contro “potenze straniere” che cercano di “infangare la reputazione dei
militari cinesi e di creare un’atmosfera fatta di tensioni
spropositate”.
Altri
esponenti del governo hanno inoltre ricordato come le provocazioni USA
possano “causare equivoci e incidenti problematici in mare e nello
spazio aereo”. Ancora più esplicito è stato infine un recente editoriale
della testata governativa Global Times, secondo la quale “se
l’obiettivo degli Stati Uniti è convincere la Cina a fermare le proprie
attività” nelle isole Spratly, “allora una guerra tra USA e Cina nel Mar
Cinese Meridionale appare inevitabile”.
In risposta al clima
creatosi alle proprie frontiere, il governo cinese questa settimana ha
presentato un nuovo “Libro Bianco” relativo alle strategie di difesa
nazionale. Significativamente, con un chiaro riferimento agli Stati
Uniti, il documento mette in guardia dalle minacce rappresentate dalle
politiche egemoniche e “neo-interventiste”, in parallelo con
l’intensificarsi della “competizione internazionale per la
redistribuzione del potere, dei diritti e degli interessi”.
I
pericoli principali per Pechino sono identificati nell’escalation
militare e diplomatica americana nel continente asiatico e nel nuovo
impulso al militarismo giapponese registrato con l’ascesa al potere a
Tokyo del primo ministro ultra-conservatore, Shinzo Abe.
La
sezione del “Libro Bianco” più discussa dai media e commentatori
americani è stata quella riguardante le strategie di difesa navale,
soprattutto alla luce dell’impegno cinese di aumentare le “protezioni in
mare aperto” e di passare dalle predisposizioni per la sola “difesa”
aerea a quelle per “difesa e attacco”.
Questi nuovi obiettivi,
come evidenzia lo stesso documento diffuso dal governo - o Consiglio di
Stato - cinese, sono in gran parte la conseguenza delle tensioni
crescenti nel Mar Cinese Meridionale, provocate dalle iniziative di
paesi vicini - a cominciare dalle Filippine - su istigazione americana.
Per fronteggiare efficacemente le sfide attuali, dunque, sarebbe
“necessario per la Cina sviluppare una moderna forza militare marittima
commisurata ai propri interessi di sicurezza nazionale e di sviluppo”.
In
Occidente e nei paesi alleati di Washington, il documento strategico
cinese ha sollevato un coro di commenti allarmati, poiché esso
indicherebbe la chiara volontà da parte di Pechino di ricorrere a
politiche egemoniche a discapito dell’indipendenza e della sicurezza dei
propri vicini e, soprattutto, degli interessi degli Stati Uniti.
A
ben vedere, però, l’atteggiamento cinese non è che un riflesso di
quello tenuto in questi anni dagli USA, nel tentativo di impedire un
accerchiamento che, in caso di conflitto, comporterebbe un blocco
rovinoso delle rotte commerciali marittime vitali per Pechino. La Cina,
d’altra parte, dipende ancora in larga misura da queste vie d’acqua
contese ed esposte alla minaccia statunitense per gli approvvigionamenti
di energia e materie prime, nonché per le proprie esportazioni.
La
strategia americana è invece precisamente quella di esercitare
pressioni crescenti sulla Cina, così da provocare risposte sempre più
aggressive e disporre della giustificazione per proseguire con i propri
piani militari e diplomatici in Asia sud-orientale, anche a rischio di
far precipitare la situazione in uno scenario di guerra aperta tra
potenze nucleari.
Per il momento, il conflitto tra Washington e
Pechino dovrebbe continuare a svolgersi sul piano retorico. Il prossimo
teatro dei rimproveri americani alla Cina sarà con ogni probabilità
l’appuntamento di venerdì a Singapore, dove andrà in scena l’annuale
conferenza sulla sicurezza in Asia (“Dialogo Shangri-La”), a cui
parteciperanno, tra gli altri, il numero uno del Pentagono e una
delegazione di alti ufficiali delle forze armate di Pechino.
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