Mentre l'attenzione mondiale è comprensibilmente
concentrata sulla crisi sistemica che sta colpendo con sempre maggiore
profondità l'Occidente, si moltiplicano negli ultimi giorni i segnali di
una decisione occidentale sull'attacco all'Iran: uno scenario bellico
certo non nuovo che vedrebbe l'azione congiunta di forze missilistiche e
aeree anglo-americane colpire partendo dal Golfo Persico e dall'Oceano
Indiano, col supporto di azioni chirurgiche delle forze speciali sul
terreno. Per tale ragione, gli Usa avrebbero già chiesto di utilizzare
la base britannica di Diego Garcia nell'Oceano Indiano e starebbero
rafforzando il proprio dispositivo aereo-navale nel Golfo Persico,
intensificando la cooperazione militare già in atto da tempo con Arabia
Saudita, Kuwait, Bahrain, Qatar, con gli Emirati Arabi Uniti e con
l'Oman.
Sul piano dei fatti documentati, possiamo registrare
l'addestramento per azioni a lungo raggio che Israele sta svolgendo
nelle ultime settimane nel poligono militare di Decimomannu, in Italia:
una circostanza non nuova, che abbiamo più volte documentato su
Clarissa.it (ad esempio qui),
anche se la presenza di ben sei squadroni di varie specialità
dell'aviazione israeliana è sicuramente un fatto senza precedenti,
rivelatore anche della crescente agibilità per Israele nei cieli
italiani.
Sempre l'aviazione israeliana ha poi svolto la scorsa
settimana, secondo notizie di stampa non smentite, un lancio
sperimentale di un nuovo missile a lungo raggio, dalla base di Palmahim,
un test che ha lasciato una scia visibile nei cieli di tutta la parte
centrale dello Stato ebraico.
Si tratta quindi complessivamente di un
evidente potenziamento della componente offensiva israeliana, che si va
ad integrare con la disponibilità del sistema di difesa antimissile Iron Dome, di cui, anche in questo caso, ci siamo più volte occupati su questo sito (ad esempio qui
), ultimamente assai discusso anche sul piano tecnico dagli specialisti
per i non completi successi contro i lanci di razzi da Gaza.
Il
livello di dettaglio di queste notizie potrebbe far ritenere che si
tratti semplicemente di una modalità, non nuova ai rapporti
internazionali, di esercitare pressioni indirette sull'Iran, allo scopo
di evitare di dover ricorrere al confronto militare diretto. Ma vi sono
alcuni elementi che fanno pensare che l'affiorare di informazioni così
delicate sia solo parte del confronto in atto sulla tattica da adottare
nei confronti della questione iraniana, non certo sulla prospettiva
strategica di colpire a fondo l'Iran.
Secondo il giornale kuwaitiano Al-Jarida,
infatti, sarebbero stati gli ex responsabili del Mossad, Meir Dagan, e
dello Shin Bet, Yuval Diskin, a lasciar trapelare queste indiscrezioni.
Se ne dovrebbe dedurre che alti esponenti dell'intelligence israeliana
sarebbero contrari ad un attacco diretto all'Iran, probabilmente
ritenendo che la campagna di guerra informatica e di uccisioni mirate di
scienziati iraniani sia la soluzione più efficace oltreché meno
azzardata.
In tal modo, gli ambienti dell'intelligence si
inserirebbero nel dibattito in corso nel governo israeliano, dove il
primo ministro Netanyahu ed il ministro della difesa Barak, da tempo
decisi ad un'azione di forza, avrebbero portato sulle loro posizioni
anche il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, fino ad ora
sostanzialmente contrario. I ministri sfavorevoli all'attacco
disporrebbero a questo punto di un vantaggio numerico assai esiguo e di
un peso politico sempre più ridotto. Vi è poi da considerare il fatto
che molti esponenti israeliani, seppur contrari ad un diretto impegno
militare israeliano, sono invece favorevoli a che l'attacco venga
sferrato dalle forze anglo-americane, possibilmente in un contesto
internazionale opportunamente costruito per sostenere l'opzione
militare.
Il ministro dell'intelligence e dell'energia atomica
israeliano, Dan Meridor, ad esempio, ha dichiarato qualche settimana fa
sul sito web Walla!: "È chiaro a tutti che un Iran nucleare è
un serio pericolo ed il mondo intero, guidato dagli Stati Uniti, deve
sviluppare uno sforzo continuo per impedire all'Iran di ottenere armi
atomiche. Gli iraniani hanno già oltre 4 tonnellate di uranio arricchito
al 3-4 per cento e 70 chilogrammi di uranio arricchito al 20 per cento.
È chiaro che stanno continuando a predisporre missili. La
nuclearizzazione dell'Iran non è solo una minaccia per Israele ma anche
contro diversi altri stati occidentali e l'interesse internazionale deve
coincidere su questo".
