Intervista a Francesco Dall’Aglio, ricercatore presso l’Istituto di Studi Storici dell’Accademia delle Scienze di Sofia (Bulgaria).
Sul tuo profilo Facebook stai conducendo una disamina seria e documentata delle notizie che derivano dagli eventi che, quotidianamente, si consumano nel corso della guerra in Ucraina. Leggendo i tuoi post e i commenti che esprimi si ricava l’impressione di osservare un altra realtà rispetto a quella che ci viene propinata dai dispositivi della comunicazione deviante che appestano la “pubblica opinione”. Puoi illustrarci le motivazioni e le ragioni per cui ti stai cimentando in questa attività?
Le motivazioni non hanno nulla a che fare con l’apprezzamento per la ‟operazione speciale”, come ogni tanto qualcuno mi rinfaccia. Il motivo è molto semplice: io mi occupo di storia e presto molta attenzione all’interpretazione delle fonti.
Per motivi professionali, inoltre, conoscendo sia il russo che l’ucraino (molto meno bene purtroppo) avevo la possibilità di seguire i media locali, da ben prima che scoppiasse la guerra.
Fin dall’inizio del conflitto ho notato uno scollamento pressoché assoluto tra le informazioni che al pubblico italiano, e occidentale in generale, era consentito ricevere dai mass media, e ciò che si vedeva sul campo. Tutto ciò che contrastava con i punti fermi del discorso che, per brevità e in maniera un po’ superficiale definirò ‛atlantista’, veniva omesso; le voci dissidenti etichettate come prezzolate dal Cremlino, e i media russi censurati per evitare che ‛infettassero’ l’opinione pubblica.
Ho anche notato da subito una distanza abissale tra la doppia narrazione che ci veniva fornita: una Ucraina valorosa e che bisogna dotare di armi ed equipaggiamenti perché in tempi più o meno brevi la sua resistenza consentirà di infliggere perdite talmente tanto alte alla Russia da obbligarla a ritirarsi e a chiedere la pace.
E un esercito russo, oltre che brutale, disorganizzato e incompetente, col morale basso, catene di comando inefficienti, armamenti antiquati, scarsa capacità di rifornire le truppe anche e soprattutto grazie alle sanzioni che ne mineranno in tempi brevi le capacità produttive, con perdite altissime nascoste alla popolazione insofferente per i disagi che patisce e pronta alla rivolta, schiava di un dittatore impazzito e nascosto in un bunker negli Urali e via di seguito.
Il tutto sintetizzato nella famosa questione del ‟prendere Kiev in tre giorni”, trascorsi i quali si è cominciato a parlare esplicitamente di fallimento dell’invasione e conseguentemente di vittoria finale ucraina data per certa.
E infine ho notato, soprattutto, una insipienza pressoché assoluta da parte dei giornalisti occidentali nei confronti della tecnica militare, e della dottrina tattica e strategica, sia russa che ucraina, pesantemente influenzata, quest’ultima, dalla dottrina NATO.
La situazione sul campo ci ha mostrato da subito una situazione del tutto diversa.
In primo luogo, l’andamento delle operazioni è stato deciso esclusivamente dall’esercito russo. In secondo luogo, mentre gli analisti occidentali si aspettavano (o dicevano di aspettarsi) una guerra-lampo in stile Desert Storm, l’esercito russo ha scelto invece la via della guerra d’attrito e delle battaglie di materiali, facendo valere la sua superiorità in fatto di artiglieria e missili.
In terzo luogo, all’inizio del conflitto le direttrici dell’invasione russa, presentate dai nostri media come caotiche e inconcludenti, avevano l’obiettivo di stornare quante più forze possibile dall’obiettivo principale, cioè il Donbass e la parte costiera dell’Ucraina.
E quando l’obiettivo è stato raggiunto e un numero sufficiente di forze ucraine è stato ‛degradato’, come eufemisticamente si dice in linguaggio militare, solo allora le carte sono state scoperte e il vero obiettivo dichiarato e perseguito.
Io mi limito semplicemente a rendere esplicite queste cose, perché comprendere le operazioni militari fa parte del mio lavoro e ho accesso alle fonti, o se si preferisce alla propaganda, di entrambi i contendenti.
Non perché, come ho detto prima, io sia ‛pagato da Putin’ o apprezzi la sua politica, ma perché ritengo sia giusto informare il pubblico in maniera quanto più obiettiva possibile. Che poi è, o dovrebbe essere, il compito degli storici, oltre che dei giornalisti.
