di Vincenzo Morvillo
In occasione della candidatura agli Oscar come miglior film straniero di “Io Capitano” – osannata pellicola di Matteo Garrone – ne vidi, un paio di settimane or sono, la messa in onda programmata da Sky.
Drammatiche vicissitudini familiari mi hanno impedito di scriverne al momento. Lo faccio ora, salmodiando qualche non certo bonaria riflessione critica.
In questi mesi, come di consueto, ho letto e ascoltato tanti commenti e articoli da cui si evidenziava chiaramente come il lungometraggio di Garrone avesse spaccato pubblico e critica.
Divisi tra chi ne celebrava la cifra poetica e la capitale importanza umana e politica; e chi viceversa lo definiva un film che poco raccontava dell’effettiva tragedia dell’immigrazione clandestina. Scialbo e in definitiva poco incisivo, seppur ben fatto.
Mai però avrei immaginato di trovarmi al cospetto di uno dei prodotti della più ambigua cinematografia italica.
Frutto della cultura democristiana e morotea che tormenta questo paese. Sì, “morotea”, avete letto bene! Un film insomma con le stimmate dell’atavico e pasticciato centro-sinistra. Nel segno del consociativismo e dell’Unità Nazionale.
Che non scontenta nessuno e piace anche a destra. Anzi, soprattutto a destra. Un film che non denuncia e non fa male.
Che di Capitale ha solo il Mercato e sembra commissionato, per come tratta il tema dell’immigrazione, da Sangiuliano, Salvini e l’Academy hollywoodiana.
Perché, parliamoci chiaro, la domanda che ti assilla sin dall’inizio è una sola. In Senegal Seydou e Moussa – i due giovani protagonisti – “stavano bene”. Si divertivano, suonavano un folkloristico tam tam etnico e andavano regolarmente a scuola.
Lavoravano come muratori non per necessità, ma per avere a disposizione qualche soldo per i desideri adolescenziali; e guadagnavano bene al punto da mettere via il gruzzolo per il viaggio in Europa. Insomma, salari giornalieri che in Italia te li sogni.
Ballavano come oleograficamente si richiede ai “negri” e soprattutto ai senegalesi. La mamma di Seydou possedeva una toelette per truccarsi e struccarsi che neanche il camerino della Bellucci.
Moussa e Seydou vestivano bene, quasi griffato, e tenevano pure il fisico palestrato. E allora la domanda sorge inevitabile: ma che cazzo vengono a fare in Italia?
Premesso che, non essendo stupidi, conoscono i rischi del viaggio, perché non restano “a casa loro”? Dove, appunto, noi europei potremmo gentilmente e felicemente “aiutarli”.
Non c’è guerra. Non c’è fame. Non c’è carestia, nel Senegal di Garrone. Non c’è una dittatura o un governo che perseguita i ragazzi. Niente. Vogliono diventare rapper e firmare autografi ai bianchi.
Enorme impulso di “lotta di classe”!
Insomma, un film che costituisce – dal mio opinabilissimo punto di vista, s’intende – un surrettizio insulto all’intelligenza e all’umanità.
Ma soprattutto all’Africa e alla tragedia della migrazione. Nonché una strumentale e furbesca dissimulazione, con finalità quanto meno discutibili – vedi appunto la candidatura agli Oscar – delle reali condizioni socio-politiche che dilaniano il cosiddetto continente nero.
Un insulto dunque ai concetti stessi di pietà e indignazione sapientemente e astutamente artefatti dietro immagini patinate.
Un film la cui visione dovrebbe rendere furiosi, altro che applausi.
Non si può trattare infatti un argomento tanto delicato e drammatico pensando di girare uno spot di TripAdvisor o Alpitour.
Si prenda ad esempio quella che dovrebbe essere la pericolosissima e massacrante traversata del deserto.
Il nostro Garrone la gira con un glamour estetizzante che utilizza colori sgargianti da cartolina. Uno spot, appunto.
Arricchito vieppiù dall’immagine onirica, in salsa felliniana (il riferimento è all’incipit di 8 1/2) o addirittura chagalliana, di una donna morta di stenti che si libbra in volo. Una cifra onirico-fiabesca che si ripeterà altre volte nel corso del film.
Nondimeno è proprio la fiaba il codice narrativo e linguistico che determina l’ambiguità di questa pellicola.
Su un tema tanto drammatico, eticamente e politicamente, si ha il dovere, soprattutto se si pretende di fare l’intellettuale in un paese reazionario, xenofobo e razzista come l’Italia – un paese sulle cui coste annegano migliaia di disperati – di non essere elusivi.
La narrazione di vicende che provocano la morte di migliaia di persone; la denuncia di torture, lager, disperazione, crimini imperialisti, non può essere ammorbidita da una vaghezza poetico-fiabesca.
Questa cifra “magica” ed estetizzante non può e non deve, nel nome della libertà espressiva, alterare una realtà che si ha l’obbligo, nel segno della verità e dell’etica nell’arte, di raccontare denunciandone gli aspetti più disumani e crudeli.
Durante le due ore di Io Capitano, invece, la tortura non tormenta, la morte non atterrisce e non provoca rabbia, le prigioni non hanno il sapore indecente della vergogna e della claustrofobia, i trafficanti sono figure caravaggesche e il viaggio avviene sicuro sulle acque di un Mediterraneo petrarchesco. Chiaro e mansueto.
