Il “Decreto di San Valentino”, la battaglia sulla scala mobile. Quarant’anni dopo. L’Unità ne discute con l’economista Emiliano Brancaccio, autore di ricerche pubblicate da autorevoli riviste accademiche, che provano come la precarizzazione e lo schiacciamento dei salari non abbiano favorito la creazione di posti di lavoro.
Il 14 febbraio 1984, il governo Craxi approvò il “decreto di San Valentino” che tagliò la scala mobile. Come venne giustificata quella scelta?
Craxi decise di agire “di forza” in un dibattito che si trascinava ormai da diversi anni. La giustificazione “tecnica” del decreto era che il meccanismo di protezione dei salari basato sulla scala mobile era colpevole di trasformare anche gli aumenti isolati dei prezzi, magari importati dall’estero, in focolai di inflazione permanente. Ridimensionare la scala mobile veniva quindi considerato “logico”, non solo dalle associazioni padronali ma anche dagli economisti più in voga: Modigliani, Monti, in parte lo stesso Tarantelli. In realtà, in questa lettura apparentemente “neutrale” c’era un vizio di fondo.
Quale?
Come giustamente fecero notare Paolo Sylos Labini e altri, il quadro internazionale era profondamente cambiato rispetto agli anni Settanta. Il boom petrolifero era finito, le svalutazioni erano impedite dal nuovo sistema a cambi fissi, per cui la scala mobile rispondeva ad aumenti di prezzo che provenivano non più tanto dall’esterno quanto piuttosto dall’interno. E il punto chiave è che non si trattava più di spinte salariali, visto che già da tempo le rivendicazioni operaie erano calate. In larga misura si trattava di spinte inflattive generate dall’obiettivo delle imprese di rilanciare i profitti, in parte dall’aumento delle rendite e dalla dinamica delle tariffe pubbliche e della tassazione. Non a caso, rispetto alla punta massima del 1975, nel 1984 la quota di reddito nazionale destinata ai salari era già precipitata di quattro punti.
Quale fu l’effetto sociale del decreto?
Rallentando la scala mobile, il governo Craxi toglieva alla classe lavoratrice un meccanismo per proteggersi da rivendicazioni che ormai venivano solo dal lato dei capitalisti e dalle sacche ancora ampie di borghesia beneficiaria del bilancio pubblico. Non a caso, anche grazie al disinnesco della scala mobile, nei cinque anni successivi la quota di reddito spettante ai salari crollò di altri quattro punti.
Sul taglio della scala mobile si innestò una stagione di dure lotte operaie, sostenute dal PCI di Enrico Berlinguer e, sia pure con qualche mal di pancia, dalla CGIL di Luciano Lama. Lotte che sfociarono nel referendum del giugno 1985, con la vittoria del “no” e quindi la conferma del taglio della scala mobile.
In realtà erano già anni di riflusso delle lotte: i dati ILO indicano che rispetto alle punte degli anni Settanta, gli scioperi erano calati di oltre il 20 percento. Craxi intuì il mutamento della fase storica e decise di intervenire a gamba tesa, in un ambito in cui fino ad allora i governi tendevano a dare priorità alle trattative tra le parti sociali. Fu il primo atto di una lunga epoca che dura ancora oggi, e che definirei di “esecutivizzazione” della lotta di classe: ossia, il governo soverchia la contrattazione e diventa a tutti gli effetti strumento della classe egemone per accrescere i margini di profitto. Vista in questi termini, si capisce meglio la ragione per cui Berlinguer avvertì l’urgenza di intervenire anche lui sul piano politico. Morì prima di rendersi conto che aveva sbagliato le previsioni sul referendum. Ma non credo avesse molta scelta, dopo l’accelerazione tutta politica di Craxi.
Ritiene che oggi la sinistra politica e sindacale abbia maturato una riflessione critica su quella stagione?
