Qualcuno vuol leggere il futuro contenuto nel programma del professor
Monti? Allora eviti prima di tutto impressionarsi a causa della
spettacolarizzazione del calvinismo, del rigore e dell’austerità,
operata dagli spin-doctor dell’informazione, sulla figura del presidente
del consiglio. E’ vero che i vecchi media, come la televisione e la
carta stampata, non solo funzionano come strumenti di selezione delle
candidature istituzionali ma anche come processi di rigenerazione della
legittimità politica che si infiltrano nelle pieghe profonde della
morfologia sociale. Ma la ricostruzione, da parte dei media, della
figura del presidente del consiglio in un ruolo pastorale, stavolta
operato su canoni neopuritani, non è una garanzia di futuro per questo
paese. Certo, sono cambiate le costruzioni del ruolo carismatico del
potere. Nell’epoca dei partiti di massa questa costruzione si basava
sull’attribuizione di un ruolo carismatico, ricavata dagli archetipi
della cultura del popolarismo cattolico o della cultura popolare di
sinistra, ai segretari delle organizzazioni politiche. La stessa figura
del presidente del consiglio, salvo eccezioni, aveva un impatto
carismatico minore rispetto a quelle generate dai partiti. A partire
dagli anni ’90, quando il potere carismatico passa dal terreno della
politica direttamente a quello del denaro, ci sono due importanti
momenti di saldatura tra carisma e presidente del consiglio. Mostrando
che, nei partiti, l’evaporazione del carisma coincide con quella di un
efficace ruolo politico che non sia l’occupazione degli spazi residui di
potere. E il tratto di continuità tra Berlusconi e Monti sta tutto nel
carisma che proviene loro da due diverse coniugazioni del rapporto tra
potere e denaro. Probabilmente anche di due differenti stagioni del
capitalismo italiano. Berlusconi faceva coincidere il proprio carisma
con quello della carica di presidente del consiglio interpretando un
potere del denaro sottolineato da una tv popolare, al cui vertice
dell’immaginario stava la figura dell' imprenditore, in un paese
disseminato di piccole industrie e di partite iva. Si esprimeva così
l’utopia delle merci infinite per tutti di un mondo provinciale, fatto
di imprenditori aggressivi e di donne formattate come veline. Monti
interpreta invece il carisma del denaro con la figura del contabile
celeste, che in Italia deve aver sia venature puritane (la casa delle
vacanze in Svizzera, la specializzazione nella East Coast americana) che
l’immancabile rimando storico al famigerato Quintino Sella, in grado
di imporsi con la forza della necessità derivata dalla sua capacità di
controllo della moneta. Del resto fiducia, credibilità, legittimità
sono potere reale, quotato anche in borsa, nel mondo della governance
europea e bancaria dal quale Monti proviene.
Ma la ricostruzione del
tratto carismatico, per quanto triste, di un potere non coincide con
la capacità di dare un futuro, quale che sia, al paese che si governa.
Carisma e adesione ai dispositivi di governance non assicurano, di per
sé, la tenuta di un paese. Ammesso, e non concesso, che il carisma duri
e che la governance funzioni.
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Il governo Monti, al
netto della propaganda, esprime infatti una sola necessità: quella di
riprendersi la diretta rappresentanza politica e istituzionale da parte
dei ceti dirigenti marginalizzati dal berlusconismo: due-tre grandi
banche, l’alto funzionariato dello stato e quello legato alle
istituzioni europe, i vertici del mondo cattolico e le gerarchie
vaticane (che sarebbero formalmente espressione di uno stato estero ma,
grazie anche a cinquant’anni di governi Dc, questo paese se ne è fatta
una ragione). L’occasione di mettere da parte Berlusconi, salvo un
ritorno dovuto a miracolose campagne di marketing, è venuta però
soprattutto grazie alla pressione di potenti poteri sovranazionali.