Da studioso dei paesi dell’Est, ed anche di “storia militare”, puoi offrirci il tuo punto di vista sulla genesi di questo conflitto e sulle motivazioni vere che hanno spinto il gruppo dirigente della Federazione Russa ad imboccare la complicata strada del conflitto bellico che – oggettivamente – è cosa ben diversa dal “semplice” scontro tra Russia ed Ucraina?
La genesi del conflitto è molteplice ed è difficile isolare una motivazione principale, perché tutte si sostengono a vicenda.
C’è la questione dell’allargamento a est della NATO, e della perdita da parte russa del controllo su quella che era la periferia dell’impero. E se la Russia ha dovuto accettare la presenza NATO nei paesi baltici, perché non era in condizione di opporsi, si è trovata ora nella possibilità di porre un veto all’espansione in Ucraina.
Questo per motivi di prestigio nazionale, sicuramente. In parte per nostalgia imperiale. In parte perché alcuni settori della cultura e della politica russa sostengono (a torto, ovviamente) che l’Ucraina sia uno Stato fasullo, senza storia e tradizioni, con una lingua che è un dialetto del russo, e rientri naturalmente nell’area di pertinenza russa.
La preoccupazione, però, a mio avviso è soprattutto strategica. Da sempre la difesa del nucleo della Russia, quella mezzaluna che va da San Pietroburgo a Mosca a Kazan’ agli Urali, nella quale è concentrata la stragrande maggioranza della popolazione e delle attività produttive (ma non estrattive) è basata sulla difesa di profondità, e sulla possibilità, stante l’enorme estensione territoriale, di sacrificare pezzi anche cospicui pur di rallentare e sfinire l’avversario, come avvenuto con successo in passato.
In quest’ottica la perdita dell’Ucraina è inaccettabile, perché significherebbe che un’eventuale esercito avversario si troverebbe già all’inizio delle operazioni militari a 300 chilometri da Volgograd (cioè Stalingrado...) invece che 1.100; e una flotta ostile che potesse far base a Sebastopoli avrebbe automaticamente il controllo di tutto il Mar Nero.
Questo, più che il discorso della denazificazione o di ‛Putin che si crede Pietro il Grande’, è il punto fondamentale della questione.
Ovviamente non sei un indovino ma – sulla scorta dei dati in tuo possesso – che previsioni fai sull’evoluzione del conflitto e sui futuri assetti territoriali e geo/politici che scaturiranno in questo quadrante di crisi?
L’evoluzione del conflitto allo stato attuale delle cose, e in assenza di nuovi eventi realmente determinanti (che in questo momento potrebbero essere solo l’intervento diretto della NATO o una sollevazione in Russia, entrambi, e soprattutto il secondo, piuttosto improbabili) ci porta a credere che alla fine la vittoria sul campo andrà alla Russia.
Va ricordato che non è stata proclamata la mobilitazione, che l’economia non è stata messa al servizio dello sforzo bellico, o almeno non in larga parte, che il territorio russo è intatto insieme alle sue linee di comunicazione e alla sua capacità produttiva (con i limiti imposti dalle sanzioni, che però non hanno avuto l’effetto che l’Occidente sperava), e che la totalità delle operazioni belliche si svolgono su suolo ucraino.
Mentre per quanto riguarda l’Ucraina la situazione è diametralmente opposta: il paese è alla quarta mobilitazione (a ottobre saranno chiamate al fronte anche le donne), la sua economia è distrutta insieme alle linee produttive e logistiche, dipende interamente dall’assistenza finanziaria e militare dell’Occidente, e ha subito perdite molto elevate sia in uomini che materiali, che la obbligano a lasciare l’iniziativa strategica esclusivamente in mano russa, e a cercare vittorie propagandistiche, dai droni spediti in Crimea alla famosa ‛controffensiva di Cherson’ che “sta per essere lanciata” ormai da maggio.
Ciò che invece sarebbe interessante capire è fino a dove la Russia vuole o può spingersi.
Perché se all’inizio delle ostilità il programma, almeno quello dichiarato, era minimo (Donbass nei confini delle oblast, quindi fino alla Crimea) ora tutto sembra lasciar supporre che i territori messi sotto controllo russo non verranno restituiti all’Ucraina.
E non è chiaro se la Russia intenda spingersi ancora oltre, fino alla Transnistria, togliendo all’Ucraina ogni accesso al Mar Nero, o magari incorporando altre zone tipo la regione di Kharkiv.
