Le Bikini Kill sono una band difficile da definire “solo” attraverso la produzione fonografica. Per il quartetto di Olympia, il disco era solo parte di una costellazione di produzioni artistiche e culturali al cui centro si collocavano la performance, le fanzine e le azioni politiche che lavoravano alla creazione di un network in cui le donne potessero condividere le proprie autobiografie e acquisire, insieme, gli strumenti per esprimere le loro storie e la loro idea di “girlhood” (“herstory” è un’espressione che userà Hanna).
“Pussy Whipped” si inserisce a metà carriera delle Bikini Kill e fotografa in maniera più completa quella miscela di punk, garage, pride & angst, girlhood & fun, che ha coperto l’arco della loro parabola, durata sostanzialmente sei anni (1990-1996), che vede la band riunita per nuovi tour da prima della pandemia da Covid19 fino a oggi. L’artwork dell’artista e attivista Tammy Rea Carland, alla quale è dedicato l’ultimo brano, definisce il medium del disco come uno strumento per rendere visibile e fattiva una intera scena, quella del movimento riot grrrl di Olympia di cui facevano parte anche Bratmobile, Heavens To Betsy ed Excuse 17. Situata a nord del Pacific Northwest, non molto distante da Seattle e Portland, la capitale dello stato di Washington venne animata dalle attività della community radio KAOS FM, dove era dj Calvin Johnson (Beat Happening), collocata all’interno del college of liberal arts Evergreen State in cui studiavano Kathleen Hanna, Kathi Wilcox, Tobi Vail, Tammy Rea, Corin Tucker e Carrie Bronwstein (Sleater-Kinney). La scena musicale era soprattutto sostenuta dalle autoproduzioni delle due etichette locali, la K Records e la Kill Rock Stars, quest’ultima scelta dalla Bikini Kill.
Prima di parlare di “Pussy Whipped” è importante passare in rassegna alcuni aspetti fondamentali che vanno a descrivere quello che è il milieu in cui si muove il quartetto, cioè l’idea di un personale posizionamento politico e culturale nel quadro degli Stati Uniti di fine anni 80 e inizio anni 90. Per le Bikini Kill significava evidenziare dei temi al centro del dibattito pubblico e operare come artiste-attiviste attraverso una band all’interno della storia del femminismo nordamericano, ispirandosi a musiciste come Poly Styrene delle X-Ray Spex e Kim Gordon dei Sonic Youth, così come ad artiste concettuali e appropriazioniste quali Jenny Holzer e Barbara Kruger.
Al college Hanna si era concentrata soprattutto sulla fotografia e sul collage, realizzando performance di spoken-word poetry e fashion show interamente autoprodotti, in cui si stavano delineando i temi e i processi artistici che avrebbe attivato anche con la band: il racconto in prima persona non necessariamente autobiografico e l’adozione di un “io” e di un “tu” collettivi, che richiamavano un’interazione e un’azione diretta; la pratica dell’appropriazione come strumento critico di messa in discussione dell’immaginario femminile promosso dai mass media; non ultima, l’idea di appropriarsi dei media stessi e adoperarli per scrivere la propria narrazione e condividerla, fossero strumenti musicali o la fotocopiatrice per la creazione di fanzine. Insieme a Tammy Rae, fondò a Olympia la galleria d’arte Reko Muse, con la quale realizzò ed espose i primi lavori d’arte femminista.
Hanna e le compagne dell’Evergreen portarono avanti in maniera rinnovata le istanze del femminismo, in quella che, grazie alla loro attività artistica e culturale, venne definita The Third Wave of Feminism. Dove la “prima ondata” a metà 1800 aveva previsto la lotta per l’abolizione della schiavitù e l’acquisizione del diritto di voto per le donne, la “seconda ondata” negli anni 60 del 1900 combatteva per il riconoscimento dei diritti civili e per la parità di genere, la “terza ondata” si concentrava su un attivismo diffuso e sulla costruzione di una comunità trans-locale e solidale di donne di diverso orientamento sessuale, che facesse emergere i meccanismi di potere stabiliti nella relazione uomo-donna, anche attraverso l’espressione del trauma, e mettesse in discussione l’oggettivazione del corpo femminile nella società, ribaltando anche dispositivi discorsivi dei mass media come il “male gaze”, quindi l’idea di uno “sguardo maschile” che costruisce l’immagine del femminile teorizzata da Laura Mulvey già nella seconda ondata. Oltre questo, il movimento riot grrrl, di cui la musica delle Bikini Kill e l’album “Pussy Whipped” erano paradigmatici, cercavano di riconquistare un’idea di girlhood in cui, come ci si riappropriava delle sale dei concerti per ristabilire un altro luogo “sicuro” per le donne fuori dal mosh pit (“Girls to the front... Boys back”), si rivendicavano anche la moda, il trucco e altri aspetti della femminilità che erano stati mercificati a uso e consumo del desiderio maschile (“Revolution Girl Style Now!”).