Non so se l’abbia fatto ma dovrebbe. In Italia, questa lotta di classe rovesciata, a favore del capitale, ha agito con un’intensità superiore che in altri paesi. Le ripercussioni sulle disuguaglianze e sul tenore di vita delle lavoratrici e dei lavoratori sono state particolarmente pesanti. I dati Ameco della Commissione europea indicano che in Italia la quota dei salari sul reddito nazionale è ormai 4 punti sotto la media europea. E nell’arco di questo secolo, mentre nella media europea il potere d’acquisto delle retribuzioni è aumentato di dieci punti, da noi è calato di tre punti e mezzo.
Lei ha sostenuto spesso che questa corsa al ribasso dei salari ha anche danneggiato l’efficienza del nostro sistema delle imprese.
Se viene a mancare la “frusta” della spinta salariale, le imprese hanno meno stimoli a migliorare le tecniche produttive, e così la produttività stagna. Questo dovrebbe aiutare a cogliere l’errore in cui cadono coloro che ripetono la litania confindustriale, secondo cui per aumentare i salari bisognerebbe prima aumentare la produttività. In realtà, la crisi di produttività del nostro paese non è la causa della crisi salariale ma ne è l’effetto.
Pensa che oggi la sinistra sia attrezzata per dotarsi di una visione di politica economica all’altezza delle sfide del presente?
In un certo senso, bisognerebbe prendere spunto dall’intuizione di Craxi per agire in direzione contraria alla sua. Craxi aveva compreso che stava iniziando un’epoca in cui la lotta di classe si sarebbe giocata sempre più senza mediazioni, cioè direttamente sull’azione di governo prima ancora che sulla contrattazione. Da allora, gran parte dei governi successivi ha agito in modo analogo, impegnandosi ad anticipare o addirittura a scavalcare il sindacato per mettere il potere delle istituzioni contro il lavoro, direttamente e in modo “disintermediato”, come si usa dire oggi. È avvenuto sui salari, sulle tutele del lavoro, sulla regolamentazione degli scioperi. Ebbene, io credo che una nuova forza di sinistra possa svilupparsi solo sulla consapevolezza che si debba agire in senso opposto a quello craxiano, diciamo così, che ha prevalso in questi anni. Ossia, si tratta di avviare una lunga e complessa opera di “reintermediazione” dei rapporti tra collettività e istituzioni politiche, per mettere il potere di governo non più contro il lavoro ma contro gli interessi privati del capitale, sempre più miopi e contrari all’interesse generale.
Quarant’anni fa, i lavoratori, o comunque la maggioranza di essi, votavano a sinistra. Oggi le hanno voltato le spalle. È cambiata la sinistra o i lavoratori?
Si dice che la classe lavoratrice sia diventata inquieta verso il futuro, ostile al progresso scientifico, nemica dei diritti di libertà e dei processi di emancipazione civile, e in questo senso distante dalla tipica linea di condotta di una sinistra “moderna”. In parte è vero, ed è vero che su questo regresso di massa le destre reazionarie raccolgono consensi. Ma, come direbbe Lukács, questa deriva reazionaria di una parte rilevante delle masse lavoratrici non è certo il frutto di una casualità avversa. Se le condizioni di lavoro si fanno ogni anno più stringenti, se la vita si fa più incerta e difficile, è ovvio che le masse lavoratrici perdono contatto materiale con i benefici del progresso. Così iniziano quasi inconsciamente a far coincidere il progresso con il lusso, cioè con qualcosa che non possono permettersi. E alla fine diventano diffidenti e ostili verso l’idea stessa del progresso, in tutte le sue declinazioni.
Come si inverte questa tendenza?
È evidente che bisogna rilanciare la lotta di classe dal lato del lavoro. Questo è l’unico modo per ricreare fiducia sulla possibilità di fare nuovamente del progresso tecnico, sociale e civile un fatto collettivo, di cui tutti possono beneficiare. Potremmo dire che mentre Craxi prese la parola “modernità” e la mise al servizio di un progetto di ristrutturazione capitalistica, oggi si tratta di rimettere quel concetto nelle mani della classe lavoratrice.
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