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30/05/2015

Brasile: la B di brics fuori dalla nuova banca?


Da Buenos Aires, Dario Clemente. La notizia è passata praticamente inosservata ovunque, Italia compresa. Ad inizio mese la banca centrale brasiliana ha cercato di bloccare i trasferimenti finanziari destinati alla capitalizzazione della “banca dei Brics”, il fondo comune di sviluppo da cento miliardi di dollari approvato al VI meeting nel luglio scorso.

Come ha rilevato  J. Carlos de Assis, economista dell’Università Federale di Rio de Janeiro, l’atto, più che indirizzato a salvaguardare le riserve estere del paese, appare come un sabotaggio politico contro l’emancipazione del Brasile dal circuito classico Banca Mondiale-Fondo Monetario Internazionale.

De Assis afferma infatti che il trasferimento non indebolirebbe affatto la posizione finanziaria brasiliana, e che anzi quei soldi verrebbero reinvestiti dalla nuova banca nell’economia reale, e non tenuti a generare interessi (comunque più bassi) sotto forma di titoli pubblici statunitensi, come avviene ora. Per de Assis il fondo costituito dai paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) potrebbe costituire la prima potenziale crepa nel sistema finanziario implementato dagli Stati Uniti negli ultimi 60 anni: una banca sviluppista legata alla produzione e non una “stamperia di soldi” come la Federal Reserve statunitense o la Bce. Conclude chiedendo la nazionalizzazione della banca centrale brasiliana, o almeno che Dilma la “rimetta in riga” per non spaventare i partner cinesi.

La notizia è l’ennesima tegola per il governo dall’inizio del Dilma Bis, che a soli 7 mesi dalle ultime elezioni presidenziali ha già accumulato una serie di “sgambetti” dall’alleato-avversario PMDB.

Come avevamo raccontato l’indebolimento alla camera e al senato del Partito dei Lavoratori ha infatti causato uno sbilanciamento verso i partiti di centro della coalizione, come il “Partito del Movimento democratico del Brasile”, il più grande del paese e, secondo molti commentatori, il vero ago della bilancia della politica brasiliana.

Il PMDB ha infatti più parlamentari del Partito dei lavoratori (PT) sia alla camera che al senato e guida un blocco che può essere determinante se si schiera con l’opposizione contro il governo. Ciò e avvenuto in numerose occasioni, a partire dall’elezione a presidente della camera di Eduardo Cunha, del PMDB, che ha lasciato fuori il PT dalla “Mesa Diretora”, dove si definiscono le commissioni e si scandisce il programma parlamentare. In seguito il governo è andato in minoranza in varie votazioni e sui temi più svariati.

Dall’abbassamento dell’età penale alla legge previdenziale, dalla trasparenza bancaria al finanziamento degli stati regionali, mostrando che il ferreo controllo del parlamento dell’era Lula e un lontano ricordo. Fallito invece il tentativo di riforma della legge elettorale, osteggiata dal PT. In ogni caso questa temporanea battuta d’arresto non dovrebbe frenare l’adesione del Brasile alla “banca brics”, il massimo successo in politica estera della presidenza di Dilma Rousseff. Creato nel luglio passato dopo due anni di trattative, è ancora un oggetto misterioso.

Da un lato è celebrato come sostituto della Banca mondiale e dell’FMI, in seguito al fallimento delle trattative per democratizzare il funzionamento e la direzione delle due istituzioni internazionali da parte dei paesi in via di sviluppo. Dovrebbe a breve iniziare a poter realizzare prestiti ed essere affiancato da un “fondo di stabilizzazione” di emergenza con un capitale di altri 100 miliardi di dollari (e una divisione in quote similare a quella della banca, il 40% messo da cinesi, il 55% tra Brasile, Russia de India de il restante 5% dal Sudafrica).

