Durano ormai incessanti da tre giorni gli attacchi aerei scatenati dalle forze militari sunnite guidate dall’Arabia Saudita su alcune città dello Yemen dopo la fine di una tregua umanitaria contraddistinta comunque da bombardamenti e combattimenti. La cosiddetta ‘coalizione’ guidata da Riad ha infatti intensificato i raid aerei in particolare contro Sana’a, la capitale yemenita controllata dai ribelli sciiti houthi e dalle milizie fedeli all’ex presidente Alì Abdullah Saleh, costringendo molte migliaia di famiglie a fuggire dalle bombe. In un raid compiuto nelle ultime ore è stato colpito anche un centro di accoglienza umanitaria, e cinque rifugiati etiopi sono rimasti uccisi, nel nord del paese.
I caccia sauditi e delle altre petromonarchie martellano ormai dalla notte del 19 maggio numerosi quartieri di Sana’a accanendosi sul palazzo presidenziale e su alcune postazioni militari, senza però risparmiare edifici residenziali e infrastrutture civili. I bombardamenti aerei hanno preso di mira anche le basi militari gestite dai sostenitori dell’ex presidente Saleh nella regione di Saada, e la cittadina di Amran, nel nord del paese. I media parlano anche di alcuni attacchi anche nelle province meridionali del paese, dove continuano i combattimenti tra ribelli e sostenitori del presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi rifugiatosi da tempo in Arabia Saudita. I bombardamenti hanno colpito anche la città di Maydee, lungo il confine con la provincia di Hajja.
I cinque giorni di tregua parziale, terminati lo scorso 17 maggio, avevano permesso l’arrivo nel paese di cibo, carburante, medicine e altri beni di prima necessità inviati dalle agenzie umanitarie. Una nave con aiuti iraniani diretta al porto di Hodeida è stata intanto dirottata a Gibuti su ordine della coalizione per essere ispezionata. Il governo di Teheran, accusato dalle petromonarchie e dagli Stati Uniti di rifornire di armi le milizie ribelli sciite, ha reagito ricordando a più riprese che la spedizione navale carica di aiuti umanitari era stata coordinata con le Nazioni Unite e con la Croce rossa internazionale che però non hanno fatto sentire la propria voce.
Nel frattempo le Nazioni Unite hanno annunciato che ulteriori colloqui tra le diverse forze protagoniste del conflitto yemenita avranno luogo a Ginevra, in Svizzera, il prossimo 28 maggio. Il segretario generale Ban Ki-moon ha spiegato che l’incontro ha l’obiettivo di “ridare forza a un processo di transizione politica guidato dallo Yemen” per mettere fine a un conflitto che in sette settimane ha provocato la morte di almeno 1.850 persone (una cifra in realtà sottostimata) e lo sfollamento di mezzo milione di yemeniti. Ai colloqui dovrebbero partecipare sia il governo dello Yemen che agisce in esilio e dalla città di Aden, sia i ribelli sciiti houthi, che controllano gran parte del paese dopo la ribellione di inizio anno contro una riforma della costituzione imposta dai sunniti su input dell’Arabia Saudita che estrometteva le popolazioni del nord da ogni livello decisionale. L’annuncio dei colloqui di Ginevra è stato dato in seguito alle consultazioni tenute da Ban Ki-moon con l’inviato speciale nello Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed. I precedenti colloqui di pace promossi dall’Onu erano stati sospesi a gennaio, quando gli houthi avevano lanciato la loro offensiva sulla capitale Sana'a. Ma le forze sunnite estromesse dal governo hanno però immediatamente fatto sapere che esigono il ritiro dei ribelli houthi come condizione per partecipare ai colloqui.
