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23/11/2011

Professor Monti, non si uccidono così anche i cavalli?

Qualcuno vuol leggere il futuro contenuto nel programma del professor Monti? Allora eviti prima di tutto impressionarsi  a causa della spettacolarizzazione del calvinismo, del rigore e dell’austerità, operata dagli spin-doctor dell’informazione, sulla figura del presidente del consiglio. E’ vero che i vecchi media, come la televisione e la carta stampata, non solo funzionano come strumenti di selezione delle candidature istituzionali ma anche come processi di rigenerazione della legittimità politica che si infiltrano nelle pieghe profonde della morfologia sociale. Ma la ricostruzione, da parte dei media, della figura del presidente del consiglio in un ruolo pastorale, stavolta operato su canoni neopuritani, non è una garanzia di futuro per questo paese. Certo, sono cambiate le costruzioni del ruolo carismatico del potere. Nell’epoca dei partiti di massa questa costruzione si basava  sull’attribuizione di un ruolo carismatico, ricavata dagli archetipi della cultura del popolarismo cattolico o della cultura popolare di sinistra, ai segretari delle organizzazioni politiche. La stessa figura del presidente del consiglio, salvo eccezioni, aveva un impatto carismatico minore rispetto a quelle generate dai partiti. A partire dagli anni ’90, quando il potere carismatico passa dal terreno della politica direttamente a quello del denaro, ci sono due importanti momenti di saldatura tra carisma e presidente del consiglio. Mostrando che, nei partiti, l’evaporazione del carisma coincide con quella di un efficace ruolo politico che non sia l’occupazione degli spazi residui di potere. E il tratto di continuità tra Berlusconi e Monti sta tutto nel carisma che proviene loro da due diverse coniugazioni del rapporto tra potere e denaro. Probabilmente anche di due differenti stagioni del capitalismo italiano. Berlusconi faceva coincidere il proprio carisma con quello della carica di presidente del consiglio interpretando un potere del denaro sottolineato da una tv popolare, al cui vertice dell’immaginario stava la figura dell' imprenditore, in un paese disseminato di piccole industrie e di partite iva. Si esprimeva così l’utopia delle merci infinite per tutti di un mondo provinciale, fatto di imprenditori aggressivi e di donne formattate come veline. Monti interpreta invece il carisma del denaro con la figura del contabile celeste, che in Italia deve aver sia venature puritane (la casa delle vacanze in Svizzera, la specializzazione nella East Coast americana) che l’immancabile rimando storico al famigerato Quintino Sella, in grado di imporsi con la forza della necessità derivata dalla sua capacità di controllo della moneta. Del resto fiducia, credibilità, legittimità sono potere reale, quotato anche in borsa, nel mondo della governance europea e bancaria dal quale Monti proviene.
Ma la ricostruzione del tratto carismatico, per quanto triste, di un potere non coincide con la capacità di dare un futuro, quale che sia, al paese che si governa. Carisma e adesione ai dispositivi di governance non assicurano, di per sé, la tenuta di un paese. Ammesso, e non concesso, che il carisma duri e che la governance funzioni.