La consapevolezza di poter arrivare direttamente a più persone con la musica fece decidere a Hanna, Wilcox e Vail di formare una band come musiciste autodidatte, alla quale si unì il chitarrista Bill Karren. Allo stesso tempo, come attività artistica e comunitaria, vennero autoprodotte una serie di fanzine come Riot grrrl e Girl Power, in quanto medium DIY di autonarrazione che chiunque aveva la possibilità di realizzare, una pratica che veniva condivisa in incontri realizzati dalla comunità. Si instaurò un rapporto speciale tra Olympia e Washington Dc, le due scene più fieramente underground nel contesto indie degli anni 90, in un tempo in cui radio, televisione, riviste e negozi di dischi erano polarizzati dalle band alternative rock e grunge, ormai mainstream, di Seattle. L’unica vera eccezione era rappresentata dai Nirvana, che avevano formato la propria sensibilità a Olympia, dove Cobain era vicino alle Bikini Kill e parte della comunità feminist punk. Questa relazione tra le due città su coste opposte venne documentata anche da Justin Mitchell nel film "Songs For Cassavetes" (2001), che ne rivelò le rispettive unicità fondate sulla relazione con una comunità situata geograficamente e che, oltre la musica, si sosteneva reciprocamente anche dal punto di vista sociale e politico.
Le Bikini Kill si imbarcarono da subito in una intensa attività live e nella realizzazione della demotape “Revolution Girl Style Now” (autoprodotto, 1991), mixata da Guy Picciotto (Rites of Spring, Fugazi) – in cui erano presenti anthem come “Feels Blind” e “Double Dare Ya” – e degli Ep “Bikini Kill” (Kill Rock Stars, 1992), prodotto da Ian MacKaye (Minor Threat, Fugazi), e “Yeah Yeah Yeah Yeah”, uno split con Huggy Bear (Kill Rock Stars, 1993). Con la band di casa Dischord avevano condiviso il palco anche in iniziative politiche come l’Abortion March a Dc.
L’emergere del movimento riot grrrl venne subito discusso in maniera tendenziosa e provocatoria sulla stampa generalista statunitense, in articoli usciti per Usa Today o Washington Post, in cui non solo venivano diffuse false notizie sulle vicende biografiche di Hanna, ma venivano rimossi il contesto culturale dalla quale proveniva la musica delle Bikini Kill e le istanze politiche alle quali facevano riferimento. La band stabilì così un “media blackout”, quindi un silenzio stampa con le testate generaliste per evitare che le sue dichiarazioni venissero manipolate dalla stampa, continuando a scrivere musica e ad andare in tour per gli Usa.
Nasce così “Pussy Whipped”, il primo album in studio prodotto da Stuart Hallerman, già dietro al banco-suoni per i Soundgarden, e realizzato allo studio Avast! di Seattle, una celebrazione della forza di una nuova, consapevole idea di femminilità e, allo stesso tempo, un atto di ribellione contro il sessismo e la misoginia. La registrazione è proprio una delle chiavi più riuscite del disco, che abbandona l’asciuttezza e la ruvidezza pungente in chiave punk-rock delle produzioni precedenti, per esprimere un suono più rotondo e corposo. La maggiore “pienezza” sonora è speculare a una scrittura che gioca su più umori e tonalità emotive, meno rabbiosa e a tratti più consapevolmente divertita. Questo “cambio di pelle” possiamo trovarlo fin dai primi pezzi, puramente punk-rock, “Blood One” e “Alien She”, conditi da ironici sing-along.