Dall’altro, nelle parole dei critici di sinistra  ma anche degli stessi proponenti del progetto, come il sottosegretario brasiliano José Alfredo Graça Lima, è chiaro che le strutture finanziarie che il gruppo dei Brics sta creando non vogliono essere alternative all’attuale architettura puntellata dagli U.S.A., ma “complementari” ad essa.

Al centro delle critiche la scelta di continuare ad utilizzare i dollari negli scambi reciproci, ma soprattutto di aver costruito una “alternativa” al sistema del Fondo Monetario Internazionale che in realtà non lo è, avendone ricalcato il funzionamento delle quote (e la “responsabilità’ bancaria” dei vari aderenti) e rimanendo la maggior parte dei potenziali prestiti legati al sistema dell’FMI.

Guardando oltre il livello economico, però, la banca dei Brics è già un successo geopolitico. A margine delle trattative tra il governo greco e la Troika, non è passato inosservato, di sicuro non agli statunitensi, il corteggiamento al governo di Atene da parte dei Brics Cina e Russia. Quest’ultimi sono arrivati infatti a proporre alla Grecia, tramite il ministro delle finanze Sergei Storchak, di aderire al fondo dei Brics, offrendo al governo di Tsipras anche la possibilità di realizzare scambi commerciali con il Rublo, bypassando cosi il dollaro.

L’attivismo russo però non è niente a confronto di quello cinese, con il governo di Pechino a rimanere il chiaro protagonista della scena.

Con l’adesione della Svizzera, il nuovo Banco Asiatico di Investimenti in Infrastrutture (BAII, altri 100 miliardi di dollari di budget) sale a 35 membri, che vanno dall’India all’Australia, passando per il Regno Unito, Francia, Germania e Italia.

L’ultima creatura cinese serve a contrastare il Banco Asiatico di Sviluppo controllato da Stati Uniti e Giappone. Assieme alla costruzione della nuova “via della seta”  rappresenta un tassello ulteriore in quello che ormai pare un vero e proprio tentativo di “accerchiamento” ai danni di una leadership statunitense sempre più in difficoltà a contenere l’iniziativa cinese e a convincere i suoi alleati a restare fuori dalla “ragnatela” finanziaria che Pechino sta lentamente tessendo.

In questo senso potrebbe non essere del tutto fuori strada chi  parla del fondo dei Brics come un tentativo cinese di “mascherare” la propria ascesa, scegliendo nuovamente di utilizzare il soft power e scartare l’opzione di utilizzare strategie ancor più marcatamente aggressive nei confronti di Washington.

Nel frattempo il primo ministro cinese Li Keqiang ha visitato il Brasile accompagnato da 150 impresari cinesi, a solo un anno dal viaggio del presidente  Xi Jinping e ha firmato un accordo di cooperazione tra i due paesi che si protrarrà fino al 2021.

La Cina, primo partner commerciale del Brasile dal 2009, verserà più di 53 miliardi di dollari per onorare 35 nuovi contratti, che coinvolgono anche le multinazionali brasiliane Petrobras, Vale e Embraer e prevedono fra l’altro la costruzione di una ferrovia transoceanica che dovrebbe unire il paese al pacifico attraversando il Peru.
 
Inoltre è stata annunciata la creazione di un fondo di ulteriori 50 miliardi da parte della Cassa Economica Federale brasiliana e il Banco Industriale e Commerciale della Cina (ICBC) dedicato agli investimenti in infrastruttura in Brasile, che rimane un settore strategico per la penetrazione del capitalismo cinese all’estero.

La sinergia tra i due paesi Brics pare insomma svilupparsi anche senza i prestiti del neonato fondo comune di investimento, e verrà sicuramente rafforzata dalla sua entrata in funzionamento.

L’integrazione economica regionale e la proiezione internazionale attraverso l’alleanza Brics guidata dalla Cina sono il nuovo tavolo da gioco che il Brasile in versione “global player” si è guadagnato da tempo. E nonostante i rallentamenti causati dalla Banca centrale e dal parlamento, non sembra disposto a lasciarlo a breve.

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