L’operazione militare a Gaza sta facendo pagare un prezzo anche economicamente molto alto per Israele. Un ampio servizio del Financial Times documenta il severo stato di crisi dell’economia israeliana dopo il 7 ottobre 2023.
Nell’ultimo trimestre del 2023 il Pil israeliano ha registrato infatti un calo di quasi il 20%. Rispetto al terzo trimestre, secondo i dati dell’ufficio di statistica, è diminuito invece del 5,2%.
Gli analisti internazionali hanno indicato come tale frenata del Pil con una discesa del 19,4% si è verificata in modo brusco e repentino quando 300 mila riservisti israeliani hanno dovuto lasciare il lavoro perché sono stati richiamati per combattere.
Il richiamo di 360.000 riservisti – la più grande mobilitazione di Israele dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 – sta esercitando una notevole pressione sulle finanze pubbliche israeliane. Il governo israeliano ha stimato che tali costi hanno raggiunto i 41 milioni di dollari al giorno nelle prime fasi dei combattimenti. Ridimensionando questo dato per riflettere la durata delle ostilità da allora, si stima che i costi aggiuntivi del personale potrebbero aver raggiunto circa 4,2 miliardi di dollari fino a gennaio.
In seguito all’attacco palestinese del 7 ottobre, Israele ha inoltre imposto severe restrizioni al movimento dei lavoratori palestinesi dalla Cisgiordania, assestando duro colpo per l’edilizia determinato dalla carenza di manodopera, un ulteriore freno alla crescita economica. Il dato è confermato dal fatto che gli investimenti fissi delle imprese di costruzioni sono crollati del 67,8%.
Le importazioni di beni e servizi israeliani sono diminuite del 42%, e le esportazioni calate del 18%.
Stando alle stime ufficiali, il 2023 si era chiuso positivamente per l’economia di Tel Aviv con un aumento del Pil del 2% rispetto all’anno precedente, dove però la crescita era stata consistente, nell’ordine del 6,5%. Ma adesso il Pil è calato e la spesa pubblica ha registrato un’impennata, crescendo dell’88% nei tre mesi successivi al 7 ottobre, trainata soprattutto dalla spesa militare.
Secondo l’Istituto Internazionale di Studi Strategici, Israele deve anche affrontare costi significativi a causa dell’alto livello di spesa per le armi dell’IDF. L’IISS stima che, prima del conflitto, Israele abbia stanziato un terzo del suo bilancio per la difesa all’acquisizione di attrezzature e alla ricerca e sviluppo. Israele ha ricevuto altri 3,3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti attraverso stanziamenti di finanziamenti militari stranieri.
“Sebbene sia prematuro stimare i costi materiali dell’attuale operazione militare, è probabile che i futuri bilanci israeliani aumenteranno la spesa per l’approvvigionamento per ricostituire le scorte di munizioni utilizzate ed espanderle. Una probabile priorità sono gli intercettori Tamir, utilizzati nel sistema di difesa missilistica Iron Dome del paese. Israele ne ha usati centinaia per difendersi dagli attacchi missilistici. Tuttavia, con un costo stimato di 40-50.000 dollari per intercettore (in base ai dati del 2013), il rifornimento e l’espansione delle scorte rimangono un impegno considerevole”.
L’agenzia di rating Moody’s ha abbassato il rating sovrano di Israele da A1 ad A2 a causa delle preoccupazioni sulla guerra a Gaza, in particolare sulla durata del conflitto e sul suo impatto più ampio sull’economia del Paese.
Anche le prospettive economiche israeliane non sono incoraggianti. Secondo la Banca di Israele, il conflitto costerà al paese circa 255 miliardi di shekel (70,3 miliardi di dollari) entro la fine del 2025, pari a circa il 13% del Pil.
Già a novembre, la banca centrale israeliana aveva tagliato le stime dal 3 al 2%, e a gennaio l’inflazione su base annua è rallentata al 2,6% (ai minimi da due anni), dal 3% di dicembre, un possibile segnale di indebolimento dell’attività economica.
Se il governo israeliano continua ad annunciare di voler proseguire le operazioni militari e il genocidio dei palestinesi a Gaza, presto anche i dati economici – oltre che l’isolamento internazionale – potrebbero costringerlo a rivedere i propri piani. Il fattore tempo non gioca a favore di Netanyahu.
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