Da 100 milioni di dollari nel 2008 a un picco di ben oltre 500 milioni nel 2020: è il valore dei contratti stipulati dal Pentagono e da altre agenzie di sicurezza Usa con le principali compagnie tech – Amazon, Microsoft, Google e Meta.
Uno studio di Dario Guarascio della Sapienza di Roma, Andrea Coveri dell’Università di Urbino e Claudio Cozza dell’Università di Napoli Parthenope analizza come queste piattaforme «hanno assunto il ruolo di partner indispensabile nelle attività militari e legate alla sicurezza». Ne abbiamo parlato con Dario Guarascio.
La vostra ricerca evidenzia come negli anni siano cresciuti esponenzialmente gli investimenti delle agenzie militari e di sicurezza nelle grandi compagnie digitali. Cosa comporta?
Il primo driver del potere delle grandi piattaforme digitali è il controllo di infrastrutture e tecnologie critiche nell’ambito dell’archiviazione dei dati. Un ambito molto rilevante per spiegare perché sono così potenti, da dove vengono e perché è così difficile mettere in discussione il loro potere.
Il motivo del rapporto peculiare che hanno con gli stati e in particolare con le agenzie militari è semplice: in primo luogo le piattaforme stesse sono il risultato di investimenti e attività di ricerca e sviluppo degli apparati militari. Senza questi ultimi non esisterebbero le conoscenze e le tecnologie di base su cui si è sviluppato internet, e che sono poi state trasferite a una manciata di imprese: le Big Tech odierne.
In secondo luogo le infrastrutture, le tecnologie – pensiamo al cloud, all’IA, al quantum computing – sono in buona misura controllate dalle grandi piattaforme che possiedono i brevetti. In questi ambiti le competenze sono complementari alle tecnologie, sono firm specific – proprie di una determinata compagnia – quindi diventano molto difficili da trasferire e da interpretare al di fuori dell’impresa.
Che così ha una leva molto forte da esercitare anche nei confronti dello Stato. Questo è particolarmente vero perché oggi le guerre sono in buona misura digitali: se si vuole colpire a distanza, sventare un cyber attacco o perpetrarne uno difficilmente si può fare a meno dell’alleanza con le grandi piattaforme.
Lo evidenzia la crescita esponenziale del numero di contratti e l’ammontare delle risorse che negli ultimi 15 anni gli sono state destinate. E il numero di progetti che delegano loro la gestione di servizi critici come il cloud per la Difesa.
Ci sono inoltre le cosiddette revolving doors: molti membri dei consigli di amministrazione delle Big Tech – non ultimo l’ex amministratore delegato di Alphabet (Google) – transitano nelle agenzie pubbliche della Difesa, della sicurezza o dell’intelligence che si occupano di sviluppare tecnologie a scopi militari.
È notizia recente che un generale americano, direttore della Nsa per più di dieci anni, ora è nel board di Amazon. Azienda che con i suoi servizi cloud è tra gli oligopolisti che dominano questo settore nevralgico.
Fate l’esempio di Elon Musk e dell’impiego di Starlink nella guerra in Ucraina, che aggiunge un elemento di problematicità: entra in campo la discrezionalità di un singolo privato, come ha dimostrato la sua decisione di spegnere i satelliti quando avrebbero potuto facilitare un attacco in Crimea.
Il protagonismo dei grandi imprenditori digitali come Musk sembra essere in qualche modo una riedizione nei tempi contemporanei di contraddizioni antiche del capitalismo e di una crasi inquietante tra capitale monopolistico e potere pubblico nelle sue forme più violente.
Il fatto che un soggetto come Musk operi in modo spericolato, cercando di portare pezzi dell’establishment americano a suo vantaggio, ma sfruttando anche i legami autonomi che ha con soggetti pubblici di paesi relativamente in conflitto con gli Stati Uniti ne è una manifestazione: è un soggetto che gioca un ruolo quasi monopolistico.
Quella dei mini satelliti è un’industria parallela e ancillare a quella digitale, dove Musk è presente con uno dei pezzi fondamentali dell’ecosistema dei social network, X. Inoltre ha modificato radicalmente il settore dell’aerospazio e anche il rapporto tra pubblico e privato in quel settore.
Come mai la voce di spesa principale delle agenzie militari e di sicurezza è il cloud?
Perché cloud significa dati. Tutti i servizi tecnologicamente più avanzati si basano sui dati, prima fra tutti l’intelligenza artificiale.
In ambito civile, chi domina la frontiera del cloud è avvantaggiato nella predizione dei consumi, dell’incontro tra domanda e offerta, nella gestione di attività in ambito commerciale che da un lato allargano il mercato e dall’altro consolidano il potere dei soggetti che controllano queste tecnologie.