Per quest'ultima ragione, sarà molto
importante leggere il nuovo rapporto dell'Agenzia Atomica
Internazionale, atteso per il prossimo 8 novembre, in quanto secondo
molte indiscrezioni conterrebbe informazioni rivolte a dimostrare la
crescita del potenziale nucleare militare iraniano: gli stessi ambienti
diplomatici e militari che ipotizzano un imminente attacco all'Iran,
sostengono infatti che il paese disporrà entro i prossimi sei mesi di un
numero variabile da 2 a 4 armi nucleari operative. È chiaro che se il
rapporto AIEA confermasse queste ipotesi, i fautori dell'attacco
militare disporrebbero della motivazione necessaria per agire con un
sufficiente consenso internazionale.
Gli analisti citati da un recentissimo, dettagliato reportage del Guardian britannico escludono un attacco nel corso del prossimo inverno, ma ritengono che la primavera del 2012 sia a key decision-making period
("un momento chiave per decidere"): da qui ad allora, la pressione
israeliana potrebbe quindi superare le possibili residue resistenze
dell'amministrazione Usa, legate ai rischi di un'impresa militare
nell'imminenza delle presidenziali del novembre 2012. Tanto più se
questa azione, rapida e chirurgica, non comportasse impegni di lungo
periodo e potesse essere proposta negli stessi termini trionfalistici
del tipo "giustizia è fatta" che hanno accompagnato l'eliminazione di
Osama bin Laden in Pakistan.
Dal punto vista israeliano, il momento è
sicuramente decisivo. La questione palestinese marcia verso una
possibile internazionalizzazione, come ha dimostrato il voto all'Unesco;
mentre all'interno è ben nota la debolezza politica dell'Autorità
Nazionale Palestinese. La Siria è ormai completamente priva di capacità
di intervenire, per cui le forze di Hezbollah in Libano non potrebbero
contare sul suo supporto in caso di un eventuale allargamento del
conflitto: a quel punto, Hezbollah potrebbe addirittura essere oggetto
di un massiccio intervento preventivo israeliano, giustificato
dall'attacco contro l'Iran e dal rischio di possibili reazioni da parte
di quest'ultimo.
La cosiddetta "primavera araba" ha poi eliminato gli
ultimi residui dei regimi nazionalisti e populisti di impronta
nasseriana (Mubarak, Gheddafi, Ben Ali) o li ha messi in condizioni di
gravissima crisi, come nel caso di Assad in Siria. Allo stesso tempo, ha
definitivamente consolidato il ruolo ispiratore religioso dell'Arabia
Saudita, con il suo orientamento ideologico wahabita - da sempre
mortalmente ostile al regime shiita iraniano, dimostrandone il ruolo
singolarmente complementare a quello della presunta democracy building occidentale, proprio come già avvenuto, con i risultati che ben conosciamo, in Afghanistan.
L'incognita
che potrebbe pesare sul calcolo di opportunità israeliano è
rappresentata dalla Turchia, spesso trovatasi ai ferri corti con Israele
nell'ultimo triennio. Anche su questo piano, tuttavia, la "primavera
araba" ha avuto effetti, ancora non tutti decifrabili, ma sicuramente
rassicuranti. L'esigenza di contenere la diffusione dell'influenza
saudita nel mondo islamico, da un lato, e, dall'altro, il rischio di
trovarsi isolata nell'arco di crisi medio-orientale, spiega la rapida
conversione delle posizioni turche davanti alle crisi che hanno colpito i
regimi di Assad e Gheddafi: dopo un primo timido tentativo di difendere
lo status quo, la Turchia si è allineata alle posizioni occidentali,
rompendo di fatto la possibilità di un asse Turchia, Siria, Iran apparso
possibile solo qualche semestre fa. Ha fattivamente supportato,
logisticamente e militarmente la Nato nella Libia occidentale; sta
sostenendo le opposizioni "moderate" contro Assad, ospitandole sul suo
territorio. Decisioni che collocano di fatto la Turchia dell'AKP in una
linea di continuità con i governi turchi sotto tutela militare, al punto
che autorevoli studiosi filo-atlantici la propongono oggi
entusiasticamente come il possibile modello di un islamismo
filo-occidentale da diffondere in tutta l'area.
L'ultima, decisiva
incognita è chiaramente rappresentata dall'Iran stesso, nel quale è con
tutta evidenza in corso un conflitto interno che deciderà del futuro di
Ahmadinejad e della sua linea politico-ideologica, in vista delle
presidenziali del 2013. È possibile che gli ambienti occidentali ed
israeliani che intendono evitare l'opzione militare contino piuttosto
sulla possibilità, sulla quale stanno anche spregiudicatamente operando,
che in Iran possa prodursi un mutamento interno tale da riaprire la
possibilità di una sua integrazione in un Medio Oriente dominato dagli
Stati Uniti e da Israele, eliminando l'ultima, fastidiosa eccezione. Si
tratterà a questo punto di vedere se la loro, meno muscolosa e più
raffinata scommessa, sia quella vincente: quello che è certo è che in
tempi di crisi economiche sistemiche, oggi proprio come sul finire degli
anni Trenta del Novecento, la guerra è molto utile per determinare
quella "distruzione creatrice" di cui periodicamente il capitalismo,
secondo Schumpeter, ha un'assoluta necessità.
Fonte.
Trovo che le ultime 4 righe siano particolarmente profetiche in merito a quello che potrà essere il futuro.
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