Da Buenos Aires, Dario Clemente.
La notizia è passata praticamente inosservata ovunque, Italia compresa.
Ad inizio mese la banca centrale brasiliana ha cercato di bloccare i
trasferimenti finanziari destinati alla capitalizzazione della “banca
dei Brics”, il fondo comune di sviluppo da cento miliardi di dollari approvato al VI meeting nel luglio scorso.
Come ha rilevato J. Carlos de Assis,
economista dell’Università Federale di Rio de Janeiro, l’atto, più che
indirizzato a salvaguardare le riserve estere del paese, appare come un
sabotaggio politico contro l’emancipazione del Brasile dal circuito
classico Banca Mondiale-Fondo Monetario Internazionale.
De Assis afferma infatti che il
trasferimento non indebolirebbe affatto la posizione finanziaria
brasiliana, e che anzi quei soldi verrebbero reinvestiti dalla nuova
banca nell’economia reale, e non tenuti a generare interessi (comunque
più bassi) sotto forma di titoli pubblici statunitensi, come avviene
ora. Per de Assis il fondo costituito dai paesi Brics (Brasile, Russia,
India, Cina, Sudafrica) potrebbe costituire la prima potenziale crepa
nel sistema finanziario implementato dagli Stati Uniti negli ultimi 60
anni: una banca sviluppista legata alla produzione e non una “stamperia
di soldi” come la Federal Reserve statunitense o la Bce. Conclude
chiedendo la nazionalizzazione della banca centrale brasiliana, o almeno
che Dilma la “rimetta in riga” per non spaventare i partner cinesi.
La notizia è l’ennesima tegola per il
governo dall’inizio del Dilma Bis, che a soli 7 mesi dalle ultime
elezioni presidenziali ha già accumulato una serie di “sgambetti”
dall’alleato-avversario PMDB.
Come avevamo raccontato
l’indebolimento alla camera e al senato del Partito dei Lavoratori ha
infatti causato uno sbilanciamento verso i partiti di centro della
coalizione, come il “Partito del Movimento democratico del Brasile”, il
più grande del paese e, secondo molti commentatori, il vero ago della bilancia della politica brasiliana.
Il PMDB ha infatti più parlamentari del
Partito dei lavoratori (PT) sia alla camera che al senato e guida un
blocco che può essere determinante se si schiera con l’opposizione
contro il governo. Ciò e avvenuto in numerose occasioni, a partire
dall’elezione a presidente della camera di Eduardo Cunha, del PMDB, che
ha lasciato fuori il PT dalla “Mesa Diretora”, dove si definiscono le
commissioni e si scandisce il programma parlamentare. In seguito il governo è andato in minoranza in varie votazioni e sui temi più svariati.
Dall’abbassamento dell’età penale alla
legge previdenziale, dalla trasparenza bancaria al finanziamento degli
stati regionali, mostrando che il ferreo controllo del parlamento
dell’era Lula e un lontano ricordo. Fallito invece il tentativo di riforma della legge elettorale,
osteggiata dal PT. In ogni caso questa temporanea battuta d’arresto
non dovrebbe frenare l’adesione del Brasile alla “banca brics”, il
massimo successo in politica estera della presidenza di Dilma Rousseff.
Creato nel luglio passato dopo due anni di trattative, è ancora un
oggetto misterioso.
Da un lato è celebrato come sostituto
della Banca mondiale e dell’FMI, in seguito al fallimento delle
trattative per democratizzare il funzionamento e la direzione delle due
istituzioni internazionali da parte dei paesi in via di sviluppo.
Dovrebbe a breve iniziare a poter realizzare prestiti ed essere
affiancato da un “fondo di stabilizzazione” di emergenza con un capitale
di altri 100 miliardi di dollari (e una divisione in quote similare a
quella della banca, il 40% messo da cinesi, il 55% tra Brasile, Russia
de India de il restante 5% dal Sudafrica).