Poteri che considerano questo ed ogni paese con criteri normativi e
coercitivi che non hanno niente a che vedere con la coesione sociale e
l’emancipazione: parametri di performatività dei profitti, coniugando
la ferocia del primo ottocento da capitalismo puro con la mistica degli
algoritmi che attestano la produttività, di alta complessità
contabile, di posizionamento nei mercati finanziari globali.
Il
potere reale del governo Monti non sta infatti tanto nel carisma
interno, costruito e diffuso dai media ufficiali, ma in quello di
coercizione esterno proveniente dalla (peraltro confusa) governance
multilivello dell’Ue, della (oltretutto spaccata) Bce e dalle mutevoli
esigenze di hedge fund che producono fatturati grandi quanto il Pil di
Francia o Germania. L’Italia è sia il terreno sul quale viene esercitato
questo potere di coercizione, forte sul campo quanto debole nelle
strategie, che quello dal quale deve essere estratta la ricchezza
necessaria per nutrire questi immensi dispositivi di governance e le
esigenze di hedge fund che, presi assieme, hanno il potere di
continenti.
Il governo Monti esprime quindi l’esigenza dell’ascesa
sulla scala dei poteri globali della rappresentanza istituzionale,
economica e finanziaria delle élite italiane. Non esprime quella, ormai
desueta, dello sviluppo delle risorse nazionali anche in senso
capitalistico. La stessa retorica della crescita, se messa in
controluce rispetto alla situazione reale dell’economia liberista,
nasconde quest’intenzione. Siccome l’Italia “cresce” storicamente solo
se trainata dalla crescita internazionale, considerando che l’economia
liberista globale è entrata in recessione, è evidente che le misure che
verranno prese dal governo Monti nelle prossime settimane hanno altri
scopi. Comunque non quelli di alleggerire il debito pubblico con la
“crescita” o di fornire risorse a una popolazione già provata da un
ventennio di “oggettive” politiche neoliberali. L’ex commissario Ue
alla concorrenza, una carica istituzionalmente liberista, è un esperto
in due tipi di politiche: aprire mercati e favorire profitti. Anche in
presenza di una mancata “crescita” che, in questi casi, viene vista
come la divina provvidenza: ci sarà quando l’ente supremo, in questo
caso il mercato, vorrà. Ma in attesa delle decisioni delle entità
supreme della crescita, rappresentate come divinità dai media, vanno
comunque aperti nuovi mercati e garantiti profitti. Monti deve così
garantire il mantenimento di una divaricazione tra salari e profitti
già profondamente radicalizzatasi negli anni zero. Infatti, basta
vedere le statistiche Istat, se il paese “non cresce” nel corso degli
anni zero sono cresciuti i profitti a discapito dei salari. Mai meglio
il conflitto di classe fu certificato da una scienza dello stato, la
statistica. Si tratta quindi, dopo la crisi cominciata nel 2008 (almeno
ufficialmente), di tornare a garantire ciò che oggi è garantito negli
Usa sotto l’amministrazione Obama: profitti alti, e salari bassi,
anche con una debole “crescita”. Tre misure che sono nella playlist di
questo governo, salvo incidenti in aula, santificano questo approccio: i
nuovi contratti, il modello Marchionne che diventa bussola definitiva
del giuslavorismo, le liberalizzazioni dei servizi (in modo da
garantire i profitti delle privatizzazioni abbassando i salari), le
grandi opere (il terreno maggiormente performativo di questo modello di
bassi salari e alti profitti). Siccome poi il mondo bancario è,
oltre che esserne una delle cause, al centro della crisi si è messo un
ministro allo sviluppo che, per gli interessi di cui fa materialmente
parte, deve garantire proprio il raccordo tra grandi opere,
liberalizzazioni e profitti bancari. Altro che aria nuova: il governo
Monti è il tentativo tenace di ripetere, quanto più possibile, lo
schema degli anni zero. Debole, se non inesistente, “crescita”, alti
profitti, bassi salari. Se ci si chiede che tipo di Italia uscirà, se
questo schema continuasse ad essere applicato, per la risposta basta
rivolgersi alle cronache dei paesi sudamericani che hanno vissuto il
“ventennio perduto” delle politiche dettate dal Fmi. Lo stesso istituto
che nelle settimane scorse ha bussato alle porte dell’Italia.