In ambito militare significa una maggiore efficacia dei sistemi di sorveglianza, riconoscimento facciale, combinazioni di fonti diverse – immagini, suoni, testo – a scopi securitari.
All’esterno, pensiamo agli Stati Uniti, significa invece avere “occhi e orecchie” sia nei paesi “rivali” che in quelli interni alla loro sfera di influenza. Primi fra tutti i paesi europei dove molti sono stati gli scandali e le cause derivanti dal fatto che le grandi piattaforme americane sono dei collettori di dati e dei terminali, attraverso cui le informazioni possono essere trasferite anche agli apparati di intelligence e sicurezza.
Nei paesi con cui invece la relazione è conflittuale le tecnologie di cui dispongono le piattaforme e soprattutto i sistemi di cloud diventano la rete da pesca attraverso cui ottenere informazioni rilevanti in un’ottica di intelligence.
Infine l’ecosistema innovativo del cloud, poiché il processo di crescita in questo contesto si caratterizza per cumulativi – chi controlla il potere è destinato a consolidarlo – fa sì che molto difficilmente le grandi piattaforme possano essere messe in discussione da startup con una qualche soluzione tecnologica innovativa.
Nel 90% dei casi vengono fagocitate dalle Big Tech. Quindi, da questo punto di vista lo Stato è costretto a trasferire risorse a chi monopolizza queste tecnologie
E questa interdipendenza fa sì, come scrivete, che il governo americano non abbia alcun interesse a limitare le strategie espansionistiche delle Big Tech.
Sono oramai 15 anni che da più parti si denunciano i rischi e le implicazioni negative di una concentrazione di potere tecnologico ed economico come quello rappresentato dalle Big Tech. Ma se i soggetti protagonisti di questa concentrazione di potere diventano partner essenziali e irrinunciabili dello Stato, per il perseguimento di obiettivi vitali come quelli relativi alla difesa e alla sicurezza, risulta difficile immaginare che si possa mettere in discussione questo potere.
Ormai una decina di anni fa la senatrice Usa Elizabeth Warren aveva provato a dire che bisognava spezzare a metà, o in tre, queste società, come successe con l’oligopolio delle telecomunicazioni o all’inizio del Novecento, quando è nata la disciplina antitrust con lo Sherman Act.
Il problema in più da questo punto di vista è che c’è una trasversalità settoriale molto più pervasiva rispetto alle vecchie multinazionali. Inoltre, le tecnologie digitali non sono sviluppate in un contesto neutrale, dove si scandagliano tutti gli esiti possibili e l’obiettivo è il benessere generale.
Chi ha le risorse e le investe per la ricerca e lo sviluppo di queste tecnologie sono di fatto due attori: un blocco oligopolistico che mira a preservare lo status quo e la sua controparte militare.
Come si inserisce questo discorso nello scontro fra Stati Uniti e Cina?
Qualche anno fa, quando Huawei era sul punto di ottenere delle commesse rilevanti per l’infrastrutturazione digitale in Europa, c’è stato uno scontro diplomatico ai massimi livelli. E l’accordo è stato impedito: una manifestazione plastica di questo conflitto.
Un’altra sono le norme statunitensi che vietano alle imprese americane ed europee di esportare in Cina le componenti necessarie per realizzare i semiconduttori di ultima generazione necessari per far funzionare le tecnologie di intelligenza artificiale – quindi contravvenendo alla logica della globalizzazione, del libero mercato, che viene contraddetta ogni qual volta le necessità capitalistiche sono di ordine diverso.
Poco tempo fa The Intercept ha scritto che OpenAI ha rimosso dalla sua policy ogni riferimento al divieto di impiegare le sue tecnologie per scopi militari.
Mi sembra una sorta di segreto di Pulcinella: OpenAI di fatto è Microsoft. E Microsoft, più di Amazon, è il principale fornitore e partner del ministero della Difesa Usa in fatto di tecnologie digitali. I carri armati forniti dagli Stati Uniti che operano oggi in Ucraina e i visori dei militari sono forniti da Microsoft e dotati di tecnologie avveniristiche.
OpenAi viene da lì e quindi non deve stupirci il fatto che questa sia la direzione che sta seguendo. Deve forse però farci riflettere sulla necessità di avere una prospettiva autonoma, consapevole e sufficientemente informata, su cosa sono queste tecnologie, come si stanno sviluppando e dove potrebbero dirigersi.
Lo dico perché negli ultimi mesi abbiamo sentito dichiarazioni sulla necessità di preservare il genere umano dai rischi dell’intelligenza artificiale da parte di coloro che hanno portato questo settore a svilupparsi nel modo che vediamo, e le scelte che stanno facendo dimostrano che è in corso un processo per garantire e consolidare il potere di cui godono i soggetti principali che vi operano, tra cui Microsoft.
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