Opposto è invece il punto di vista – segnalato da Luciana Borsatti su AnsaMed – delle forze mediorientali esterne alla cosiddetta ‘coalizione’ secondo le quali l'ex presidente yemenita Abed Rabbo Mansour Hadi ha perso ogni legittimità ancor prima che con il suo consenso i sauditi cominciassero a bombardare il suo Paese. E il sostegno dell'Iran "al nuovo governo formato da Ansarallah (i ribelli Houthi, ndr) i Comitati popolari e l'esercito, che hanno il supporto popolare, è principalmente politico", perché queste forze "non hanno alcuna necessità di armi". A sostenerlo é Seyed Mohammad Marandi, analista politico e preside della Facoltà di Studi internazionali dell'Università di Teheran. L'Iran, aggiunge Marandi intervistato dall’Ansa, favorisce inoltre un accordo tra tutte le parti nello Yemen. Quello stesso accordo "che si era sul punto di chiudere quando i sauditi cominciarono a bombardare" il 26 marzo scorso, "come ha riferito al Wall Street Journal il poi dimissionario inviato dell'Onu per lo Yemen Jamal Benomar". Un accordo per la condivisione del potere tra tutte le parti, anche se Hadi – precisa – ne sarebbe stato escluso dopo esser stato eletto senza concedere alternative al popolo yemenita, visto che era l’unico candidato in lizza. “Era stato scelto per un mandato transitorio di soli due anni, al termine dei quali non ha lasciato – ricorda Marandi –. Quando i Comitati popolari e Ansarallah sono andati a Sana’a non vi è stato alcun combattimento, perché nessuno sosteneva Hadi. Il quale ha poi dato le dimissioni e quindi non ha motivo per essere il presidente. Senza contare che, quando permette che sia bombardato il proprio Paese, perde qualunque legittimità".
Ora, anche dopo mesi di combattimenti, il fronte anti-Hadi non ha "alcuna scarsità di armi – ribadisce l'analista – perché lo Yemen è stato per anni uno dei Paesi più armati del mondo, ed esercito e Ansarallah operano insieme". I sauditi invece sono "molto deboli", nonostante le armi fornite dagli Usa, perché non hanno la capacità di usarle "e i loro piloti hanno solo colpito strutture civili, ma nessun obiettivo strategico". Un attacco, quello saudita contro lo Yemen, che l'Iran ritiene sia stato deciso anche per rafforzare il nuovo ministro della Difesa Mohammad bin Salman, il giovane figlio del nuovo re Salman, ma che è comunque destinato a fallire. Gli Usa da parte loro "stanno con Riad perché dipendono dal suo petrolio e perché i sauditi comprano loro milioni di dollari in armi". Gli interessi statunitensi dunque, come quelli europei, "dipendono molto dall'Arabia Saudita, e questo spiega perché permettono ai sauditi di sostenere gruppi wahabiti come al Qaeda nello Yemen e in Siria e altri gruppi estremisti in Iraq. Mentre la Turchia di Erdogan sostiene l'Isis". Con quale scopo? "Di far cadere il governo in Siria e indebolire quello iracheno".
Al Nusra in Siria e l'Isis, ricorda ancora l'analista, sono separati ma hanno "le stesse radici in Al Qaida, si combattono ma talvolta cooperano": come accaduto nella recente presa del campo palestinese di Yarmuk vicino a Damasco. Al Nusra, afferma, "è sostenuta dai sauditi, dal Qatar e dalla Turchia, e quest'ultima supporta anche l'Isis. Gli Stati Uniti lo sanno, senza fare niente". Quanto a Israele, quando Hezbollah e l'esercito siriano stavano per sferrare il più grande attacco contro al Nusra, hanno ucciso i comandanti militari iraniani". Gli americani del resto fanno poco contro l'Isis, "se fossero davvero preoccupati fermerebbero Erdogan". E l'Europa? "Dovrebbe essere preoccupata anche per l'esportazione dell'ideologia wahabita che accomuna tutti questi pericolosi gruppi, da Boko Haram in Nigeria alla Libia e all'Isis, che arriva nelle sue moschee finanziate da Riad e Doha".
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