Il Piano Mattei è una svolta per l’Africa? A sentire gli economisti africani, non pare proprio. “Miei colleghi che lavorano ai piani alti dell’Unione Africana non ne sapevano nulla”, dice al Fatto Fadhel Kaboub, economista tunisino con base a Nairobi e consigliere senior di Power Shift Africa: “Questo Piano non è pensato per una collaborazione su un piano di parità”.
Come mai i leader africani sono accorsi in massa al vertice Italia-Africa?
In Africa se lo chiedono tutti. Credo sia un segno di quanto sono vulnerabili e disperati i Paesi africani. I leader sono sotto pressione: devono mantenere tante promesse, ma la politica fiscale è vincolata dal debito estero e dalle condizioni del Fondo monetario internazionale.
Perciò, vanno dietro a chiunque offra anche le minime briciole di soccorso finanziario, nonostante sappiano che non riceveranno interventi trasformativi e anzi rischiano di subire politiche estrattive. Molti si sentono frustrati, ma non hanno alternative.
Meloni ha detto che il Piano Mattei non sarà né “predatorio” né “caritatevole”. Lei cosa ne pensa?
È solo linguaggio diplomatico, maquillage per le pubbliche relazioni. Il Piano Mattei, ovviamente, è un piano europeo per l’Africa. Che non è stata consultata.
Nei fatti è l’Europa che detta i termini della collaborazione, basandola su due punti: garantire la propria sicurezza energetica e affrontare le cause profonde dell’immigrazione di massa. Va dato atto che l’Europa sta provando ad andare alle cause. Ma non a condizioni favorevoli all’Africa, trasformative, che ne sviluppino le possibilità di diventare una potenza economica.
Ha scritto che “il piano Mattei è stato recentemente testato con la Tunisia e ora viene esteso all’intero continente”.
Qualche mese fa Meloni, prima da sola poi con una delegazione europea, si è recata in Tunisia con una proposta per il governo: controllo dei confini; rafforzamento delle relazioni commerciali con l’Ue (che implicherà la delocalizzazione di produzioni obsolete alla manodopera tunisina a basso costo, tenendoci in fondo alle catene del valore); un programma Erasmus esteso (che aggraverà la fuga di cervelli dalla Tunisia); investimenti in rinnovabili (per poi esportare l’energia in Europa).
Lo schema del Piano Mattei è simile, ma esteso all’intero continente e chiamato col nome del fondatore di Eni. Non un bel segnale, dato che la crisi climatica alimenta, con l’austerità, l’emigrazione di massa. Sotto le belle etichette si intravede un approccio estrattivo, come in passato.
La visione delineata al vertice di Roma tiene conto dell’enorme debito estero dell’Africa?
Per nulla. Non si fa cenno alla sua riduzione o cancellazione. Non si affrontano le cause del debito, il che consentirebbe ai nostri governi di fornire servizi sociali, lavoro e opportunità ai nostri cittadini, così che non debbano attraversare centinaia di chilometri e rischiare la vita nel Mediterraneo.
Quali sono le radici del debito?
L’Africa ha un deficit alimentare: importa l’85% del cibo, mentre un tempo era il granaio d’Europa. Non è così per caso, ma per scelta. Tutto è iniziato con la Politica agricola europea nel 1962 e misure analoghe dei grandi produttori: Usa, Canada, Giappone, Australia, Urss.
In Europa si accorsero di avere un problema di sicurezza alimentare, dato che dipendevano dall’Africa, e perciò introdussero sussidi sulle colture principali (grano, orzo e mais). Ciò costrinse gli agricoltori africani a passare a colture da reddito per le esportazioni (frutta, verdure, caffè, tè, fiori), spesso danneggiando la fertilità del suolo.
Queste strutture coloniali persistono ancora oggi, rafforzate dalle regole commerciali post-coloniali. Che il Piano Mattei non mette in discussione.
C’è qualche tentativo per facilitare la politica fiscale dei governi africani?
Non c’è una discussione specifica. Lo stesso vale per l’industria. Quando si parla di investimenti diretti esteri in Africa, in realtà si parla di tecnologie obsolete e di produzioni a cui serve solo manodopera a basso costo per l’assemblaggio. All’apparenza si creano posti di lavoro, in realtà si bloccano i Paesi africani in fondo alle catene del valore.
Dato che bisogna importare i macchinari, il carburante, i componenti intermedi e persino l’imballaggio, e poi si usa manodopera a basso costo, si esporta un prodotto a basso valore aggiunto. Si può quadruplicare il commercio, ma si rimane sempre bloccati in fondo, contribuendo alla trappola del debito.
Secondo lei i leader africani siano andati a Roma alla disperata ricerca di denaro. Ma questo va bene ai cittadini africani?
Per nulla. La lettera inviata alle istituzioni italiane da circa 80 organizzazioni della società civile africana ha fatto molto discutere. Non si sapeva di questo vertice Italia-Africa, né del Piano Mattei. Nei media africani non se ne parlava. E sembra che nemmeno i nostri leader ne avessero idea. Anche Moussa Faki, presidente dell ’Unione Africana, lo ha detto al vertice: “Avremmo voluto essere consultati”.
Definiresti il Piano Mattei un esperimento neo-coloniale?
Direi di sì. Anche perché è stato progettato senza alcuna consultazione con l’Unione Africana, né tiene conto di Agenda 2063, la visione strategica elaborata dall’Unione africana. Se il Piano Mattei fosse stato veramente concepito come un partenariato, avrebbe individuato i punti dell’Agenda 2063 su cui collaborare da pari.
Ma chiaramente non era questa l’intenzione. Per me, quindi, il Piano Mattei è un piano neo-coloniale, agghindato con un bel linguaggio diplomatico.
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