di Liliana Adamo
TTIP, l’acronimo ormai lo conosciamo tutti o quasi. Se approvato,
questo gigantesco cappio costruito per sancire l’egemonia ultraliberista
delle lobby d’oltreoceano, determinerebbe la morte per soffocamento
dell’autodeterminazione politica europea, vale a dire la
rappresentazione di quei principi democratici su cui si è legittimata
l’idea d’Unione Europea con i suoi ventotto stati membri. C’è la
convinzione che la crisi economica prodotta nel 2008 da un sistema che
non gradisce rigettare i propri criteri, possa risolversi rincarandone
le dosi.
Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli
investimenti (Trans Atlantic Trade and Investment Partnership), è un
accordo commerciale di libero scambio tuttora in corso, sancito nel 2013
tra Ue e Usa. Obiettivo? Integrare i due mercati, limitando tributi
doganali, norme e procedure d’omologazione, standard di sicurezza
applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie.
Via
libera dunque, alla circolazione delle merci, al flusso degli
investimenti, all’accesso ai rispettivi mercati come agli appalti
pubblici. Sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel e dal suo nutrito
staff strategicamente collocato nei meandri decisionali della
Commissione Ue, il trattato potrebbe essere esteso ad altri paesi in cui
sono già in vigore consensi analoghi, come quelli iscritti al North
American Free Trade Agreement (NAFTA) e dell’Associazione Europea di
Libero Scambio (EFTA). In questo modo si darà l’avvio alla più grande
area disponibile di un mercato completamente svincolato, nella
condivisione di un’incondizionata deregolamentazione.
Ma quali
sarebbero gli effetti e gli esiti di tale “rivoluzione”? In primo luogo
va detto che il TTIP è un accordo sottobanco; per meglio dire, è una
trattativa tra superburocrati e delegati di varie lobbie (europee e
americane), portata avanti in completa “riservatezza”: fino a quando Wikileaks di Julian Assange ne svelò i contenuti e l’Ue dovette renderli pubblici, ma solo nell’ottobre 2014. In ultima ratio,
il TTIP, dovrà essere sottoposto al benestare e al controllo della
Commissione europea, dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo.
A
questo proposito va detto che, dall’aprile scorso, proprio all’interno
dell’Europarlamento qualcosa ha iniziato a vacillare: con la ferrea governance nata
dall’alleanza tra il Ppe (Partito popolare europeo) e i
socialdemocratici (S&D), con il popolare Jean Claude Junker a capo
della Commissione e il socialdemocratico Martin Schulz alla presidenza
del Parlamento, si dava per scontato che il Trattato fosse approvato
senza troppi problemi, grazie a una maggioranza schiacciante (che
include, tra l’altro, anche il partito dei Conservatori, quello dei
Riformisti e dei Liberaldemocratici dell’Alde).
Ebbene, così non è
stato. A sorpresa, accogliendo una montagna d’emendamenti (di Verdi e
Sinistra radicale), sei Commissioni su quattordici (fra cui,
Occupazione, Ambiente, Petizioni e Affari Costituzionali), hanno votato
contro la clausola più discutibile, chiamata Isds (Investor state
dispute settlement), la quale punta a introdurre un unico arbitrato per
risolvere le dispute fra Stati e società multinazionali, giudicato
palesemente favorevole a queste ultime.
Che metà del Parlamento
europeo impugnasse questa mozione nodale, nessuno se lo sarebbe
aspettato, men che mai la delegazione di superburocrati nel frattempo
riunita a New York, dove si teneva il nono round dei negoziati Usa/Ue;
di fatto, almeno sul piano politico, la riunione veniva sconfessata da
sei commissioni su quattordici.
Il
TTIP sarà presentato agli occhi dei cittadini europei nella solita
orchestrazione cui ci hanno abituati da anni: l’accordo produrrà
crescita economica, calo considerevole della disoccupazione, benessere
diffuso senza danni all’ambiente. E’ la dura legge d’ogni deregulation in
campo liberalista e finanziario: sostituire il marketing alla ragione,
il Pil al benessere fatto di cooperazione e impegno per l’economia
reale, nella difesa della salute e dell’ambiente.