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Ma l’aspetto più pericoloso del governo Monti, perché dire rischioso in
questo scenario mondiale è usare un eufemismo, non risiede tanto
nell’applicazione nazionale di politiche estreme di estrazione del
profitto. E’ la dimensione europea nella quale si colloca l’operazione
Monti che fa intravedere, per questo paese, una serie nutrita di
pericoli. Prendiamo l’operazione annunciata sulle pensioni: al netto
delle cifre, e del marketing dei tagli, annuncia anche per l’Italia
l’esaurimento di un principio sul quale si è basata la coesione sociale
del mondo contemporaneo. Quello per cui, o tramite lo stato o il
mercato, la fase più delicata della vita (l’età pensionabile) viene
coperta da rischi. E questo esaurimento si sovrappone allo stesso
fenomeno in altri ambiti: sanità, istruzione, figuriamoci l’ambiente. Il
punto è che le immense risorse finanziarie che vengono tolte per
compiere lo svuotamento di questo principio, i “risparmi” che eccitano i
media, vanno verso una direzione che, socialmente parlando, non ha né
senso né strategia e nemmeno uno stratega. Il governo Monti sta infatti
per intervenire di nuovo, in termini lesivi, sulla sfera di
riproduzione vitale della popolazione italiana senza sapere se questo
intervento avrà, dal punto di vista sistemico europeo, un qualche
effetto. E’ questo il significato reale, e sinistro, delle parole che
Napolitano ripete sugli “impegni dell’Europa”. Infatti la crisi del
debito non è solamente italiana è legata all’esistenza stessa di un
mercato finanziario globale abnorme e alla struttura dell’euro. Per cui
l’esaurimento della garanzia di principi sui quali si basa la coesione
sociale del mondo contemporaneo avviene con strategie che sono un
assoluto salto nel vuoto. Possiamo infatti spremere ogni risorsa
possibile in questo paese e l’euro può saltare lo stesso. Non basta,
come dice il marketing dei tagli, “fare i compiti a casa” (ah
l’immaginario borghese è sempre il solito: la severità, i compiti casa.
L’eccitazione dei giochi di ruolo della società disciplinare non l’ha
mai abbandonato). Grecia, Spagna e Francia possono, nel prossimo futuro,
affondare benissimo l’euro nonostante gli sforzi del professor Monti.
E’ questo il pericolo che corriamo: garantire profitti a breve in
Italia ed esplodere successivamente nel doomsday liberista europeo.
In quest’ottica è tanto più pericoloso il fatto che il professor Monti
alle camere non abbia detto una parola di politica estera. Un mese e
mezzo prima il Bundestag, votando sulle politiche del fondo salvastati
europeo (che comunque a oggi è una scatola vuota), aveva discusso
apertamente e pubblicamente del futuro dell’Europa. Il silenzio di Monti
sulla politica estera, nel momento in cui tutti i riflettori sono
sull’Italia, rappresenta un evidente, e sottomesso, riconoscimento di
una divisione continentale del lavoro politico dove si riconosce che la
visione del futuro del continente spetta alla Germania. Del resto chi
ha fatto il commissario europeo, conoscendo le regole della diplomazia,
sa quando e come tacere in materia di politica estera. Se Monti lo ha
fatto come presidente del consiglio il significato di questo silenzio è
quello del riconoscimento di un primato che risiede a Berlino. Il
punto però è che l’establisment della Germania è spaccato, come vi è
una spaccatura tra Bundesbank e Bce (e all’interno della stessa banca
centrale europea), sul che fare in questa crisi, su come comportarsi di
fronte al previsto precipitarsi dello stato del debito sovrano nel
continente. Monti applica così il principio, tipico dei generali
italiani della prima guerra mondiale, per cui quando non c'è strategia
si risponde con la più rigida applicazione della disciplina dell'attacco
frontale contro il nemico. Sui morti giudicherà poi, abbondantemente
ex post, la storia.