L’apice di tutto l’angst, caratteristico del suono della band, lo troviamo in “Magnet”, capace di alternare urla (“You don't own me – fuck”) a cantilene punk (“You hold me down like a/ Magnet/ And this is not the life for me”), che si fondono nel finale (“Fuck I've got the love that's strong/ And not weak”). L’ossatura dei testi rimane la medesima, con l’appropriazione e il ribaltamento di stereotipi culturali, espressi chiaramente in “Alien She” (“Feminist/ Dyke, whore/ I’m so Pretty/ Alien”), e il richiamo a un attivismo sul campo che parte dal basso, dalle relazioni:
These are my ruby red lips
The better to suck you dry
These are my long red nails
The better to scratch out your
Eyes
Oltre al punk, troviamo soprattutto le influenze del surf (“Lil Red”, “Tell Me So”) e del garage (“Sugar”), esacerbate in particolare nei brani cantati da Wilcox e Vail, rispettivamente il garage acido di “Speed Heart” e il surf sguaiato di “Tell Me So” e “Hamerst Baby”, vicini alle sonorità dei Beat Happening di “Jamboree” (K/Rough Trade, 1988). Fa capolino in maniera curiosa, quasi a chiusura del disco, una “Star Fish” con Hanna al basso, che sembra prefigurare il suono delle Sleater-Kinney di “Dig Me Out” (Kill Rock Stars, 1997).
L’apice dell’album è rappresentato dal brano manifesto delle Bikini Kill, “Rebel Girl”, inciso dalla band in ben tre versioni: la prima da Tim Green nello split, la seconda da Hallerman per l’album e la terza da Joan Jett per il singolo, che venne registrata per ultima ma che sarebbe uscita prima di “Pussy Whipped”. Jett, che aveva prodotto anche l’album dei Germs "GI" (Slash, 1979), era una fan della prima ora della band e le aveva anche accompagnate alla chitarra in alcune date.
“Rebel Girl” parla di carisma e amicizia, sicurezza di sé e responsabilità, come sempre sovvertendo espressioni di uso comune (“She’s a slut”). È una marcia punk-rock che trasforma l’insofferenza del cantato della strofa in un canto ammaliante e persuasivo nel ritornello, esprimendo tutta l’emozionalità della performance musicale attraverso i versi più rappresentativi del quartetto:
That girl thinks she's the queen
of the neighborhood
I got news for you, she is
They say she's a slut, but I know
She is my best friend, yeah
Rebel girl, rebel girl
Rebel girl, you are the queen of
my world
Rebel girl, rebel girl
I know I wanna take you home,
I wanna try on your clothes
Love you like a sister always
Soul sister, rebel girl
Come and be my best friend
Will you, rebel girl?
I really like you
I really wanna be
Your best friend
Be my rebel girl
Chiude l’album uno dei brani più belli della discografia delle Bikini Kill, “For Tammy Rae”, una specie di ballad agrodolce vicina al suono dei concittadini Unwound, brano che Hanna canta direttamente all’amica e complice di tante azioni ricostruendo infine quel “we” dentro il quale si può intendere, in maniera metonimica, la loro idea di comunità:
I know it's cold outside
But when we're together, I've
got nothing to hide
Hold on tight, I will never let
you down
It can't rain on our side of town
Wipe the sweat from my hair
Tell me we're not better off
Wipe the tears from my face
The sunny side of the street
Where we are
Dopo l’uscita dell’album Hanna prenderà parte a due produzioni video della regista Tamra Davis, il corto “No Alternative Girl” (1994) in cui, proprio per il media blackout, Hanna indosserà un passamontagna (che a noi oggi può ricordare le modalità con cui agivano le Pussy Riot) e il videoclip di “Bull In The Heather” (1994) dei Sonic Youth, con cui l’artista sarà chiamata a “incarnare” gli aspetti subculturali della sua comunità in un prodotto volutamente avulso dagli stilemi del palinsesto televisivo tradizionale, ma pensato per essere diffuso da questi apparati di comunicazione.
Le Bikini Kill si scioglieranno nel 1996 e successivamente Hanna darà vita a due nuovi progetti artistici in cui, con nuove alleanze (Julie Ruin, Le Tigre), affronterà da altri punti di vista e in modo diverso tematiche femministe in relazione, ad esempio, alla bedroom culture – un punto fermo delle pratiche femministe – e alla queer culture.
La band ha rappresentato una delle esperienze non solo musicali ma artistiche e culturali tout-court più significative del rock, chiamando all’azione ragazze di ogni origine e provenienza affinché, con una penna, uno strumento o una stampante, trovassero i mezzi per costruire la propria narrazione e autodeterminarsi in “a man’s world”.
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