Secondo lo statunitense Joseph Stiglitz (Premio Nobel per l’economia)
l’accordo comporterebbe, già dai primissimi impatti, una sostanziale
riduzione delle garanzie e mancanza di tutela nei diritti dei
consumatori. Per di più, uno studio della Tufts University del
Massachusetts, individua una frammentazione del mercato interno europeo e
calo del Pil, non certo una crescita.
La ratifica consisterebbe
in rilevanti freni legali che tuttora regolano settori cruciali come
banche, assicurazioni, telecomunicazioni, servizi postali.
L’introduzione del famigerato arbitrato internazionale (l’Isds cui
abbiamo già parlato ndr), concederebbe alle imprese d’intentare
cause ai governi per “perdita di profitti”, qualora gli stessi governi
(eletti con sovranità popolare), “autorizzassero” legislazioni
potenzialmente “dannose” alle loro aspettative di guadagno. E’ già
accaduto, con il caso Vattenfal/governo tedesco sulla chiusura delle
centrali nucleari (dopo il dramma di Fukushima), o nella circostanza di
Veolia contro governo egiziano, sull’aumento del salario minimo dei
lavoratori.
Nonostante le mozioni contrarie sull’arbitrato
internazionale, l’Isds rappresenta comunque una parte di un documento
ufficiale, e non basteranno pareri contrari (tra l’altro non
vincolanti), per fermare l’avanzata del TTIP al varco dei voti durante
la sessione plenaria che si terrà al Parlamento Europeo, in giugno. Ciò
nondimeno il percorso è tutt’altro che in discesa, grazie a ben 898
emendamenti che si sono abbattuti come una scure sulla bozza del
Rapporto in esame. Rispetto al passato, tanto attivismo nel Parlamento
europeo è già una novità interessante.
Il commissario al
commercio europeo, Cecilia Malmstrom, si sforza di rassicurare gli
europei. Le partnership americane non ci trascineranno in invasioni di
manzo agli ormoni, non sostituiranno le nostre eccellenze con cibi Ogm,
nessuna minaccia alla buona sanità e alle scuole pubbliche, nessun
rischio che l’Europa si trasformi in bieca succursale del capitalismo
d’oltreoceano che, ampliandosi, andrebbe a danneggiare direttamente le
economie dei paesi sottosviluppati. Gli standard di qualità e democrazia
non saranno toccati.
Ciò è rincuorante, ma non corrisponde alla realtà: i cinque miti da sfatare (per la Commissione Ue), implicano, in primis,
esattamente quegli standard europei; gli stessi che, dopo decenni di
conquiste, servono a proteggere le persone e il pianeta. Basta solo
riflettere su come standard Usa e Ue siano maledettamente differenti. E
se l’Europa sembra impegnata nella difesa dei suoi modelli affinché
prevalga l’indipendenza dei regolatori, il principio di precauzione
(cardine della politica ambientale e delle regole sul consumo) e gsi
garantisca ai governi l’approvazione di leggi che difendono i diritti
dei lavoratori e dei più deboli, non si può dire facciano altrettanto le
multinazionali che si appresterebbero a ritagliarsi una buona fetta di
torta.
Il secondo mito
da sfatare, riguarda la sicurezza alimentare. Per la Commissione Ue, il
modo in cui noi regoliamo le questioni dei cibi geneticamente
modificati e tutto ciò che concerne questa materia, resteranno
invariati: niente carne d’animali clonati, vitelli ormonati, o polli al
cloro. E invece Usa e Ue andranno di pari passo per facilitare
importazioni ed esportazioni esattamente nel settore alimentare. Ma come
potranno se sussistono regole completamente divergenti? Chi dei due
partner dovrà modificare i propri standard di sicurezza? E che fine
farebbero quelle migliaia di piccole - medie aziende e produttori
agricoli che rischiano d’uscire dal mercato sotto i colpi dei colossi su
scala industriale?
Terzo mito: le tariffe. La
concorrenza tra i due partner (per non parlare di Cina e paesi
asiatici), impone già prezzi ridotti, il TTIP non è altro che un
tentativo di smantellare le norme europee, giudicate troppo “ferree” per
il libero scambio commerciale. Anche in questo caso, la replica insiste
su quei settori le cui tariffe sono ritenute “troppo alte”, alimentari e
tessili, per esempio. Il TTIP annullerebbe le tariffe che ancora pesano
sull’export europeo verso gli Stati Uniti, contribuendo a favorire lo
scambio tra i due.