E così Mario Monti governa questo paese nel più
perfetto stile Cadorna, retaggio ineliminabile delle classi dirigenti
liberali di questo paese: assicurare i profitti, imporre rigida
disciplina e massacro delle truppe anche in assenza di strategia. E
persino a prescindere dalla confusione e dai conflitti presenti nel
quartier generale. Del resto Cadorna come Monti sono prodotti che
maturano alla fine storica di un ciclo della finanza globale. Altro che
sogni della fine degli anni '90 che volevano che la creatività, la
società della conoscenza, si sposasse con la crescita delle cedole
azionarie. E' tornato il liberalismo di sempre: dietro la necessità di
far fruttare le cedole azionarie o c'è il massacro al fronte o quello
sociale.
Il cadornismo di Mario Monti toglie però un equivoco.
Quello che vuole che l’Italia sia governata in nome della sovranità
nazionale. Lo stesso Napolitano, nel seminario a Bruges del 26 ottobre
ha detto che l’Italia è di fronte ad una operazione di cessione di
sovranità. Ma nel capitalismo niente si getta: il residuo rimasto di
sovranità nazionale serve infatti per applicare una potente
coercizione, ed un altrettanto potente impoverimento, della popolazione
italiana amministrata.
Il professor Monti, se non sarà fermato in
modo efficace, ci porterà quindi verso una condizione sociale che ci
ricorda quelle della grande depressione. Del resto l’impoverimento dei
salari, l’azzeramento delle garanzie lavorative, l’esaurimento dei
principi di coesione sociale se reiterati nel tempo non portano che
verso quell’esito. Viene a mente il film di Sidney Lumet, Non si
uccidono così anche i cavalli?. Parla delle gare di ballo durante la
grande depressione. Dove i ballerini partecipavano solo per poter
mangiare e cercavano di stare in gara quanto più possibile almeno per
mangiare. Il premio, che attirava i concorrenti, era una truffa. Una
volta ritirato dai vincitori il suo valore sarebbe stato completamente
mangiato dalla detrazione delle spese di organizzazione. La popolazione
ridotta dalle regole della moneta a bestiame, fino all'ennesima truffa
delle regole che conduce allo sfinimento. Ecco la grande depressione.
Si dissolva quindi prima possibile l’immagine austera di Monti,
costruita dagli spin doctor del Quirinale come di Repubblica e de La7,
che serve solo a tenere in piedi un potere che non ha senso. Perché se
non avviene questa dissolvenza, il rigoroso Monti e la sua setta della
restrizione dello spread non avranno alcuna esitazione ad abbattere, o a
far abbattere, settori significativi della popolazione come se fossero
capi di bestiame. E questa continuità di metodo, nel trattamento della
popolazione, tra Monti e Cadorna è il vero tratto unitario tra
l’Italia liberale degli anni ’10 del novecento e quella neoliberale di
oggi. Che dietro le figure austere ci sia il massacro, in nome di un
conflitto senza senso, l’hanno capito un secolo fa i contadini mandati a
morire sul Carso. Cerchiamo di operare in modo che in questo inizio di
secolo il massacro non sia percepito che a futura memoria.
Professor Monti, non si uccidono così anche i cavalli? Meglio quindi che
risuoni questo interrogativo, nella comunicazione politica dal basso,
precondizione per lo sgretolamento di un potere la cui dissoluzione è
salute pubblica.
Fonte.
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