L’apice dell’ipocrisia nella costruzione del film, Garrone lo tocca tuttavia occultando opportunamente il livello politico delle responsabilità nella gestione dell’immigrazione clandestina.
Sono note ed evidenti le colpe della Comunità Europea e dell’Italia nella scellerata e criminale governance del fenomeno migratorio.
Dalle guerre neo colonialiste in terra d’Africa al finanziamento di governi quanto meno equivoci; dalla collusione con i trafficanti fino alla creazione dei Cie e dei Cpr, veri e propri campi di concentramento di cui nella pellicola non c’è traccia.
Anche questo rientra nella cifra stilistica del garroniano“realismo magico”, evidentemente...
A prescindere dal film però, l’aspetto che più mi lascia sgomento è l‘atavica acquiescenza di un pubblico incolto e ormai avvezzo ad un cinema, ad un teatro, ad un’arte e ad una cultura in genere... rassicuranti. Incapaci di incidere la carne viva e la coscienza dello spettatore e del fruitore.
Un pubblico in visibilio per una pellicola che banalizza, traslando il dramma e la tragedia sul più rassicurante piano formale.
Io Capitano è lo specchio di un’Italia degradata e degenerata dalla cosciente responsabilità del pensiero critico al lassismo della post-verità postmoderna, identificabile come esperienza puramente estetica.
Una perversione borghese in cui l’odore della merda che emanano tragedie come guerra, immigrazione, povertà, classismo, oppressione, tirannia, colonialismo, necessita sempre di evaporare in dosi massicce di “acqua di colonia”. Mi si passi l’allusivo gioco di parole.
Basterebbe vedere lungometraggi di registi africani come La Pirogue di Moussa Traoré, Atlantics e Atlantique di Mati Diop, o il più vecchio Soleil Ô – strepitosa pellicola sull’immigrazione in Francia del 1967– diretta da Med Hondo, per avvertire la profonda e sostanziale differenza tra lo sguardo di un ricco europeo che vuole ottenere il plauso dell’elite politico-intellettuale e quello di un africano che vive quotidianamente, sulla propria pelle, le tragedie della contemporanea società capitalista e neo-imperialista.
D’altra parte, accanto alle irritanti immagini di un Senegal folkloristico e di un deserto girato con i canoni del videoclip, Garrone ci mostra una Libia in guisa di presepe – all’inquadratura glamour sembrerebbero mancare solo la grotta, il bue e l’asinello – dove Seydou può lavorare tranquillamente come muratore, addirittura indossando un caschetto giallo “a norma”. Praticamente un paese ben più attrezzato dell’Italia e di molte altre nazioni europee in materia di sicurezza sul lavoro.
E ancora una volta, quindi, la domanda sgorga veemente: “perché mai ‘sti ragazzi vogliono venire a morire in Italia?”
Insomma, la fascinazione esercitata da Io Capitano è il sintomo di una degradazione dell’intelletto e del gusto che attanaglia ormai anche il pubblico che si presupporrebbe più colto, politicamente strutturato e in possesso di una coscienza politica e di classe.
Un pubblico che ha mollato da tempo gli ormeggi, lasciandosi andare alla deriva della sterile formalizzazione neoliberale, svuotata di contenuti e verità.
Non un sussulto. Non una traccia di quel sublime turbinìo che – parafrasando Burke, Turner o Constable – dovrebbe assalire lo spettatore di fronte a tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo. Ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore.
Un film girato per non turbare troppo gli animi della borghesia. Per suscitare una clericale compassione. Una contenuta commozione (le facce dei ragazzi sono strepitose in tal senso). Ma non indignazione. Non rabbia. Non orrore.
Per riprendere – riportandoli al presente e alle sue logiche – i termini del discorso sull’arte proposti da Walter Benjamin, Io Capitano risente, nell’odierna società della massificazione culturale e dell’annichilimento di un qualunque pensiero antagonista, di quelle tradizionali e reazionarie caratteristiche che si pretende debbano elevare l’opera d’arte, facendone un prodotto per eletti. Da ammirare, più che da comprendere, o meglio, vivere.
Autocompiacimento estetico, genio, autorialità sono le armi affilate di una cultura manipolata dal totalitarismo neo liberale.
Recidendo l’arte dal suo legame con la vita quotidiana e con le condizioni concrete dell’esistenza, il totalitarismo neoliberista utilizza l’esperienza artistica come strumento di controllo delle masse attraverso un'“estetizzazione della politica”.
L’esperienza estetica viene strumentalizzata come forma di comunicazione non razionale ma carismatica per coinvolgere e massificare la folla.
Laddove – come scriveva Benjamin – bisognerebbe proporre invece una serie di concetti e codici estetici e linguistici nuovi, inutilizzabili dal Potere e funzionali alla liberazione e all’emancipazione “rivoluzionaria” delle masse e del pubblico.
In luogo dell’aura reazionaria, lo shock rivoluzionario. Garrone viceversa predilige l’aura estetizzante del capitalismo a stelle e strisce.
E tra il giubilo della plaudente borghesia italiana, vola ad Hollywood per la notte degli Oscar.
A noi resta comunque lo shock della realtà migrante. Quella che la cinematografia africana ci racconta con la crudele poesia del cinema quando sa farsi arte del racconto. E che soprattutto non ha bisogno del ricco mercato occidentale.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento