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18/02/2024

Neanche Draghi sa più come uscirne...

Se c’è qualcuno che può permettersi di dire l’indicibile, in campo euro-atlantico, è ancora Mario Draghi.

Impossibile accusare questo demolitore del patrimonio pubblico italiano, nonché per qualche anno vicepresidente di Goldman Sachs, poi governatore della Banca d’Italia, quindi della Banca Centrale Europea, infine presidente del Consiglio e ora “consulente” della Commissione Europea (il “governo” UE), di non avere a cuore e ben chiaro in testa quale sia l’interesse strategico del capitale multinazionale basato sulle due sponde del Nord Atlantico.

Solo lui, dunque, può osare dire che “la globalizzazione” – la fase della egemonia incontrastata dell’Occidente neoliberista e della gigantesca delocalizzazione produttiva nei paesi a basso costo del lavoro – ha rafforzato soprattutto i “nemici”, indebolendo “i valori liberali” (ormai solo “chiacchiere e distintivo”, per i governi nella Nato), costringendo sia i governi nazionali che le banche centrali a seguire regole diverse, impreviste, improvvisate.

Draghi parlava, ieri, alla Nabe economic policy conference, dove è stato insignito del «Paul Volker Lifetime Achievement Award», premio intitolato all’ex governatore della Federal Reserve statunitense.

Ma anche se la diagnosi della malattia occidentale è chiara, “la cura” è per ora un andare avanti a tentoni, improvvisando ancora, perché il ricettario neoliberista che per quasi 40 anni – da Reagan e Thatcher in poi – è stato brandito come una clava, non funziona più.

E così l’ultra-campione delle privatizzazioni si ritrova a raccomandare «politiche di bilancio chiare e credibili, che si concentrino sugli investimenti e preservino i valori sociali europei». Investimenti pubblici, non meglio specificati, ma certamente non “spesa sociale”. Debito buono, secondo la sua ormai celebre definizione, non “debito cattivo”, quello che aiuta le fasce povere della popolazione a sopravvivere.

Ma debito pubblico sia, e collettivo, di tutta Europa. Qui, «dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un ulteriore passo avanti finanziando una quota maggiore di investimenti in modo collettivo, a livello di Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, allentando così almeno in parte la pressione sui bilanci nazionali».

Eurobond, insomma, proprio quelli negati con orrore negli ultimi venti anni...

Un cambiamento di strategia per conservare i vecchi poteri, non per cambiare qualcosa. Draghi è pur sempre espressione del gattopardismo del potere economico, mica un “riformista”...

La politica di bilancio degli Stati nazionali, peraltro centralizzata da tempo nelle mani della Commissione Europea tramite una lunga serie di trattati (Fiscal Compact, Two Pack, Six Pack, ecc), «sarà chiamata a svolgere un ruolo più significativo, il che vuol dire, a quanto posso aspettarmi, deficit pubblici persistentemente più alti. La politica di bilancio sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici ed i governi dovranno affrontare le diseguaglianze in materia di ricchezza e reddito».

Del resto siamo ormai in una fase sistemica in cui in cui prevalgono e prevarranno gli shock di offerta, più che di domanda, come si è visto con la guerra in Ucraina, le sanzioni anti-russe, l’esplosione dei prezzi dell’energia (che entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci) e dunque con una “inflazione importata”.

In questo sistema «è probabile che la politica di bilancio si trovi a dover svolgere un maggior ruolo di stabilizzazione, che in precedenza avevamo attribuito principalmente alla politica monetaria». Il contrario di quello che è stato fatto per 30 anni, con le politiche di austerità imposte dai “virtuosi”, che così hanno alimentato il mercantilismo tedesco a scapito dei partner più deboli, ridotti a subfornitori.

Un cambio di ruolo complicato dalle «maggiori rivalità geopolitiche», che spingono i paesi euro-atlantici verso il friend shoring, e dunque verso una maggiore frammentazione del mercato mondiale, selezionando attentamente amici e nemici. Da escludere, questi ultimi, facendosi magari male da soli...

Il sogno draghiano è arrivare a un «policy mix adeguato: un costo del capitale sufficientemente basso, una regolamentazione finanziaria che supporti la riallocazione del capitale e l’innovazione», «politiche della concorrenza che facilitino gli aiuti di stato dove giustificati».

Saltano cento paletti fissati da decenni di politiche di austerità, in poche frasi e con l’autorevolezza di un boss che non ha bisogno di gridare. Anzi...

In Europa, «deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e al contempo, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Questo darebbe alle banche centrali maggiore fiducia nel fatto che la spesa pubblica oggi, aumentando la capacità di offerta, porterà a un’inflazione più bassa domani».

Ma l’incertezza regna sovrana, visto che urgono anche le esigenze di aumentare la spesa militare per far fronte alle “minacce”. E ogni spesa militare che aumenta – per definizione “improduttiva” – accorcia la tela che dovrebbe essere usata per investimenti che moltiplicano la capacità di generare Pil...

Dunque resta solo un “navigare a vista”, senza più le certezze dottrinarie degli ultimi decenni, ma anche senza nuove idee di una qualche efficacia.

Questa sì che è una crisi seria...

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