Come scrive nell’estate 1942 un soldato italiano in Slovenia, «Abbiamo distrutto tutto da cima fondo, senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano solo di muoversi, tiriamo senza pietà e chi muore muore».
Tutto questo è pazzesco, ma in Italia un criminale in divisa come Roatta verrà prosciolto nel 1948. La fuga in Spagna e l’assoluzione finale sono il prezzo del suo silenzio sulle gravi responsabilità del “maresciallo d’Italia” Pietro Badoglio e dei vertici militari, fuggiti da Roma subito dopo l’annuncio della fine delle ostilità con gli Alleati, abbandonando l’Esercito allo sbando senza ordini e senza una guida.
Loro sì responsabili – ben più di Roatta – della catastrofe finale nonché della mancata difesa della capitale dall’occupazione tedesca il 10 settembre 1943.
Nel dopoguerra, in quell’Europa divisa in due, in Italia si enfatizzeranno, decontestualizzandole, la diaspora dalmata-istriana e le foibe, mentre si minimizzeranno, sino alla rimozione, le violenze compiute dall’Esercito italiano nei confronti della popolazione civile slovena, dalmata, montenegrina, croata, greca, russa e albanese, in aggiunta alle violenze già a referto in Libia (100mila vittime su 800mila abitanti: un genocidio) e in Etiopia (nel Corno d’Africa tra il 1935 e il 1943 si contano 300mila vittime).
Calerà il silenzio anche sui bombardamenti di natura terroristica compiuti dalla Regia aeronautica italiana sulla città basca di Durango il 31 marzo 1937 (morti 289 civili) e su Barcellona in Catalogna tra il 16 e il 18 marzo 1938 (670 morti) durante la Guerra civile spagnola.
Sono atti criminali non inferiori a quello tedesco e italiano del 26 aprile 1937 su Guernica (quattro settimane dopo la strage di Durango), a torto ritenuto il primo atto di terrore dal cielo deliberatamente compiuto contro la popolazione civile.
Insomma, brandendo il paradigma dell’“italiano buono”, benevolmente assunto dall’opinione pubblica, sui nostri crimini cala l’oblio e l’Italia si auto assolve, cancellando dal senso comune (e dai testi scolastici) la memoria dei nostri omicidi e ogni traccia dei nostri campi di morte.
Le inclinazioni omicide di costoro non si placano se di fronte ai loro fucili manifestano italiani. Basti ricordare che nel febbraio 1943 Roatta è a Roma per assumere la carica di capo di stato maggiore dell’Esercito.
In una sua circolare del 26 luglio (poche ore dopo la seduta del Gran consiglio del fascismo che ha deposto Mussolini) il generale dispone alcune misure per l’ordine pubblico, come la facoltà di sparare sui manifestanti:
«Qualunque pietà nella repressione è un delitto», ammonisce il capo dell’Esercito, e prosegue ricordando che «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito. Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine. Non è ammesso il tiro in aria. Si tira sempre a colpire, come in combattimento».
Insomma, si inneggia all’omicidio dei manifestanti. E questa volta siamo in Italia.
Un tale proponimento non può che trovare il favore del neo-comandante dei Carabinieri Taddeo Orlando (dal 20 giugno 1944 Orlando è il capo dei Carabinieri e sino a un mese prima ha ricoperto la carica di ministro della Guerra nel governo militare presieduto da Badoglio) e ovviamente provocare tanti morti.
Il 28 luglio 1943 a Reggio Emilia l’Esercito prende a fucilate i lavoratori delle “Reggiane” usciti dalla fabbrica, uccidendone 9; lo stesso giorno a Bari i morti sono addirittura 23 e 70 i feriti; altro massacro il 19 ottobre 1944 a Palermo, con le forze dell’ordine a sparare su un corteo di persone che manifestano chiedendo pane e lavoro, provocando 29 morti e 155 feriti (ne ammazzano più loro della banda di Giuliano a Portella della Ginestra). Complessivamente, la scellerata disposizione di Roatta provocherà 80 morti e 300 feriti.
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