Dall’altro, nelle parole dei critici di sinistra ma anche degli stessi proponenti del progetto, come il sottosegretario brasiliano José Alfredo Graça Lima,
è chiaro che le strutture finanziarie che il gruppo dei Brics sta
creando non vogliono essere alternative all’attuale architettura
puntellata dagli U.S.A., ma “complementari” ad essa.
Al centro delle critiche la scelta di
continuare ad utilizzare i dollari negli scambi reciproci, ma
soprattutto di aver costruito una “alternativa” al sistema del Fondo
Monetario Internazionale che in realtà non lo è, avendone ricalcato il
funzionamento delle quote (e la “responsabilità’ bancaria” dei vari
aderenti) e rimanendo la maggior parte dei potenziali prestiti legati al
sistema dell’FMI.
Guardando oltre il livello economico,
però, la banca dei Brics è già un successo geopolitico. A margine delle
trattative tra il governo greco e la Troika, non è passato inosservato,
di sicuro non agli statunitensi, il corteggiamento al governo di Atene
da parte dei Brics Cina e Russia. Quest’ultimi sono arrivati infatti a
proporre alla Grecia, tramite il ministro delle finanze Sergei Storchak, di aderire al fondo dei Brics, offrendo al governo di Tsipras anche la
possibilità di realizzare scambi commerciali con il Rublo, bypassando
cosi il dollaro.
L’attivismo russo però non è niente a
confronto di quello cinese, con il governo di Pechino a rimanere il
chiaro protagonista della scena.
Con l’adesione della Svizzera, il nuovo
Banco Asiatico di Investimenti in Infrastrutture (BAII, altri 100
miliardi di dollari di budget) sale a 35 membri, che vanno dall’India all’Australia, passando per il Regno Unito, Francia, Germania e Italia.
L’ultima creatura cinese serve a
contrastare il Banco Asiatico di Sviluppo controllato da Stati Uniti e
Giappone. Assieme alla costruzione della nuova “via della seta”
rappresenta un tassello ulteriore in quello che ormai pare un vero e
proprio tentativo di “accerchiamento” ai danni di una leadership
statunitense sempre più in difficoltà a contenere l’iniziativa cinese e
a convincere i suoi alleati a restare fuori dalla “ragnatela”
finanziaria che Pechino sta lentamente tessendo.
In questo senso potrebbe non essere del tutto fuori strada chi parla del fondo dei Brics come un tentativo cinese
di “mascherare” la propria ascesa, scegliendo nuovamente di utilizzare
il soft power e scartare l’opzione di utilizzare strategie ancor più
marcatamente aggressive nei confronti di Washington.
Nel frattempo il primo ministro cinese
Li Keqiang ha visitato il Brasile accompagnato da 150 impresari cinesi, a
solo un anno dal viaggio del presidente Xi Jinping e ha firmato un accordo di cooperazione tra i due paesi che si protrarrà fino al 2021.
La Cina, primo partner commerciale del
Brasile dal 2009, verserà più di 53 miliardi di dollari per onorare 35
nuovi contratti, che coinvolgono anche le multinazionali brasiliane
Petrobras, Vale e Embraer e prevedono fra l’altro la costruzione di una
ferrovia transoceanica che dovrebbe unire il paese al pacifico
attraversando il Peru.
Inoltre è stata annunciata la creazione di un fondo di ulteriori 50
miliardi da parte della Cassa Economica Federale brasiliana e il Banco
Industriale e Commerciale della Cina (ICBC) dedicato agli investimenti
in infrastruttura in Brasile, che rimane un settore strategico per la
penetrazione del capitalismo cinese all’estero.
La sinergia tra i due paesi Brics pare
insomma svilupparsi anche senza i prestiti del neonato fondo comune di
investimento, e verrà sicuramente rafforzata dalla sua entrata in
funzionamento.
L’integrazione economica regionale e la
proiezione internazionale attraverso l’alleanza Brics guidata dalla Cina
sono il nuovo tavolo da gioco che il Brasile in versione “global
player” si è guadagnato da tempo. E nonostante i rallentamenti causati
dalla Banca centrale e dal parlamento, non sembra disposto a lasciarlo a
breve.
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