Se c’è una data da cui far partire la rovina dei salari in Italia, oggi documentata da tutti i centri studi internazionali e vissuta personalmente da milioni di lavoratori, essa è il 14 febbraio 1984. Allora il governo di Bettino Craxi con un decreto legge bloccò la “scala mobile”, cioè il meccanismo di aumento automatico dei salari che li adeguava rispetto all’inflazione.
Attenzione, è bene sottolineare che, a differenza di quanto poi ricordò la narrazione popolare, il decreto Craxi non abolì la scala mobile, ma la bloccò. Anzi, dopo alcuni mesi di grandi lotte operaie il governo corresse il decreto e ripristinò il meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi.
Alla fine la perdita materiale dei lavoratori fu quella di quattro punti di scala mobile bloccati, circa 25mila lire, che vennero a mancare in busta paga. E tuttavia hanno ragione coloro che attribuiscono al “decreto Craxi” non solo un valore immediato di intervento sulle retribuzioni, ma il significato di un cambiamento strutturale nei rapporti sociali e di classe del nostro paese.
Gli effetti politici e sociali del decreto furono largamente superiori ai suoi risultati immediati, come compresero perfettamente i lavoratori che in quei mesi scesero in piazza contro il decreto, e come affermò il segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che con la lotta contro il decreto Craxi, tra i malumori e i dissensi dell’ala migliorista del suo partito e di gran parte dei vertici della Cgil, condusse l’ultima battaglia della sua vita.
Va detto che anche nei sostenitori del decreto ci fu sin dall’inizio una voluta doppiezza. Da un lato infatti il governo – e Cisl e Uil che concordavano con esso – sostenevano il carattere di emergenza e temporaneità del taglio alla scala mobile. Chi si opponeva veniva accusato di pretestuosità, o come minimo di esagerazione: tanto chiasso per due pizze e una coca cola, disse un sindacalista che sosteneva la misura.
Tuttavia spesso dagli stessi pulpiti poi veniva sviluppata una narrazione completamente diversa. La scala mobile veniva presentata come un male in sé, perché adeguando i salari all’inflazione impediva all’inflazione stessa di rallentare. La “rincorsa tra prezzi e salari doveva finire” e siccome non si voleva più intervenire sui prezzi, il solo modo per fermarla era bloccare i salari.
A questi ragionamenti si aggiungevano quelli di sistema, cioè l’affermazione della centralità dell’impresa rispetto al lavoro e la necessità di ridimensionare – “restituire” disse un altro dei sindacalisti favorevoli al decreto – le conquiste operaie degli anni '70. Insomma il decreto veniva vissuto e presentato come una svolta generale che oggi potremmo tranquillamente definire liberista e di restaurazione sociale anti-operaia.
C’era infine anche una dimensione politica e di relazioni sindacali. Craxi e il suo governo di pentapartito usarono consapevolmente il decreto come strumento di rottura politica con il partito comunista di Berlinguer, ribadendo che si trattava di togliere al Pci quel diritto di veto sulle questioni sociali che aveva maturato già dalla fine degli anni '60.
Lo stesso discorso veniva fatto sul piano delle relazioni sindacali, si trattava anche qui di ridimensionare il ruolo della Cgil nel sistema contrattuale e togliere anche ad essa il diritto di veto. Infatti subito prima del decreto Craxi c’era stato l’accordo separato tra Cisl, Uil, Confindustria e governo per tagliare la scala mobile.
Dopo, il governo aveva trasformato quell’accordo tra le parti in un decreto legge dello Stato, con un atto chiaramente lesivo della libertà contrattuale, che avrebbe aperto un precedente gravissimo in tutto il sistema delle relazioni sindacali. Il liberismo nelle relazioni sociali iniziava con un intervento dall’alto del potere dello stato, che istituzionalizzava la contrattazione facendola diventare legge dello stato.
Per queste ragioni una parte rilevante del mondo del lavoro e soprattutto gli operai delle grandi aziende industriali afferrarono subito la dimensione politica e di potere del decreto e rifiutarono il punto di vista suggerito da Cisl e Uil: è un accordo di emergenza particolare, poi tutto tornerà a posto come prima.