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Il governo Monti, al netto della propaganda, esprime infatti una sola necessità: quella di riprendersi la diretta rappresentanza politica e istituzionale da parte dei ceti dirigenti marginalizzati dal berlusconismo: due-tre grandi banche, l’alto funzionariato dello stato e quello legato alle istituzioni europe, i vertici del mondo cattolico e le gerarchie vaticane (che sarebbero formalmente espressione di uno stato estero ma, grazie anche a cinquant’anni di governi Dc, questo paese se ne è fatta una ragione).  L’occasione di mettere da parte Berlusconi, salvo un ritorno dovuto a miracolose campagne di marketing, è venuta però soprattutto grazie alla pressione di potenti poteri sovranazionali. Poteri che considerano questo ed ogni paese con criteri normativi e coercitivi che non hanno niente a che vedere con la coesione sociale e l’emancipazione: parametri di performatività dei profitti, coniugando la ferocia del primo ottocento da capitalismo puro con la mistica degli algoritmi che attestano la produttività, di alta complessità contabile, di posizionamento nei mercati finanziari globali.
Il potere reale del governo Monti non sta infatti tanto nel carisma interno, costruito e diffuso dai media ufficiali, ma in quello di coercizione esterno proveniente dalla (peraltro confusa) governance multilivello dell’Ue, della (oltretutto spaccata) Bce e dalle mutevoli esigenze di hedge fund che producono fatturati grandi quanto il Pil di Francia o Germania. L’Italia è sia il terreno sul quale viene esercitato questo potere di coercizione, forte sul campo quanto debole nelle strategie, che quello dal quale deve essere estratta la ricchezza necessaria per nutrire questi immensi dispositivi di governance e le esigenze di hedge fund che, presi assieme, hanno il potere di continenti.
Il governo Monti esprime quindi l’esigenza dell’ascesa sulla scala dei poteri globali della rappresentanza istituzionale, economica e finanziaria delle élite italiane. Non esprime quella, ormai desueta, dello sviluppo delle risorse nazionali anche in senso capitalistico. La stessa retorica della crescita, se messa in controluce rispetto alla situazione reale dell’economia liberista, nasconde quest’intenzione. Siccome l’Italia “cresce” storicamente solo se trainata dalla crescita internazionale, considerando che l’economia liberista globale è entrata in recessione, è evidente che le misure che verranno prese dal governo Monti nelle prossime settimane hanno altri scopi. Comunque non quelli di alleggerire il debito pubblico con la “crescita” o di fornire risorse a una popolazione già provata da un ventennio di “oggettive” politiche neoliberali. L’ex commissario Ue alla concorrenza, una carica istituzionalmente liberista, è un esperto in due tipi di politiche: aprire mercati e favorire profitti. Anche in presenza di una mancata “crescita” che, in questi casi, viene vista come la divina provvidenza: ci sarà quando l’ente supremo, in questo caso il mercato, vorrà. Ma in attesa delle decisioni delle entità supreme della crescita, rappresentate come divinità dai media, vanno comunque aperti nuovi mercati e garantiti profitti. Monti deve così garantire il mantenimento di una divaricazione tra salari e profitti già profondamente radicalizzatasi negli anni zero. Infatti, basta vedere le statistiche Istat,  se il paese “non cresce” nel corso degli anni zero sono cresciuti i profitti a discapito dei salari. Mai meglio il conflitto di classe fu certificato da una scienza dello stato, la statistica. Si tratta quindi, dopo la crisi cominciata nel 2008 (almeno ufficialmente), di tornare a  garantire ciò che oggi è garantito negli Usa sotto l’amministrazione Obama: profitti alti, e salari bassi, anche con una debole “crescita”. Tre misure che sono nella playlist di questo governo, salvo incidenti in aula, santificano questo approccio: i nuovi contratti, il modello Marchionne che diventa bussola definitiva del giuslavorismo, le liberalizzazioni dei servizi (in modo da garantire i profitti delle privatizzazioni abbassando i salari), le grandi opere (il terreno maggiormente performativo di questo modello di bassi salari e alti profitti).  Siccome poi il mondo  bancario è, oltre che esserne una delle cause, al centro della crisi si è messo un ministro allo sviluppo che, per gli interessi di cui fa materialmente parte, deve garantire proprio il raccordo tra grandi opere, liberalizzazioni e profitti bancari. Altro che aria nuova: il governo Monti è il tentativo tenace di ripetere, quanto più possibile, lo schema degli anni zero. Debole, se non inesistente, “crescita”, alti profitti, bassi salari. Se ci si chiede che tipo di Italia uscirà, se questo schema continuasse ad essere applicato, per la risposta basta rivolgersi alle cronache dei paesi sudamericani che hanno vissuto il “ventennio perduto” delle politiche dettate dal Fmi. Lo stesso istituto che nelle settimane scorse ha bussato alle porte dell’Italia.