Tutto dipenderà da questi fattori: la durata e la capacità delle resistenza ucraina; la volontà della Russia di continuare o non continuare l’espansione; e la reazione dell’Occidente, che potrebbe decidere di prolungare l’aiuto militare e le sanzioni alla Russia per così tanto tempo da annullare i vantaggi, politici ed economici, dell’annessione dei nuovi territori.
Fermo restando, naturalmente, che l’Occidente potrebbe essere costretto, e nemmeno tra troppo tempo, a ritirare il sostegno militare ed economico all’Ucraina per non andare incontro a una catastrofe economica in casa sua.
E chissà se l’attentato a Darya Dugina non rientri già in questa ottica di economizzare; sempre ammesso, ovviamente, che siano stati i servizi ucraini o occidentali (l’intervista è stata raccolta prima dei risultati dell’inchiesta russa sull’attentato, ndr).
Inoltre non va dimenticata una cosa: per la Russia il controllo dell’Ucraina è questione di vita o di morte, per i motivi che abbiamo analizzato in precedenza, ed è disposta ad andare incontro alle più estreme conseguenze per mantenerlo.
Per l’Occidente globale, alla fin fine, la perdita dell’Ucraina è gestibile. Soprattutto se accettarla significa tornare a fare affari con la Russia. Ma come dici tu, non sono un indovino...
Ti chiedo una valutazione “più politica”. La Federazione Russa non è l’Unione Sovietica e, quindi, qualsiasi accostamento – anche inconsapevole – tra queste due “esperienze politiche e statali” è foriero di errori storici ed anche di natura immediata. Con tale premessa, come interpreti la funzione (ed il rinnovato dinamismo) internazionale che la Russia di Putin sta dispiegando nell’ambito dell’accresciuta competizione globale tra potenze, blocchi militari ed aree monetarie?
La Federazione Russa non è affatto l’erede ideologico dell’Unione Sovietica, e questo va detto a chiare lettere e senza ambiguità.
Si tratta di uno stato autoritario, sciovinista, poco rispettoso delle libertà e dei diritti individuali, ma soprattutto di uno stato iper-liberale in cui il grande capitale è sì controllato direttamente o indirettamente dal potere politico, ma di certo non per ridistribuire i profitti alla popolazione.
Il fatto che alcuni soldati russi portino fieramente lo stemmino dell’URSS sull’elmetto, o l’attenzione propagandistica riservata dal governo russo alla seconda guerra mondiale o alla resistenza al nazismo, non devono farci dimenticare questa verità, che per noi ‛vecchi’ è certamente dolorosa e beffarda, ma con la quale bisogna fare i conti subito e senza illusioni.
Qualsiasi discorso sulla Russia di Putin, e comunque sulla Russia post-sovietica, non può prescindere da questo esame di realtà.
Ciò detto, è indubbio che le aspirazioni della Russia siano in primo luogo quella di tornare nel novero delle grandi potenze dopo il disastro degli anni ‛90 e ‛00, e di essere riconosciuta come tale a livello globale; e poi quello di costituire, e possibilmente guidare, un nuovo polo che si opponga a quello USA-NATO.
Questo però per motivi di prestigio nazionale più che per differente ideologia: e questo spiega non solo il modello economico liberista abbracciato entusiasticamente dalle élite al potere, ma anche una serie di alleanze con Paesi coi quali non necessariamente la Russia si trova d’accordo in tutto, come la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia soprattutto, con la quale il rapporto è improntato alla massima ambiguità ma si rende necessario sia per via del modello politico autoritario di entrambi gli stati che per la volontà di ritagliarsi quanto più spazio possibile al di fuori dell’egemonia occidentale.
La tenuta di questo blocco è chiaramente ancora tutta da provare sul lungo periodo. Ma che ci sia in buona parte del mondo una decisa insofferenza nei confronti dell’unipolarismo a guida statunitense, e che molti paesi tuttora superficialmente considerati “terzo mondo” pretendano un maggiore riconoscimento e si trovino, alcuni per la prima volta, in grado di cominciare a pretenderlo, è un dato di fatto.
Purtroppo ben pochi di questi paesi sono al di fuori del discorso liberista. La speranza, naturalmente, è che questa opposizione si trasformi col tempo in una opposizione al modello di sviluppo capitalista, non solo in un desiderio di partecipare alla spartizione dei profitti. Ma al momento, almeno per la Russia, la situazione è questa.
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