Già il giorno dopo il 14 febbraio iniziarono nelle grandi fabbriche scioperi spontanei di massa. Alla testa della mobilitazione c’erano i consigli dei delegati, ultimo frutto già in crisi, ma ancora operativo, del sindacalismo unitario dell’autunno caldo.
I consigli di fabbrica assunsero una nuova vita e un nuovo protagonismo dopo un periodo di appannamento della loro iniziativa, seguito alla sconfitta subita alla Fiat nel 1980. In molte città industriali i consigli di fabbrica si autoconvocarono, cioè senza nessuna promozione ufficiale da parte dei sindacati, convocarono assemblee di lavoratori con grandissima partecipazione. Ai primi di marzo a Milano si svolse un’assemblea di oltre 5.000 delegati di tutti i luoghi di lavoro completamente autoconvocata.
Questa ripresa di protagonismo operaio veniva chiaramente sostenuta dal Pci berlingueriano e da una parte della Cgil, però non era riconducibile ad essi. In quel movimento erano presenti militanti di tutte le organizzati sindacali, anche di quelle che sostenevano il decreto.
Purtroppo quel movimento dal basso, che avrebbe potuto rinnovare tutto il sindacato, fu subito osteggiato dai gruppi dirigenti di Cisl e Uil e non adeguatamente sostenuto da quelli della Cgil. In quest’ultima organizzazione pesava profondamente la paura della rottura con la componente socialista, che si era pubblicamente schierata con il governo contro il suo stesso sindacato. E poi il leader comunista dell’organizzazione, Luciano Lama, era profondamente legato ai miglioristi e ne condivideva tutte le critiche al “radicalismo” dell’ultimo Berlinguer.
Insomma anche la Cgil, che pure aveva rifiutato il decreto e chiamato alla mobilitazione contro di esso, fino ad una enorme manifestazione di sabato a Roma il 24 marzo 1984, aveva scelto di non andare allo scontro frontale, e infatti non proclamò mai uno sciopero nazionale.
Tutti gli scioperi che per due mesi fermarono il paese, in una dimensione di lotta come oggi abbiamo visto in Francia, erano proclamati dai consigli e dalle assemblee dei delegati. Un gigantesco movimento di lotta, che avrebbe potuto fermare o almeno davvero condizionare la svolta liberista in atto nelle politiche economiche e sociali del paese, fu lasciato spegnersi.
Morto Berlinguer nel giugno del 1984, nel Pci prevalse rapidamente la politica della corrente migliorista e la Cgil tornò subito all’ovile con Cisl e Uil. Tanto è vero che nell’anno successivo, quando contro il decreto fu svolto il referendum che Berlinguer aveva voluto, l’impegno del Pci fu scarso mentre la Cgil proclamò formalmente la sua neutralità, con Cisl e Uil impegnate attivamente contro.
Come sappiamo la scala mobile fu progressivamente ridimensionata con successivi accordi sindacali e infine del tutto soppressa, sempre con il consenso di Cgil Cisl e Uil, dal governo di Giuliano Amato nel 1992.
Da allora i salari italiani non si sono più ripresi, perché la perdita della scala mobile ha voluto dire il venir meno di un elemento fondamentale della retribuzione, senza che nulla fosse messo al suo posto. Che una tutela automatica dei salari dall’inflazione sia necessaria lo ha riconosciuto lo stesso ultimo contratto dei lavoratori dell’auto degli Usa, che ha ripristinato la scala mobile.
Aveva completamente ragione chi allora lottò contro il decreto Craxi, perché sentiva che era l’avvio della resa dei conti e della restaurazione, rispetto a tutte le conquiste sociali del quindicennio precedente.
Forse esagerando, perché in realtà le premesse erano già state poste dalle politiche di austerità dei precedenti governi di unità nazionale, oggi tanti pensionati, lavoratori di allora, sostengono: tutti i nostri guai sono cominciati lì, dal decreto di San Valentino. E non solo i guai dei salari, ma anche quelli della democrazia.
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