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Ma l’aspetto più pericoloso del governo Monti, perché dire rischioso in questo scenario mondiale è usare un eufemismo, non risiede tanto nell’applicazione nazionale di politiche estreme di estrazione del profitto. E’ la dimensione europea nella quale si colloca l’operazione Monti che fa intravedere, per questo paese, una serie nutrita di pericoli.  Prendiamo l’operazione annunciata sulle pensioni: al netto delle cifre, e del marketing dei tagli, annuncia anche per l’Italia l’esaurimento di un principio sul quale si è basata la coesione sociale del mondo contemporaneo. Quello per cui, o tramite lo stato o il mercato, la fase più delicata della vita (l’età pensionabile) viene coperta da rischi. E questo esaurimento si sovrappone allo stesso fenomeno in altri ambiti: sanità, istruzione, figuriamoci l’ambiente. Il punto è che le immense risorse finanziarie che vengono tolte per compiere lo svuotamento di questo principio, i “risparmi” che eccitano i media, vanno verso una direzione che, socialmente parlando, non ha né senso né strategia e nemmeno uno stratega. Il governo Monti sta infatti per intervenire di nuovo, in termini lesivi, sulla sfera di riproduzione vitale della popolazione italiana senza sapere se questo intervento avrà, dal punto di vista sistemico europeo, un qualche effetto. E’ questo il significato reale, e sinistro, delle parole che Napolitano ripete sugli “impegni dell’Europa”. Infatti la crisi del debito non è solamente italiana è legata all’esistenza stessa di un mercato finanziario globale abnorme e alla struttura dell’euro. Per cui l’esaurimento della garanzia di principi sui quali si basa la coesione sociale del mondo contemporaneo avviene con strategie che sono un assoluto salto nel vuoto. Possiamo infatti spremere ogni risorsa possibile in questo paese e l’euro può saltare lo stesso. Non basta, come dice il marketing dei tagli, “fare i compiti a casa” (ah l’immaginario borghese è sempre il solito: la severità, i compiti casa. L’eccitazione dei giochi di ruolo della società disciplinare non l’ha mai abbandonato). Grecia, Spagna e Francia possono, nel prossimo futuro, affondare benissimo l’euro nonostante gli sforzi del professor Monti. E’ questo il pericolo che corriamo: garantire profitti a breve in Italia ed esplodere successivamente nel doomsday liberista europeo.
In quest’ottica è tanto più pericoloso il fatto che il professor Monti alle camere non abbia detto una parola di politica estera. Un mese e mezzo prima il Bundestag, votando sulle politiche del fondo salvastati europeo (che comunque a oggi è una scatola vuota),  aveva discusso apertamente e pubblicamente del futuro dell’Europa. Il silenzio di Monti sulla politica estera, nel momento in cui tutti i riflettori sono sull’Italia, rappresenta un evidente, e sottomesso, riconoscimento di una divisione continentale del lavoro politico dove si riconosce che la visione del futuro del continente spetta alla Germania. Del resto chi ha fatto il commissario europeo, conoscendo le regole della diplomazia, sa quando e come tacere in materia di politica estera. Se Monti lo ha fatto come presidente del consiglio il significato di questo silenzio è quello del riconoscimento di un primato che risiede a Berlino. Il punto però è che l’establisment della Germania è spaccato, come vi è una spaccatura tra Bundesbank e Bce (e all’interno della stessa banca centrale europea), sul che fare in questa crisi, su come comportarsi di fronte al previsto precipitarsi dello stato del debito sovrano nel continente. Monti applica così il principio, tipico dei generali italiani della prima guerra mondiale, per cui quando non c'è strategia si risponde con la più rigida applicazione della disciplina dell'attacco frontale contro il nemico. Sui morti giudicherà poi, abbondantemente ex post, la storia.
E così Mario Monti governa questo paese nel più perfetto stile Cadorna, retaggio ineliminabile delle classi dirigenti liberali di questo paese: assicurare i profitti, imporre rigida disciplina e massacro delle truppe anche in assenza di strategia. E persino a prescindere dalla confusione e dai conflitti presenti nel quartier generale. Del resto Cadorna come Monti sono prodotti che maturano alla fine storica di un ciclo della finanza globale. Altro che sogni della fine degli anni '90 che volevano che la creatività, la società della conoscenza, si sposasse con la crescita delle cedole azionarie. E' tornato il liberalismo di sempre: dietro la necessità di far fruttare le cedole azionarie o c'è il massacro al fronte o quello sociale.
Il cadornismo di Mario Monti toglie però un equivoco. Quello che vuole che l’Italia sia governata in nome della sovranità nazionale. Lo stesso Napolitano, nel seminario a Bruges del 26 ottobre ha detto che l’Italia è di fronte ad una operazione di cessione di sovranità. Ma nel capitalismo niente si getta: il residuo rimasto di sovranità nazionale serve infatti per applicare una potente coercizione, ed un altrettanto potente impoverimento, della popolazione italiana amministrata.
Il professor Monti, se non sarà fermato in modo efficace, ci porterà quindi verso una condizione sociale che ci ricorda quelle della grande depressione. Del resto l’impoverimento dei salari, l’azzeramento delle garanzie lavorative, l’esaurimento dei principi di coesione sociale se reiterati nel tempo non portano che verso quell’esito. Viene a mente il film di Sidney Lumet, Non si uccidono così anche i cavalli?. Parla delle gare di ballo durante la grande depressione. Dove i ballerini partecipavano solo per poter mangiare e cercavano di stare in gara quanto più possibile almeno per mangiare. Il premio, che attirava i concorrenti, era una truffa. Una volta ritirato dai vincitori il suo valore sarebbe stato completamente mangiato dalla detrazione delle spese di organizzazione. La popolazione ridotta dalle regole della moneta a bestiame, fino all'ennesima truffa delle regole che conduce allo sfinimento. Ecco la grande depressione.
Si dissolva quindi prima possibile l’immagine austera di Monti, costruita dagli spin doctor del Quirinale come di Repubblica e de La7, che serve solo a tenere in piedi un potere che non ha senso. Perché se non avviene questa dissolvenza, il rigoroso Monti e la sua setta della restrizione dello spread non avranno alcuna esitazione ad abbattere, o a far abbattere, settori significativi della popolazione come se fossero capi di bestiame. E questa continuità di metodo, nel trattamento della popolazione, tra Monti e Cadorna è il vero tratto unitario tra l’Italia liberale degli anni ’10 del novecento e quella neoliberale di oggi. Che dietro le figure austere ci sia il massacro, in nome di un conflitto senza senso, l’hanno capito un secolo fa i contadini mandati a morire sul Carso. Cerchiamo di operare in modo che in questo inizio di secolo il massacro non  sia percepito che a futura memoria.
Professor Monti, non si uccidono così anche i cavalli? Meglio quindi che risuoni questo interrogativo, nella comunicazione politica dal basso, precondizione per lo sgretolamento di un potere la cui dissoluzione è salute pubblica.

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