di Mario Lombardo
La presunta “gaffe” sull’invasione dell’Iraq del 2003 che ha visto
protagonista qualche giorno fa il probabile favorito nella corsa alla
Casa Bianca per il Partito Repubblicano, Jeb Bush, continua ad animare
il dibattito politico negli Stati Uniti proprio mentre i candidati
stanno cercando di raccogliere la maggiore quantità possibile di denaro
in vista delle primarie che prenderanno il via il prossimo mese di
gennaio.
La settimana scorsa l’ex governatore della Florida aveva riposto a una domanda di una giornalista di FoxNews affermando
sostanzialmente che, nel caso fosse stato al posto del fratello, George
W. Bush, avrebbe anch’egli scatenato una guerra contro il regime di
Saddam Hussein.
Jeb Bush, per spiegare la sua presa di posizione,
aveva fatto riferimento alle informazioni di intelligence nelle mani
del governo americano all’epoca, ovvero i rapporti “inesatti” sul
possesso di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad. Inoltre,
lo stesso candidato alla presidenza aveva ricordato come praticamente
tutti gli attuali contendenti per la Casa Bianca avessero appoggiato la
decisione di invadere l’Iraq, compresa la favorita alla nomination per
il Partito Democratico, Hillary Clinton.
Successivamente, Jeb
Bush ha cercato di rimediare alla sua dichiarazione, dando risposte con
sfumature diverse alla stessa domanda, sostenendo ad esempio di avere
male interpretato la questione sottopostagli da FoxNews per poi proporre
finalmente una versione definitiva nel corso di un’apparizione pubblica
in Arizona. Il figlio dell’ex presidente George H. W. Bush non avrebbe
cioè deciso l’invasione dell’Iraq “se avessimo saputo quello che
sappiamo oggi”.
Per precisare che il chiarimento non è dovuto a
nessun genere di sentimento anti-militarista o di rispetto per le norme
del diritto internazionale, il più giovane della famiglia Bush a correre
per la Casa Bianca non solo ha garantito il suo sostegno alla campagna
militare americana in corso in Iraq, ufficialmente contro lo Stato
Islamico (ISIS), ma ha anche auspicato un impegno ancora maggiore.
Le
parole iniziali di Jeb Bush erano state in ogni caso sfruttate dagli
altri candidati alla nomination repubblicana per distanziarsi dal
collega di partito che gode dei favori della maggior parte dei
multi-milionari e miliardari che ruotano attorno al partito. Se
l’intelligence USA avesse prodotto informazioni corrette, avevano
assicurato, nessuno di loro avrebbe autorizzato uno dei più gravi
crimini del 21esimo secolo.
In seguito, tuttavia, il chiarimento
della posizione di Jeb Bush ha in definitiva portato tutti i candidati
sullo stesso piano in relazione alla guerra in Iraq, confermando
l’unanimità all’interno della classe dirigente americana circa gli
obiettivi dell’imperialismo a stelle e strisce.
L’unico candidato
repubblicano che ha mantenuto una posizione in parte differente è stato
il senatore di tendenze libertarie del Kentucky, Rand Paul, il quale,
riferendosi non solo alla vicenda di Saddam ma anche a quella attuale di
Assad in Siria, ha ricordato come il rovesciamento di “dittatori
secolari” da parte del suo paese non faccia altro che generare “caos”.
La
“gaffe” di Jeb Bush, comunque, non ha fatto che evidenziare la
vulnerabilità di un candidato che, pur essendo dato dai media come
favorito e avendo raccolto già decine di milioni di dollari in
donazioni, è irrimediabilmente legato all’eredità tossica di quello che è
stato probabilmente il presidente più impopolare nella storia degli
Stati Uniti.
Ancor più, la diatriba di questi giorni mostra il
persistente punto di vista della classe politica americana
sull’avventura irachena inaugurata nel 2003 e sui metodi di proiezione
del potere degli Stati Uniti in Medio Oriente e non solo.
Estremamente
rivelatrice in questo senso è stata un’intervista sullo stesso
argomento rilasciata nel fine settimana da un altro candidato alla
nomination repubblicana, il senatore al primo mandato della Florida,
Marco Rubio.
Anch’egli interrogato da un giornalista di FoxNews sull’invasione
dell’Iraq, dopo qualche indugio Rubio ha escluso che la decisione presa
da George W. Bush nel 2003 possa essere considerata un “errore”.
Lo stesso senatore di estrema destra ha poi sviluppato il suo punto
di vista, ripetendo infine che l’allora presidente aveva di fronte a sé
informazioni di intelligence che descrivevano la presenza di
“armi di distruzione di massa” in Iraq, paese oltretutto “governato da
un uomo che aveva commesso atrocità in passato con armi di distruzione
di massa”.
In definitiva, l’intera controversia scatenata dalle
dichiarazioni della settimana scorsa di Jeb Bush è servita a mettere
ancora una volta in luce come nei circoli del potere di Washington e, in
larga misura, nei principali media la versione ufficiale accettata
pressoché universalmente della guerra in Iraq del 2003 continui a essere
quella dell’errore dell’intelligence USA nel collegare il regime di
Saddam alle “armi di distruzione di massa”, così come ad al-Qaeda.
Secondo
questa versione, se solo i servizi segreti americani avessero fornito
informazioni più precise all’amministrazione Bush, l’immane tragedia che
ha vissuto la popolazione irachena sarebbe stata risparmiata.
In
realtà, i presunti “errori” dell’intelligence americana servono a
nascondere quelle che erano le intenzioni del presidente Bush e della
sua cerchia di “neo-con” guerrafondai, a cominciare dall’ex
vice-presidente Cheney.
Il loro obiettivo, ancor prima degli
stessi attentati dell’11 settembre 2001, era la rimozione di Saddam
Hussein ma per poterlo raggiungere era necessario fabbricare un pretesto
valido, così da superare la profonda opposizione popolare nei confronti
di una nuova guerra in Medio Oriente.
Per fare ciò, il governo di Washington poté contare su una stampa
“mainstream” ben disposta a fare da cassa di risonanza alla propaganda
ufficiale.
Nessun
“errore” ci fu, quindi. Piuttosto, i servizi segreti non fecero altro
che consegnare all’amministrazione Bush quello che quest’ultima voleva e
le finte “prove” create ad arte della colpevolezza di Saddam sarebbero
state in seguito accettate per buone da praticamente tutta la classe
politica d’oltreoceano, da Jeb Bush a Hillary Clinton.
Che i
candidati alla presidenza degli Stati Uniti nelle prossime elezioni
continuino a convalidare questa tesi rappresenta una grave minaccia per
la popolazione americana, così come per quelle mediorientali e di tutto
il pianeta. Il governo americano, come ha già fatto peraltro più di una
volta dopo la distruzione dell’Iraq, sarà infatti pronto a costruire
prove inventate di presunti crimini per aggredire paesi rivali, chiunque
sia il prossimo inquilino della Casa Bianca.
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