Come per molti altri accordi su base
commerciale, il TTIP sembrerebbe una panacea di presunti benefici per la
gente, i prezzi diminuiranno grazie alla concorrenza tra imprese
transatlantiche con conseguente aumento d’occupazione. In realtà, la
cosa non si risolve così facilmente; nei dettagli, si va ben oltre la
semplice rimozione di costi e apertura dei mercati, poiché il trattato
si concentra in primo luogo sulla rimozione delle normative sociali e
ambientali, concentrando il potere economico e politico nelle mani delle
major. Esse valutano queste regole come ostacolo ai profitti.
Lo
spiega a chiare lettere la stessa Commissione Europea: lo sbarramento
al libero commercio non è (tanto) il dazio dovuto alla dogana, bensì i
cosiddetti blocchi “oltre confine”, come i diversi standard ambientali o
di sicurezza per le automobili (…). L’obiettivo della trattativa sta
nel ridurre i costi “non necessari” per le imprese, le lungaggini
burocratiche… Usa e Ue puntano all’armonizzazione e al “reciproco
riconoscimento” per le rispettive normative in vista della “più vasta
area di libero scambio sul pianeta”.
Quarto mito:
i diritti dei governi. Si è detto come il TTIP consentirà alle più
potenti aziende americane di poter far causa ai governi (e far pagare i
cittadini), qualora, regole emanate con nuove leggi, ostacolassero
l’utile delle stesse. Questo è uno degli sviluppi più controversi
dell’intero trattato, anche se la replica di Bruxelles insiste nel
propinare il piano Isds camuffandolo in sottigliezze linguistiche e cioè
che si delibera un sistema per appianare le controversie tra le parti,
rinsaldando, per esempio, i poteri regolatori dei governi, consentendo
pubblico accesso alle udienze e ai documenti dei tribunali dove si
discute delle cause. In pratica, un contentino pro forma.
Quinto mito:
i servizi pubblici. L’accordo commerciale, almeno per ciò che riguarda
l’Ue, tranquillizza: chiunque è libero di gestire i servizi pubblici
come meglio crede e non certo privatizzarli. Scuole, ospedali, ecc. sono
beni comuni fondamentali e ogni governo sarà libero di decidere se tale
servizio dovrà restare pubblico o metterlo nelle mani di un privato.
Per di più (bontà loro), nel caso di mancato rinnovo di un contratto
stipulato, nessun governo è passibile di risarcimento.
Partiamo
da un presupposto: il primo e fondamentale servizio pubblico è quello
sanitario. Per gli investitori internazionali la sanità rappresenta un
giro d’affari di valore incalcolabile, una “mucca da mungere”,
esattamente. Il Servizio sanitario britannico (UK’s National Health
service), è già in fase di destrutturazione affinché si consenta agli
investitori transnazionali di “entrare nell’affare”, acquisendone le
parti più redditizie. La svendita di servizi sanitari europei alle
imprese private è già iniziata e, di fatto, andrà avanti fino a
diventare un processo irreversibile.
La
crisi finanziaria e le politiche d’austerity hanno minato un diritto,
ritenuto finora inalienabile nei paesi europei, quello alla salute, a
un’assistenza di qualità a prezzi accessibili. Eclatante l’esempio della
Grecia, dove, pazienti malati di cancro, sono impossibilitati a pagare i
farmaci salva-vita, da quando lo Stato ha tagliato le sovvenzioni alla
sanità pubblica, su esplicita richiesta dei finanziatori internazionali.
Non basta, in Spagna, gli immigrati rischiano la revoca dei trattamenti
anti AIDS, a causa di tagli alla spesa pubblica.
Se il TTIP
punta ad “armonizzare” le normative sanitarie Usa/Ue, l’esito sarà di
un’inevitabile spirale verso il basso con ridotti standard sanitari.
Inoltre, l’apertura del sistema sanitario europeo alla concorrenza di
operatori Usa, provenienti dal settore privato, altro non produrrà che
aumento dei costi per i cittadini, limitando ulteriormente la
possibilità d’accesso alle cure mediche, in un momento già
economicamente difficile.
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